martedì 25 marzo 2008

Lepanto - Il glorioso tonfo -

TROPEA- MARZO 1928 - TERRITORIO E SOCIETA
( bozza non corretta nella forma )

Va il pensiero libero sugli appunti sparsi da sempre
nella MEMORIA
dove soltanto essi possono stare in libertà.

INTRODUZIONE

LA STORIA . CREDO CIVILE E RELIGIOSO

…………………per questo si avverte chi dovesse imbattersi in queste che vogliono essere note e riflessioni, di fronte al blà-blà presente e passato senza conclusioni che migliorino la realtà effettuale, che veramente proprio niente è scritto a caso o per ridondanza, almeno secondo le convinzioni meditate in tanti anni di osservazioni, esperienza , ed anche nei limiti delle mie possibili occasionali o mirate letture, nell’aspirazine forse vana di comprendere la tragedia permanente della maggioranza dell’umanità raggirata e brutalizzata da sempre nel corpo e nella mente dall’altra parte minoritaria o minima per numero ma detentrice, come singoli e/o nazioni, del potere politico, giudiziario, economico, poliziesco e militare e dal suo modo di dispiegarsi e realizzarsi nella concreta realtà, e non nelle prolusioni teoretiche ed accademiche dei soloni di turno, oratori, scrittori, filosofi, presunti messia o ciarlatani di tale argomento che non per tutti è un problema, specie per chi in tale sistema complice a vario livello trova, rinnova e mantiene i suoi abusi e privilegi, meglio se garantiti positivamente da espresse leggi.
Peggio ancora quando tali argomenti vengono trattati in rapporto a teorie filosofiche o religiose la cui presenza ed efficacia viene veicolata come saggia o divina, a base o supporto di una società conseguente e giustificata a priori. Tale impostazione divina o filosofica si è rivelata un inganno, anzi ha aggravato la condizione dei molti cui in cambio si offre retorica civile e mistificazione religiosa. Ai fini concreti di qualsiasi annunzio palingenetico di origine civile e religiosa conta SOLTANTO la ricaduta pratica dei suoi ordinamenti che sempre hanno tradito le prediche dei loro profeti e messia anche accettandoli divini, quando non sono gli stessi a recitare la fiction dell’ipocrisia ed usare il grande credo civile o religioso per costituirsi in casta feudale che sa aggiornarsi e riciclarsi da diecimila anni o più. Quanto di orrendo e tragico è avvenuto ed avviene all’interno dell’ebraismo, cristianesimo ed islamismo, è ASSOLUTAMENTE INCONCILIABILE con i loro Libri, i rapporti tra di loro la PROVA SICURA che sono serviti ad una casta per esercitare il potere nel suo complesso.



I REGIMI POLITICI

Il comportamento dei regimi detti liberali e di quelli definiti totalitari è prova storica che solo i ciechi non possono vedere, ma soltanto toccare se non hanno perso pure tale senso.
Quando vigono norme di democrazia all’interno di uno stato che si autodefinisce liberale e rispettoso con leggi positive dei diritti fondamentali dei suoi cittadini, tale stile non vale niente nei confronti degli altri popoli comunque soggetti e massacrati economicamente ed anche letteralmente con uccisioni che non fanno alcuna impressione, se non in una piccolissima parte, nella coscienza del popolo oppressore. Perché la storia dell’umanità se giudicata in base a quei presunti valori civili e religiosi che in teoria sono splendidi, è stata sempre una sequela di guerre di conquista verso l’esterno e privilegio protetto dalle armi e dal diritto positivo di una minoranza all’interno: forse è inevitabile per la natura dell’uomo, ma è così ed oguno poi ha il diritto a trarre le proprie conclusioni sui vantati valori. ( A FIUME VANTATO NON ANDARE A PESCARE). Infatti se andiamo ad esaminare lo scontro armato tra tali istituzioni politiche che si sono ispistate agli stessi valori vien la voglia di gridare a cosa servono e perché tradiscono regolarmente i loro – valori e principi-

LA GUERRE
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. L’umanità è soltanto storia di guerre ed oppressione tra i singoli ed i popoli e pur tanti definiscono progresso gli strumenti sempre volti a meglio praticarle.
La storia è stata sempre violenza ed il debole o sconfitto ha avuto sempre torto anche sul piano etico e delle responsabilità, quando si arriva alla conclusione. Questa prassi da sempre adottata deriva dall’errata convinzione che le tragedie fra i singoli uomini e le nazioni scoppino all’improvviso, mentre invece avviene come per i terremoti: l’energia aggressiva accumulata ad un certo punto provoca una rottura che si chiama guerra. Lasciando la geologia delle placche terrestri, questo significa che nei fatti deprecati è falsariga a posteriori cercare le cause se non si è capaci di indicarle mentre gli stessi uomini le vanno accumulando con la pretesa di essere ognuno nel giusto. Ognuno nel giusto e si richiama a quei valori universali accennati, solo come gli fa comodo indicando nel nemico fabbricato il trasgressore privo di valori perché intralcia la nostra sete di potere e ricchezza a costo della fame, schiavitù e morte del fratello stesso, per nascita, nazione, religione, od anche soltanto in quanto uomo concorrente PRESENTE SULLA TERRA COME NOI.
Questo dura dagli albori della historia che fino ad oggi ha visto cambiare la base teorica del potere civile e religioso ( leggi e religioni) tante volte, e sarebbe antistorico dire che tale processo si è fermato: fra mille, diecimila anni o centomila o un milione di anni, se si vuole, tali teorie civili e religiose saranno viste esattamente come noi oggi vediamo quelle prima dell’anno zero della nostra epoca detta cristiana in Occidente, mussulmana dopo l’Egira nei paesi arabi.

VERSO LA MAGNA GRAECIA

MEGALE ELLA’S ISTORI’A KATA’ TO’ ANTHRO’PINON

Altre religioni e forme di stato non prevedibili nasceranno soppiantando a parole le attuali, certamente saranno come la moda che cambia e vestendo lo stesso uomo cambierà solo l’apparenza, la fenomenologia e non lo spirito. Saremo tra poco con i nostri fatti tra Grecia e Magna Grecia ed i nostri crociati si troveranno tra poco tra le isole ioniche da Zacinto a Corcira, colonia corinzia la cui emancipazione dalla madre cominciò a profilare la guerra del Peloponneso, secondo lo storico della stessa. In rapporto alla quale Tucidide (I,22,4) esprime la condivisibile certezza che per la comprensione degli avvenimenti passati e futuri bisogna tener presente che essi accadono secondo il carattere dell’uomo o la natura umana o il genere umano (katà tò anthròpinon) che gli avvenimenti ha determinato e determinerà. Il passo ha sfumature nelle diverse traduzioni ed edizioni, ma , a mio avviso, con realismo che non concede niente al favoloso o miracoloso, lo storico prende atto che da molto tempo la natura umana si è stabilizzata e tale sarà per un lontano futuro. Non ci sono interventi divini nelle faccende umane, anche se tutto dall’epilogo al prologo, si svolge nel raggio di circa cinquecento chilometri dell’oracolo delfico sotto il Parnaso e l’Elicona, e dentro tale spazio non era il solo che interrogato poteva, con le sue risposte, ritardare o accelerare i tempi ed i modi di una guerra. Quello che è successo dopo di lui, fino a Lepanto gli dà ampiamente ragione: il cambio di formazioni politiche, dalla polis ai grandi stati, in Oriente ed Occidente, con nuova religione, cristiana o islamica, ha soltanto ingigantito la carneficina umana. Eppure entrambe avevano promesso e predicata un’ era nuova e di gran lunga migliore ai rispettivi adepti e neofiti, accorsi ingenui fino al sacrificio della vita proprio contro le preesistenti religioni e per essere martiri-testimoni della loro fede che li aveva pur fatto rinascere. Finchè si arrivò presso Lepanto allo scontro armato fra di loro, preceduto da millenni di carneficine tra le fazioni al loro interno, con in gioco il potere nel senso lato, il tutto in nome della fede che ognuno pretendeva e pretende ancora difendere nella sua versione vera ed originale. Questo avevano predicato i loro profeti ispirati dallo stesso Dio? I rappresentanti attuali ai più alti liveli cerchino di essere un po’ seri e quardando alla storia si interroghino perché i loro apparati religiosi sono così tragicamente falliti, provino a cambiare rotta cominciando da se stessi, senza nascondersi dietro alcune figure cosi’ rare ed inascoltate da venir sublimate o perseguitate fino al rogo o alla spada.


LA FIUMANA DELLA STORIA

La storia in ogni momento presente scorrendo è come un fiume alla foce; la sua qualità e portata sono la conseguenza di tutto ciò che confluisce nel suo bacino ed alveo dalla sorgente alla foce stessa e responsabili non sono solo quelli che abitano presso la stessa, anche quelli che risiedono accanto alle sue prime sorgenti, in pianura o montagna anche a diverse miglia di distanza, compresa la qualità geologica delle terre attraversate. Lungo gli ultimi 3000 chilometri del Nilo può anche non piovere per un anno e la sua portata essere regolare, le sue sorgenti sono a 5000 chilometri, all’equatore. Così tutto quello che ab initio in senso lato è stato fatto sul pianeta terra dagli uomini, animali e piante, comprese le evoluzioni geologiche dello stesso, determina lo stato presente in senso lato di tutti noi. Quindi di ogni fatto deprecabile va ricercata l’origine: responsabile della morte di un innocente non è il boia che considera il suo ufficio un lavoro normale, ma il sistema ideologico, politico, religioso e sociale che in base a valori ritenuti validi, lo ha condannato: Ifigenia e Janne d’Arc sono la stessa persona che viene sacrificata per il potere della classe dominante che ha bisogno del delitto sacro per coprire la sua vera natura sanguinaria. Ora qui si da solo l’incipit dei capitoli che precedono quello relativo a LEPANTO, tralasciando completamente quelli che lo seguono. Da essi si intuisce il tentativo di esplorare e presentare la vita a trecento sessanta gradi, di questo territorio in ogni tempo, in base alla letteratura esistente e scarsa memoria nell’archivio comunale per irresponsabilità di chi lo ha lasciato disperdere o di chi nasconde ancora documenti utili per boria di famiglia. Il tutto umilmente per farla conoscere senza avere alcuna pretesa, forse un giorno ………..vedrà la luce e già dichiaro a futura memoria che non mi interessano i prevedibili giudizi dei prezzolati a vario titolo anche se non si rendono conto. Mi rendo conto che tanti si possono sentire calunniati o colpiti, o ignorare quanto segue perché sanno che gli Italiani si sono rassegnati agli abusi anche legali di non pochi a danno dei molti……..perchè il mondo è andato sempre così. Se qualcuno dovesse irritarsi anche solo per fiction gli ricordo la cantata della Norma di V. Bellini che si svolge tra sacerdoti e vestali in vista del rogo, ed il generale romano Pollione ai tempi di Cesare:
- A ME SOLO IL TUO FUROR, RISPARMIA ALMENO GLI INNOCENTI.






CAPITOLO I

LA COINCIDENZA

Quella mattina del 23 marzo 1928 verso le nove il sergente pilota Salvatore Di Meglio della Regia Marina lasciando in volo la base degli idrovolanti di Augusta per un normale trasferimento di addestramento a Nisida, non immaginava certo che con la sua disavventura avrebbe dato conferma alla secolare convinzione del popolo tropeano tenuto a lungo analfabeta e nelle mani di magare e streghe, che – Matrimoni e Viscuvati du celu sugnu calati ………mentre una ventina di famiglie per scampare al definitivo declino, i matrimoni li avevano combinavati al loro interno a ripetizione al punto che geneticamente alla fine erano peggiori dell’incesto e poi dai balconi esibivano i cefalari…………

Quella mattina del 23 marzo 1928 verso le nove le ragazze del laboratorio delle monache di santa Giovanna Antida lasciando alla stessa ora la sede della loro scuola presso il monastero per donne monache di santa Chiara di Tropea, (che si vuole fondato ancor prima di quello maschile dei Francescani Conventuali in fondo nord di largo Galluppi,) per recarsi dopo tante insistenze alla Marina del Vescovato in quell’inizio caldo di primavera, non avevano certo messo in conto un rientro anticipato, rapido e concitato, quanto lento e spensierato e sognatore era stato il loro andare verso il mare scendendo lungo la scala dei Reali Carabinieri, dove all’osservatore attento del territorio non sfuggono le varianti che la stessa scala ha subito nei secoli. …………………..Forse funzionò la divina armonia prestabilita di Malebranche … ………………………………………………………..






CAPITOLO II

LA MADONNA DI ROMANIA

Avendo dunque la nostra Madonna di Romania anche in questa occasione operato il miracolo, cercherò di delinearne, sempre in base alla letteratura fin qui prodotta e di mia conoscenza alla quale debbo tutto, l’origine del suo culto nella nostra città, culto che ha retrocesso in secondo piano quello per Santa Domenica vergine e martire, mentre la Madre del Verbo, Dio incarnato, dalla Chiesa con diverse motivazioni teologiche lungo i secoli è stata definita semper Virgo Maria Mater Dei nel corso di infinite ed accanite dispute conciliari con gli- eretici- orientali ………











CAPITOLO III

COSTE E PORTI IN CALABRIA NEI SECOLI

STORIA DELLA – STAZIONE - PORTUALE DI TROPEA

FRONTE DEL PORTO IN CALABRIA

Il nostro pilota che era riuscito a condurre in condizioni disperate il suo velivolo fino a Tropea rischiò di sfracellarsi proprio sulla punta della diga foranea quasi ultimata a quella fine marzo del 1928, la superò di qualche metro appena non avendo più il governo della sua macchina volante che in misura lenta ma inesorabile perdeva quota. Allora dobbiamo ripercorrere come nei secoli si arrivò con molto ritardo alla costruzione a Tropea di un molo che corrisponde alla prima parte in pietra ora prolungato in cemento nella stessa direzione nord-est, e completato dal molo sottoflutto ad est, formando così il porto salato di Tropea che si trascina tutti i difetti tecnici del primo molo aggiungendo l’interdizione alle piccole barche tropeane per il prezzo richiesto, forse per la presenza invisibile nello stesso di un sottomarino come quello austriaco che malelingue dicono nella prima guerra mondiale accostasse sotto Tropea e fosse rifornito da un traditore tropeano venduto agli Austriaci. Si dice che fosse………..Sarà leggenda ma il siluramento in mare presso Tropea, poco al largo di Santa Domenica, di due vapori è ancora una maledetta coincidenza …………che non vogliom mai ritenere divina…………..
La tragedia dei naufraghi è riferita negli appunti olografi dell’allora parroco di detto casale e riprodotti proprio nella rievocazione di – SANTA DOMENICA DI TROPEA- in uno con l’attuale parroco nel 2003, in occasione del XVII anniversario del martirio secondo l’agiografia dei santi. ...........................



CAPITOLO IV

ACQUA FONDI MULINI NELLA STORIA CIVILE DI TROPEA

………………ma egli era ancora stordito per il pericolo anche se superato, ed intontito da quella figura e da quel volto con quegli occhi che si sforzava invano di trattenere nei suoi, non dava ascolto alla loquacità del suo vetturino e piuttosto fu attratto alla prima curva dal mulino col tetto a volta e da un asino sul cui basto si caricavano sacchi bianchi, evidentemente di farina, mentre un altro pur carico di grano si avvicinava. Era il terz’ultimo mulino nella – Calata di mulini- degli oltre venti dal monte al mare, mossi non dal rigagnolo Lumia che egli aveva da poco superato sopra un tunnel che resta sempre una grave minaccia di alluvione per la Marina del Vescovado, ma dall’acqua del Vormeria- Burmeria o Bormeria deviata attraverso un capolavoro idraulico forse già mille anni fa. E noi vogliamo provare a soddisfare la sua momentanea curiosità facendo la storia della preziosa acqua nel territorio di Tropea, perché la sua mancanza dentro le mura di difesa, mentre fuori e nelle vicinanze abbondava, fu il solo punto critico che ebbe a soffrire la nostra città in diverse occasioni anche perché il suo uso e disponibilità pone gravi problemi sulla terra e sarà causa di scontri armati……….






CAPITOLO V

IL TERRITORO

LE PRINCIPALI EMERGENZE ARCHITETTONICHE A TROPEA

Arrivati all’angolo sud di palazzo Giffone il vetturino lasciò lesto la sua predella ed aprì dinanzi al maresciallo la porta della sua carrozza al pilota come se fosse stato lui l’autore del salvataggio. Posso immaginare il suo volto ricordando quello del suo erede- Murecci- quando appiedato ebbe il compito di condurre e tenere per le briglie un cavallo bianco sul cui dorso fece il suo ingresso solenne a Tropea il penultimo vescovo di tal nome: monsignor Agostino Saba prima che si avviassero riducendone dopo secoli il numero, le nuove circoscrizioni vescovili. Ora l’ospite pilota e naufrago fu accolto con affabilità senza affettazione ed introdotto dall’entrata di fronte allo stesso palazzo nella caserma unita al carcere che aveva l’ingresso lato sud al fondo di largo Galluppi accanto alla chiesa di san Francesco oggi detta san Demetrio dopo essere stata dell’Immacolata ed anticamente san Pietro apud Ripam. Siamo nel complesso edilizio sorto per accogliere a fine duecento i Francescani conventuali nati dopo la scissione dei fraticelli di Francesco e dallo stesso Dante deplorata. Forse allora si rende necessario ricostruire per il nostro inaspettato ospite la storia dello sviluppo e formarsi dell’edilizia religiosa in Tropea lungo i secoli almeno dal mille ad oggi, non avendo per l’innanzi notizie se non indiziarie………………e poi provare a riassumere che cosa è successo dal 1783 col Sintes e gli altri che liberi o asserviti invano hanno provato a regolamentare il nostro territorio e le cause del fallimento………..fino alle prospettive incerte del presente…………..
























CAPITOLO VI

LEPANTO

NAUCAPTOS

IL GLORIOSO T(RI)ONFO.

L’annu passatu si vruciau Nietu, ancora aquannu tu sienti lu fietu?
Si lu veneri era ciotu, e lu sabatu sbertiu ?
Di ciciri u brodu, di previti i paroli.
Nasci e u previti pasci, ti mariti e u previti mbiti, mori e u previti godi.
Cu i sordi e l’amicizia, nculu a la giustizia.
Dammi uffciu ca mi vestu.




IL MAGNA MAGNA

……..…Quella mattina uscì il nostro pilota di buon’ora, al quarto giorno dopo l’ammaraggio nel porto dove ora si trova il molo sottoflutto, superando a pelo la diga foranea al suo termine, visibile ancora dove alle pietre tratte dalla Pizzuta si attacca il cemento del recente prolungamento che ha comportato anche lo spostamento tecnico della lanterna al suo termine. Incidente che gli sembrava tanto lontano, quanto vicino l’inatteso incontro sulla spiaggia che lo esaltava ma anche lo tormentava in una condizione dalla quale voleva uscire. Il maresciallo lo incoraggiava a distrarsi ma pur avendo saputo dell’episodio dei fiori non credeva che ora fosse preminente nella sua più che tristezza, quasi vaghezza di comportamento. Lo comprendeva ritenendo che dopo simile avventura sia pure a lieto fine chiunque avrebbe avuto bisogno di tempo per riprendersi.
Lasciando la caserma dei RR. CC. ( Reali Carabinieri) vide a sinistra i cavalli già fuori della stalla e col sacco appeso al collo facevano la loro colazione di avena ed orzo battendo ogni tanto uno zoccolo anteriore sul dissestato selciato per liberarsi di qualche mosca ma anche per vezzo sollecitato dal pasto, come il vitellino dimena la coda quando sugge col latte la vita dalla mamma sua. I cavalli erano gli stessi che sgambavano sulla spiaggia la mattina del suo impatto nel porto di Tropea ed erano ancora in dotazione ai CC a Tropea fino agli anni sessanta del passato secolo. Il porto (lo abbiamo visto) era opera finanziata dalla prima legge speciale per la Calabria dopo il terremoto del 1905, ripetutosi nel 1908.
( La Sardegna l’aveva già avuta, forse in omaggio al titolo reale acquisito con il suo possesso dalla nostra non certo illustre rea progenie, la dinastia savoiarda, quando nel 1718 lasciando con il trattato di Londra la Sicilia si dovette contentare della Sardegna che gli diede il titolo di re.) Seguirono tante leggi ed addizionali –pro Calabria- il loro uso e sperpero non è oggetto delle presenti note in questo punto.

LA CASTRAZIONE


I cavalli erano castrati (sanati – segnati) per essere governabili durante il servizio e non disarcionare i loro cavalieri in divisa sentendo la presenza delle giumente – spirante il favonio- od anche delle asine che allora erano numerose nel circondario. Tale caratteristica si otteneva o con la asportazione dei genitali come avveniva per i maiali, o rendendo gli stessi atrofizzati: per tali interventi si occupava o un veterinario ed a volte anche un esperto che girava per le campagne.
Oggi si discute come combattere la pedofilia e si parla di possibile castrazione chimica da parte dei nostri politici che con le parole da anni castrano la mente e la tasca degli elettori. Adesso è necessario un metodo ecologico anche per i pedofili quando tali vengono riconosciuti per patologia clinica: lasciamo stare la chimica inquinante, al primo abuso si proceda immediatamente alla castrazione chirurgica completa come si faceva per i cavalli, concedendo soltanto l’anestesia locale o totale a loro scelta: certamente gli orrrori non verrebbero reiterati e non ci sarebbe problema di carcere. Questa proposta non è barbarie, con prove ad ogni reato la sua pena certa ed immediata, quella del recupero del reo in genere ad ogni costo è un’ipocrisia che incoraggia tanti a delinquere in ogni campo della vita sociale.
I nostri cavalli castrati erano assolutamente pacifici, i ragazzini dei bassi circostanti sovraffollati potevano infilare la mano nella sacca con l’orzo o avena per trarne un pugno alla volta: la mamma con l’attorrante costruito dai forgiari di via Umberto I ( quello ucciso a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci), avrebbe loro servito il caffè d’orzo autarchico, ma in effetti per loro il solo possibile. Qualche chicco di avena ed orzo cadeva per terra o veniva fatto cadere dallo stalliere avendo notato che venivano a beccare le galline di una vicina con casa al piano terra di Palazzo Fazzari su largo Galluppi lato rupe.
La scala di tale palazzo si trova incorniciata nel Comune di Tropea, ma recandosi sul posto c’è solo da inorridire per la condizione dell’intero stabile posto sulla Ripicella orientale, soggetta nei secoli ai più impensati usi. Il suo recupero alla funzione primitiva sarebbe una iniziativa lodevole che darebbe lustro alla nostra città aprendo una visione immensa sul porto e sull’orizzonte di nord-est, come nel passato. Si tratta di far proseguire la ricostruzione-restauro del portico sulla rupe da palazzo Collareto, con accesso dalla cappella di santa Margherita fino alla fine sud di palazzo Fazzari col vicolo che si ricollega a largo Galluppi che aspetta di essere qui riportato. C’è un problema sotto gli archi visibili dal porto: sotto il loro appoggio la roccia è erosa e concava per la sua natura diversa da quella sotto i Conventuali e perché a suo tempo furono eretti a poca distanza dall’appicco la cui base fu erosa dal mare fin quando la lambì anche con forza spinto da grecale e tramontana: pericolo non immediato, ma non troppo lontano. San Leonardo protesse in parte nei secoli la base sotto i Conventuali.

L’ERBA VERDE

I chicchi di avena caduti o fatti ad arte cadere favorivano la produzione di uova delle galline coabitanti con gli umani ( i porci e gli asini le avevano precedute sotto tanti palazzi entro le mura, a parte i cavalli per le carrozze) al piano terra di palazzo Fazzari: il favore sarà ricambiato per i cavalli col più lieto sviluppo per chi accudiva gli uni e le altre. Ad un certo punto le galline cercavano gli aridi, mentre un cavallo cercava erba verde e fresca che solo poteva assaggiare quando era in servizio fuori città se il reale carabiniere gli lasciava libertà di pascolo sul margine di un sentiero. Però un cavallo aveva notato che nelle aiuole degli alberi, di fronte alla casa delle galline, cresceva l’erba fresca e lasciato libero si recava innocuo a rinfrescarsi la bocca resa arsa dall’avena. Passava davanti a palazzo Collareto adibito ad ospizio per anziani, sul cui frontone si leggeva: FONDATO DAL BENEFATTORE D’AQUINO. In tale percorso incrociava le galline che cercavano l’avena stanche di beccare l’erba verde che gli rattrappiva la bocca. La patrona di queste ultime lo aveva viziato offrendogli con qualche zolletta di zucchero anche un tuorlo d’uovo prodotto con l’avena che gli cadeva dal sacco, ed il cavallo si presentava regolarmente avvicinandosi al portone pacificamente reclamando il compenso per aver pasciuto le galline. Così coccolato il cavallo si infilava nell’ampio atrio del palazzo e si presentava alla porta della signorina e sapeva attendere con pazienza o solo solleticava con lo zoccolo il pavimento come se suonasse il campanello. Le galline in quell’ampio largo che il Sintes volle creare, tornavano da sole a casa mentre era alto il rischio che correvano quelle che razzolavano nei vicoli rincorrendo il cibo e qualche raggio di sole, come vedremo all’incidente successo alla madre di Maciola. Lo stalliere doveva andare a prenderlo chiedendo scusa alla signorina per il disturbo ed in cambio non gli mancava un caffè autarchico offerto dalla stessa che con lui voleva apparire cortese almeno quanto con il cavallo. Rispetta il …cavallo per amore del patrone. E così si arrivò al loro matrimonio ed i cavalli dei CC non più RR accuditi dallo stesso stalliere che tutti gli studenti degli anni sessanta possono ricordare, ancora sgambavano sulla spiaggia sotto gli occhi degli alunni del liceo Galluppi sito in palazzo Giffone.

AD OGNI TERREMOTO


Qualcosa di nuovo ad ogni morte di Papa, ma per la Calabria non vale. La scadenza è regolata ad ogni terremoto: come il primo molo del porto di Tropea del quale si discuteva da secoli, (da questo punto di vista la Sardegna asismica è sfortunata), ed ora stava per essere ultimato, tra le proteste per gli errori tecnici, a nord-est del S. Leonardo scampato alla totale demolizione per trarne blocchi di tufo e del quale abbiamo già discusso.
Uscendo dal portone dei Francescani Conventuali, altrove ricordati nel decreto del vescovo Giordano per il loro arrivo a fine Duecento, vide quei cavalli fuori della loro stalla e foresteria, ora in fase di restauro, costituita da quei locali che una volta erano serviti ai muli usati dai monaci per recarsi nei Casali per le loro prediche periodiche e missioni nelle –Indie di quaggiù- come diranno i loro concorrenti Gesuiti che a fine Cinquecento si piazzeranno di fronte a loro con in mezzo palazzo Giffone che i Liguorini, loro successori in quel collegio, tentarono invano di acquisire nel periodo in esame, presentandosi all’asta con 80.000 lire non sufficienti a superare l’offerta di chi in tale gara si aggiudicò la vittoria, ma non onorò gli impegni truffando anche un suo parente che poi sarebbe stato il secondo sindaco del dopoguerra a Tropea cacciando dal nido la sindachessa che tale carica riteneva propria come retaggio di famiglia del Sedile. Vedremo come nel pomeriggio dello stesso 27 marzo 1928 il nostro Filostrato girellando capiterà nel Sedile dei nobili di piazza Ercole e mentre si acculturava su Tropea, fu sorpreso dal passaggio della solenne processione della Rumanea.
Ma tutto questo egli non conosceva da turista involontario, egli era prigioniero della visione dell’inatteso incontro sulla spiaggia: niente esisteva più per lui colpito da quel volto che non riusciva a ricostruirsi nelle notti insonni che seguirono. Anche chiudendo gli occhi per concentrarsi riusciva ad evocare e delinearsi la figura giovanile e schiva, ma quando cercava il volto che in pochi secondi lo aveva abbagliato con gli occhi giovinetti, gli appariva soltanto una luce densa come dopo aver puntato o sole mio. Chi non ha provato e rimasto vittima almeno due - tre volte di tale abbaglio non può comprendere. E’ facile dire poi abbaglio a distanza di decenni. Ma egli non sapeva forse che lo aveva trafitto Cupido con la sua magia, né cercava di ragionare semplicemente non era in grado.









I BAVOSI CANTORI

Questa nota mitica si rende necessaria perché con le flotte amiche e nemiche tra poco muoveremo e resteremo sempre tra Megale Ellas ed Ellas nel mar Ionio tra la Calabria e la Grecia dall’imbuto del golfo di Patrasso a poche decine di chilometri a nord. La Ionia vera e propria è l’insieme delle isole con la prospiciente costa anatolica. Ed io nel palazzo Giffone chiuso tra Conventuali e Liquorini frequentai il Liceo Classico. Allora nessuno mi disse niente di niente.
Ed è anche necessario omaggio ai nostrani Bavosi Cantori della Magna Grecia, MEGALE ELLA’S richiamata con discorsi meravigliosi, sia sulla stampa che in televisione: così si pretende un glorioso passato da valorizzare, da scoprire come percorso culturale ….e poi hanno gli occhi chiusi e la penna senza inchiostro di fronte allo scempio delle coste anche sopra i resti della loro Magna Grascia. Debbono essere deferenti di fronte ai loro sponsor politici di turno ed alla ereditarietà del loro posto nel piccolo video ( il feudalesimo è una costante della società dell’uomo: rendita di posizione-prebenda e viene adattato ai tempi secondo la teoria che Darwin dà alla natura nella lotta per la sopravvivenza che comporta anche la sparizione dell’altro). Sono già tanti che ereditano il posto da padre in figlio, non vedo dunque perché gli altri che pur - hanno famiglia- non possano esercitare tale diritto di ereditarietà pagando l’adoa con essere servizievoli e non disturbare con inchieste preventive l’operato visibile ed invisibile dei potenti di turno e dei loro collegati alla caccia di posti di comando e redditizi, oltre che di controllo degli – aiuti europei-.. Ed allora noi possiamo fare gli indovini prefigurando quale saranno i volti dei giornalisti televisivi in Calabria da qui al 2100 con tutto l’albero genealogico con rispetto parlando per le foreste della Sila. Altro che casta, quelli di essi che tale sistema hanno adottato sono una corporazione che tiene i segreti non del mestiere come i capi bottega di un tempo, ma i segreti di accesso, oppure li ha brevettati con visite ad limina al potere politico di turno con informazione atrofizzata e sempre postuma, come se il torrente alluvionale della corruzione nascesse all’improvviso dal monte e non dalle nere nubi ben visibili che lo sovrastano. Poi quando vanno a seguire le processioni superstiziose di gente nella vita pratica senza fede o le apparizioni frequenti di miracoli, la loro lingua si scioglie in cantici di misticismo magico che superano quelli di Salomone e neanche si domandano come da tanta fede popolare possa nascere in Calabria una società così barbara e crudele, di fatto negatrice di ogni valore religioso o civile, o se la gara di esibizione da parte di alcuni in tante manifestazioni anche religiose non sia altro che segnale di fiction ipocrita. Suggerisco loro di controllare quanto a proposito di ipocrisia dicono il Vangelo ed il Corano. Ma bisogna assicurare la successione dinastica passando indenni tra Francia e Spagna. Ed hanno anche alcuni di essi il coraggio di richiamare la scuola all’educazione, al rispetto dei valori civili per un nuovo modo di governare, ma essi si conservano il vecchio feudale.


ESTATE 1571

Nell’estate del 1571 le flotte abbracciavano la Calabria lungo i due mari che la bagnano e le coste erano ben diverse da quelle attuali. I bavosi cantori nei loro –servizi- non vedono lo scempio che si consente sul nostro territorio e nel tessuto sociale e solo quando qualcosa emerge per il coraggio morale e fisico di qualche magistrato che espone a pericolo la sua vita ed al quale deve andare tutta la nostra gratitudine umana ed istituzionale, si esibiscono in litanie come se nessuno sapesse niente e adesso loro coraggiosi lo comunicano a tutti, loro, figli di quel sistema che si guardano bene dall’indagare e valutare in anticipo: mentre si chiede all’indifeso calabrese di rompere l’omertà in aulici sociologici ed antropologici congressi pretendoli a cultura, alla quale ci si richiama per il riscatto della Calabria. Cultura significa prima di tutto ricerca della verità sul piano teorico e pratico per verificare se entrambi i momenti non siano stati un grande inganno come spesso accade. Quando affiorano i bubboni della corruzione diffusa e della collegata violenza di chi vuole impadronirsi dei fondi pubblici e del territorio o di tutte quelle attività che conducono al denaro non sudato, i nostri bavosi cantori con diritto feudale si esibiscono da inviati con enfasi guardinga e delicata come se si trovassero di fronte ad un fatto imprevisto ed imprevedibile in una regione dove regna l’ordine e la legalità: così il vate dell’agraria meridionale contro i contadini giudicò il fascismo, non sapendo spiegare come dalla sua grande Europa liberale vennero fuori le dittature che non lo disturbarono, ma massacrarono il Vecchio Continente che trascinava da secoli proprio nella sua cultura le premesse delle guerre ed orrori del secolo breve. Due flotte amiche nell’estate del 1571 abbracciavano la Calabria dirigendosi per unificarsi in Messina, così come oggi la piovra della corruzione e violenza la avvolge lungo i due mari senza soluzione di continuità. Ed i nostri amici inviati speciali fanno servizi sperticati sulle lacrime della Madonna o sulla grande fede che si manifesta nelle processioni di santi, ma non debbono esaminare in maniera preventiva e denunciare l’esercizio del potere e le sue ricadute pessime su di tutti.

I SACRI RECINTI


Quel che avviene lungo le nostre coste anche presso o sopra i resti archeologici definiti dai sacri recinti, che rendono la regione piena di storia che non viene mai definita se non con la retorica, addirittura con i fondi pubblici i cui proventi illeciti finiscono al Nord o nell’Europa dei Fondi Comunitari, non interessa la cultura. Vadano a vedere e riferire costoro come è stato ridotto ogni luogo mitico della loro Magna Graecia ed abbiano il coraggio civile di indicare le varie connivenze ed il relativo commercio di compatibilità ambientale di tali interventi che fanno rabbrividire. E come hanno ottenuto tutti i permessi, con l’accesso ai finanziamenti pubblici per devastare le coste dove il mare da cinquanta anni sta avanzando? Problema già discusso. La mareggiata permette poi loro di invocare lo stato di calamità naturale ed altri soldi. Altro che percorso di Enea ed Ulisse che ognuno reclama sbarcati sulla spiaggia sotto casa o su isole inesistenti, almeno ora: la pietas per la terra di Italus renderebbe Enea triste e sconsolato rimpiangendo di non essere rimasto nell’alcova di Didone per la sua propensione monogamica, ma Odisseo eroe dalla mente colorata,( Citati) con spiccata tendenza alla normale poligamia dell’uomo e della donna (carattere sfuggito ai nostri), se tornasse a navigare i nostri mari, andrebbe ad Itaca e tornerebbe indietro con il suo fatale arco per saettare prima i nostri Proci ( applica metastasi) e poi i suoi. Chiediamo il ritorno di Ulisse con l’arco non del sindaco di Itaca da turista. Non c’è speranza che i nostri bavosi cantori di una Calabria, sempre in via di ripresa anche se sempre in agonia, facciano mai un’inchiesta libera dalla loro carriera. Bravi nella piaggeria melensa delle tradizioni o folklore o processioni di fede che restano di fatto una parata come i cavalli di tal nome, in cui il carnefice celebra e segue la sua vittima, non danno fastidio a nessuno. Essi scoprono sempre qualcosa che dà un valore in più a certe iniziative con il denaro pubblico, anche se dopo segue regolarmente l’intervento della Magistratura per truffa.






IL MAGNA MAGNA

Essi sanno il potere dei media, ma non rischiano: della Magna Graecia dopo secoli di servitù è rimasto solo il MAGNA MAGNA come chiameremo la Calabria da qui in poi. Un moderno feudalesimo che avvinghia la Regione dove tanti con stipendi d’oro che offendono il cittadino normale dimenticano di avere dei precisi doveri in base al loro ruolo e si sentono catapani bizantini, satrapi persiani che si ribellavano anche al Grande Re, esercitando a volte non le loro funzioni ma la loro discrezione di fronte alla quale non c’è uguaglianza di cittadini. PRESIDENTE LOIERO!!!!!!!!!!!!! BADI PRESTO E MEGLIO A TUTTO QUESTO, o sarai travolto innanzi tempo all’Orco, dall’ira di Achille del popolo che userà la matita elettorale come frassino d’eroi sterminatore. .
Mi permetto tanto perché siamo tra “ELLA’S e M E G A’ L E “E L L A’ S ed il SUO nome da quella lingua non deriva, ma direttamente è trasposto con richiamo al divino, o’ i’e r o’s : - sotto divino influsso-, vigoroso, forte, potente, baldo, ammirabile, eccelso, sacro, santo, divino, sovrumano, sotto la divina protezione ( ROCCI ). Non scambi niente per ironia , ma nell’anno 500 dalla morte di Francesco d’Alessio ( S. Francesco di Paola) onori letteralmente il suo nome scrutando come funziona la Regione Calabria nel rapporto col normale cittadino che non ha santi in paradiso, quando per una semplice pratica deve fare centinaia di Km ed essere trattato spesso come don Abbondio trattava Renzo. A meno che…… La trasparenza e l’uguaglianza dei cittadini sarebbe una rivoluzione i’e r a’ in Calabria. Prenda esempio da Francesco – zirrusu- che portava il bastone non per sostenere le sue membra che non furono mai stanche, ma per colpire coloro che pur ammoniti perseveravano nella loro prepotenza contraria al Vangelo. Se non ci saranno chiari segni in tal senso Ella e colui che Eva fece scacciare dal Paradiso, potete avviarvi all’Inferno-Orco fin d’adesso. Chiaro? Perché il denaro pubblico paga un contributo pesante al perpetuarsi di questo feudalesimo politico che ha creato una nuova classe di feudatari e vassalli e il cui impatto negativo non è minore della ‘ndrangheta vera e propria che spesso con alcuni di essi opera o con essi si identifica, stando alle quotidiane cronache giudiziarie. E come si può parlare di omertà del normale cittadino di fronte a tale contubernio? Se aspirano ad essere giornalisti seri i nostri cantori di litanie si dedichino –da padre in figlio- ad indagare sull’uso del flusso di denaro pubblico facendo anche conoscere a tutti il trattamento economico vergognoso riservato agli alti dirigenti nelle Regioni e come vi arrivano. La regione, invocata per avvicinare le istituzioni ai cittadini è diventata piovra più vicina che avvinghia anche con piccoli tentacoli ed ai cittadini stessi da vicino fa vedere le ingiustizie che il potere codifica. Bisogna pagare le tasse, ma per lo scopo dovuto e non per mantenere privilegi e caste feudali: ci rendiamo conto che sarebbe argomento pericoloso suggerire al cittadino la disobbedienza civile non pagando i tributi o riducendoli opportunamente: ne approfitterebbero a volo gli specialisti di tale pratica che fanno finanche i moralisti e si accorgono di certi problemi appena lasciano i dorati scranni. Esaminiamo quali sono oggi abusi feudali e commende di milioni di euro ed eliminiamoli : la democrazia sta morendo per questa classe casta politica che si fotte 50 miliardi di euro l’anno dal costo stratosferico del Quirinale ( con rispetto parlando per chiunque lo occupa) al consiglio comunale di paesi con cento abitanti, senza rispetto parlando. Leggano costoro la – STORIA DEGLI ABUSI FEUDALI- di WINSPEARE e si riconosceranno bene.







IL TURISTA IGNARO

Sullo spigolo ad angolo tagliato del balcone di palazzo Giffone, nel fondo nord di largo Galluppi, al primo piano vide una giovane fanciulla che stendeva sulla ringhiera di ferro le lenzuola tra le quali aveva invano cercato di dormire per angosce familiari e personali ben diverse dalle sue, e sfilando sotto girò l’angolo e si diresse a caso verso l’ affaccio oggi detto –del cannone- che ha preso il posto dell’antico propugnacolo a guardia del ponte levatoio di Porta Vaticana e che sparava a salve quando vi giungeva la processione di Santa Domenica spodestata dalla Madonna di Romania. Tutto fatto scomparire dai sindaci demolitori eredi diretti di quelli costruttori, entrambi avrebbero demolito anche un Colosseo o un Partenone per rubarsi l’area fabbricabile all’interno –della cerchia antica-. Egli restava nella zona a maestrale facente parte un tempo delle parrocchie inferiori di San Demetrio e San Giacomo. Non poteva supporre che il suo ammaraggio avrebbe inciso anche sulle sorti della sfortunata creatura che lasciava alle spalle su quel fatale balcone: proprio mai che da lì a sette anni a fine giugno 1935, la sconsolata e gentile mamma l’avrebbe accompagnata all’ultima dimora a lume spento, perché così impongono le leggi del diritto canonico, vecchio e nuovo. Così a lume spento è stato per Welbi tenuto in piedi da macchine che se mai gli hanno prolungato la vita lo hanno torturato: altro che eutanasia, si tratta di vita artificiale che nessuno vorrebbe sperimentare. Durante i secoli che furono chiamati in Europa Umanesimo e Rinascimento,si arrivò al punto che vennero accusate di stregoneria e bruciate sul rogo centinaia di migliaia di persone, tra cui alcune donne che ne aiutavano altre a partorire nello strazio delle doglie senza gli attuali accorgimenti professionali: - tu partorirai con doglia- fu intimato ad Eva. Ma Cristo non è venuto sulla terra per addolcire il cuore indurito della vecchia Legge? Una donna, quasi sempre giovane, che lascia la sua vita generandone un’altra è un momento lungo di pietà senza riserve. O quelli erano i tempi, ipocriti?
Lasciò palazzo Giffone, Sant’Anna ed il suo stemma lì collocato dal 1867, ed i capricciosi Liguorini che tenteranno di avere palazzo Giffone…., la chiesa del Gesù.. ed attraverso la stretta via Lauro ( i Toraldo di Francia seppero evitare il taglio, come anche oggi si espropria il terreno dei deboli, vedi ospedale, liceo scientifico, …..…omissis) chiusa tra Toraldo di Francia e De Mendoza –Adilardi, arrivò in largo Migliarese……..lasciandosi a destra i Mottola ed i Mirabelli che seguono fino al taglio del corso con a destra la villetta di Eliano( antico gestore del tabacchino). Non provò l’istinto di andare ad affacciarsi per vedere quel mare che quattro giorni prima lo stava inghiottendo anche se alla fine lo salvò. Intravide la Catena Costiera che quella mattina per una leggera tramontana era visibile ben oltre Paola verso Capo Bonifati con il suo eremo benedettino e torre Fella oggi trasformati in elegante residence, in fondo a nord c’è l’antica Bisento che domina il mare di Policastro. Attraverso le ripe del precedente percorso aveva intravisto l’acqua tra i palazzi De Mendoza-Adilardi che ancora non avevano chiuso la ripa pubblica che li divideva e tra i palazzi di Paolo e Nicola Mottola attraverso il cancello autorizzato alla fine dell’Ottocento ma senza che il Comune avesse o abbia ancora la chiave di ingresso prescritta nella autorizzazione alla chiusura di quel fine secolo. Senza ripetere altro si capisce che il nostro inaspettato ospite stava percorrendo all’incontrario il percorso che LE RAGAZZE DEL LABORATORIO, compresa quella causa della sua prostrazione obnubilante, avevano fatto tre giorni prima ma con diverso spirito ed allegria correndo verso il mare, il porto, la sabbia, il sole, la vita e la libertà, mentre lui sudando freddo a centinaia di metri che si riducevano a decine, in alto lottava per la vita che riteneva persa. Quale cosa più bella? Se ce ne fossero essa è la premessa di tutte. Tirò diritto senza sapere che soltanto da pochi minuti quel volto sfuggito ai suoi occhi era uscito dalla casa del mutilato palazzo Mirabelli. per riprendere il corso di taglio e cucito delle monache. Dopo l’episodio inaspettato dei fiori sulla spiaggia la mamma aveva ritenuto prudente trattenerla a casa per qualche giorno sapendo inoltre che l’autore si trovava stordito in caserma per l’incidente. Stordito si, ma per sua figlia che era comunque rimasta impressionata, ed ora si trovava a pochi metri da lui a Palazzo Barone a picco sul mare, e fu sfiorato un altro incontro al vertice sotto gli occhi della madre che la seguiva dalla finestra sul corso: un altro incontro non sarebbe stato giudicato casuale e le sue poche amiche le avrebbero chiesto spiegazioni con sarcasmo ed invidia.. La stessa Sara, involontaria protagonista di quell’incontro sulla spiaggia, si domandò incosciamente se il comportamento dell’uomo caduto dal cielo e poi venuto dal mare, sarebbe stato lo stesso ove in quel punto avesse incrociato un’altra qualsiasi delle sue compagne di laboratorio.
Andando avanti lasciò largo Ruffa e si trovò ad imboccare una strada chiusa a destra tutta da palazzo Toraldo-D’Amore mentre a sinistra , al termine di palazzo Caputo, c’era un magazzino senza luce reso più oscuro per essere una vendita di carbone per le cucine dell’epoca, gestita dalla famiglia Forelli ancora a mia memoria. Nell’imboccarla passò dallo spazio aperto alla ristrettezza della via e per caso vide in alto a sinistra il nome della strada:

LEPANTO.

In una città come Tropea tutte le vie prendono nome da un fatto o personaggio glorioso ed a volte veramente degno di nota, e lo storico Scrugli di fine Ottocento fece un primo elenco su incarico di quei sindaci che egli stesso aveva stigmatizzato per la devastazione del centro storico, per interessi personali, L’ultima nomenclatura ha prodotto un elenco discutibile soprattutto per le esclusioni operate che squalificano l’operazione: l’Italia e Tropea del lavoro e della Resistenza non esistono, pur non mancando i possibili riferimenti. Nessuna strada forse in Italia ricorda Caporetto, forse perché tale cittadina non ci appartiene più? ed anche la sconfitta è passata alla Slovenia? Ognuno nasconde le proprie sconfitte come i propri difetti, magari anche in confessione, o un tempo i figli handicappati. Eppure in qualche piccolo paese un tempo agricolo della Calabria capita di imbattersi in strade intitolate, Adua o Macallè: gli abitanti vollero ricordare i propri figli analfabeti partiti e mai più tornati dall’Africa Orientale Italiana dove difesero la grandezza e l’onore della Patria contro le orde barbariche degli Abissini e Somali di Faccetta Nera, solo che restarono ai cani ed agli augelli orrido pasto. Ma saranno vendicati inutilmente ammazzando 100 indigeni per ogni Italiano morto, precedendo e decuplicando la civiltà teutonica: quello che sta succedendo in questi giorni nel corno d’Africa è anche il retaggio della civilizzazione da noi portata.
Si ricordò che forse gli era capitato altrove di leggere per strada tale nome e si mise a pensare cosa significasse: aveva una vaga idea forse sentita alla scuola sottufficiale per piloti di idrovolanti in Istria( frequentata anche da un Tropeano che troveremo più avanti) quando si illustravano le possibili rotte e punti di ammaraggio, e si sforzava di precisarla prima che la stessa via confluisse terminando in largo Calzerano e via Vianeo, senza sapere l’epoca dell’origine dei tre nomi che rimandano da soli ad altri capitoli della vita civile e culturale della passata Tropea, il primo per l’acqua ed il secondo per la medicina ricostruttiva. Non riuscì in quel momento a decifrare quel nome e la mente tornò ad essere accerchiata dalla nebulosa di un volto che non assumeva forma alcuna. L’insistenza su questi rapporti umani ( Amore è parola solo per gli affetti familiari ed umanitari che in un uomo non si affievoliscono mai) perché su di essi all’inizio si voleva indagare per capire come nascono e si conducono con riferimento a tutte le condizioni personali e sociali dei soggetti, poi la ricerca di queste ultime prese il sopravvento, ma quei personaggi veramente esistiti, di – rapporto- sacro e profano, che avevano promosso l’indagine, reclamano di essere rappresentati quale che sia stato il loro ruolo. Solo così ho compreso l’irruzione sulla scena dei – Sei personaggi in cerca di autore- per autorappresentarsi nella loro passione di vivere comunque perché ogni anima è verde e quelle storie una alla volta non verranno evitate.
Non è facile rendersi conto quante riflessioni può suscitare quel nome- Lepanto- Naupctos- con le contrastanti e spesso preconcette valutazioni che sollevano su quasi 1400 anni di compresenza nel Mediterraneo di Islam e Cristianesimo, usati entrambi come clava di Ercole e copertura di tante nefandezze nelle quali l’uomo può veramente dire di essere primo fra le –fere feroci-.
Sotto varie forme la discussione sta da anni al primo posto su tutti i media, ma sempre in senso deviante sul piano teorico e pratico e chi si sforza di parlarne con distacco viene accusato di apostasia o tradimento o addirittura terrorismo da entrambi gli schieramenti.
Cercherò di tale nome darne per lui e per me una ragione meno vaga in un momento in cui l’Occidente cristiano ed il mondo arabo islamico si trovano con virulenza di fronte a reciproche accuse e recriminazioni artificiali. In via di principio equidistane, anzi indifferente ed infastidito perché ognuno prima di accusare l’altro non guarda bene se stesso, anche se mi sento Meteco, Tropeano, Calabrese, Italiano ed Europeo, ma di un’Europa che non mi piace e che fra non molto rischia di disintegrarsi per vanagloria interna e malvagità USA, anche se su tale falsariga si prolungasse oltre gli Urali, diventando Eurasia.

PASSATO E PRESENTE


Scusandomi in anticipo se impiegherò più tempo che lui a percorrere quel breve tratto: camminava dondolandosi fiaccato dal quel pensiero che lo aveva reso ebete, io nello sforzo di far comprendere solo a me stesso in che misura il passato pesa sul presente secondo l’analogia della foce del fiume in apertura, farò un percorso ben più lungo e tortuoso della breve, stretta e dritta via Lepanto a Tropea. Non riesco a sottrarmi a certi voli pindarici perché bisogna denunciare la normale e secolare ipocrisia di coloro che poggiano i loro privilegi sulle religioni mortificando le stesse. Siamo nella MAGNA MAGNA e quindi l’eventuale lettore infastidito può anche chiudere pagina.
Un adagio calabrese all’inizio di questo capitolo sesto nelle presenti note riportato, ci fa intendere che non bastano a volte secoli o millenni a far dimenticare i fatti della storia, vincenti o perdenti con chi adesso ci confrontiamo per diversi motivi: nel primo caso non abbiamo nulla da rimproverarci anche se siamo stati massacratori di centinaia di migliaia di persone innocenti, nel secondo caso tutte le recriminazioni possibili. Un graffio subito lo mostriamo dopo mille anni nella impercettibile cicatrice, un massacro fatto è solo invenzione o esagerazione di chi lo ha subito. I fatti storici non hanno decadenza consequenziale, resistono ed emanano conseguenze più a lungo delle scorie radioattive.
L’argomento potrebbe dilatarsi a dismisura su ogni cenno, a seconda delle valutazioni che debbono discendere dai fatti prima e dopo accaduti, compresi i sacri testi ( Vangelo e Corano) a cui si richiamano e si danno per scontati almeno per i rispettivi credenti come punto di riferimento che coprono la vera causa permanente, rinunciando qui alle esegèsi ed ermeneutiche che tendono a darne diversa storia sulla formazione di entrambi. Cercherò di contenerlo all’essenziale perché scopo è sempre quello di conoscere la vita reale del nostro territorio e della nostra società e confrontarla con quella superata ed antica, ma sempre operante come per millenni appunto le scorie radioattive. Con l’avvertimento che per chi vuole intendere niente niente è scritto il- velame- o a caso e le divagazioni in apparenza ridondanti o blasfeme, contengono le questioni di principio più gravi ed alle quali diventano allergici i nostri credenti a parole.


INUTILITA’ DEI GRANDI DEL PASSATO


Questi appunti sono una estrapolazione provvisoria dall’insieme che affronta problemi meno gravi e più attinenti alla storia del nostro territorio nel passato, solo il parossismo attuale sul problema mi ha spinto ad esternarli per quel che ognuno è libero di giudicare. Del resto non so cosa fare perché mi sono convinto che a nulla è valso il pensiero tutto di tanti filosofi, scienziati, artisti, scrittori, poeti, santi, profeti umani e divini……di tutti i tempi, popoli e religioni, se la condizione effettuale dell’uomo è la presente: con loro e senza di loro sarebbe la stessa, forse migliore. Per cui spesso sono tentato di dire al computer- cancella tutto-. Non lo faccio perché ancora non esiste l’uomo sulla terra o è sempre stato il più feroce degli animali che sta facendo scomparire ogni forma di vita visibile tranne quella invisibile virus che farà scomparire lui.
Da qualche anno nell’ambito della discussione su come atteggiarsi sul piano politico-pratico (culturale, economico, militare) di fronte all’estremismo islamico si ricorda spesso la battaglia di Lepanto indicandola come decisivo scontro di civiltà a favore dell’Occidente cristiano e per significare che la forza militare è il rimedio opportuno anche oggi, pur sapendo che quell’evento produsse in minima misura gli effetti sperati. O si fa per celebrare qualche gloriuzza paesana a Tropea dove discutendo mi sono accorto che poco ci manca che la maggior parte delle persone immagina Lepanto in Papuasia. Si rinuncia ad una anamnesi degli ultimi tre millenni di storia del Mediterraneo che i bavosi cantori descrivono come crocevia di pace e civiltà e non di stragi e scontri, che ne hanno scandito le varie fasi. Anche sulla rete si trovano inserzioni su tale battaglia navale, ma con una povertà di riflessione e faziosità generale che nasce da ignoranti cultori della supposta superiorità dell’Occidente e non lascia prevedere incontro rispettoso tra le due religioni: anzi si coglie l’occasione per attribuire al mondo islamico pratiche e modo di vitta aberranti e facendo intendere che discendono dal Corano, come se la nostra vita, pur pretesa cristiana, non ci facesse dono ogni giorno di altrettanto o peggio, ma nessuno può pensare di accusare il Vangelo per tali motivi.
I Turchi e gli Arabi in genere perché mussulmani vengono descritti come depravati e violenti, mentre gli Europei virtuosi perché Cristiani. Magari !
Lepanto fu uno dei tanti scontri: la flotta turca fu subito ricostruita forte come e più di prima proprio dal calabrese Occhialì, mentre l’esercito era sempre il più forte del mondo di fronte agli stati d’Europa che si sarebbero ancora dilaniati per secoli pur pretendendo di richiamarsi ad una comune radice culturale greco - romana e religiosa cristiana. Alla luce di tali supposte fondamenta come spiegare l’apocalisse conclusiva con gli orrori commessi e subiti nella prima e seconda guerra della prima metà del 20° secolo? Esse furono l’implosione di almeno tremila anni di storia e come il vulcano Santorini riempì di acqua la sua cavità, così l’Europa dopo aver per secoli massacrato il mondo massacrò se stessa e riempì il suo vuoto civile e religioso di milioni e milioni di morti e ci fu pure chi da vate riverito celebrò le stragi come catarsi aristotelica.
Se pretendiamo di porre con supponenza i nostri presupposti ideologici religiosi o civili alla base di una civiltà per ripercorrerne la storia o progettarne il suo futuro, dobbiamo spiegarci perché il passato tragico si è svolto ignorando quei principi supposti positivi, santi e provvidenziali, che ancora si reclamano come fondanti e strategici, pur dovendo prendere atto dei risultati acquisiti. Per questi si dà la colpa ad altri, -perchè non hanno seguito Cristo-, a quali risultati sono arrivati quelli che lo avrebbero seguito? Difendere per secoli i privilegi e le violenze di una casta sacerdotale-politica in nome di Dio col terrore e la violenza benedetta. L’implosione ha dimostrato che è solo retorica l’esaltazione della storia europea da Atene a Londra e da Madrid a Mosca.

RADICI ALBERI E FRUTTI

Gli alberi sono alimentati dalle radici, ma si giudicano dai frutti, e da tremila anni maturano soprattutto avvelenati, ed allora quelle radici, ammesso che siano buone, alimentano alberi velenosi che fanno anche ombra alla verità di fatto. Bisogna fare come in agricoltura: non spiantare l’albero ab imis, ma tagliarlo sul selvaggio ed innestarlo di nuovo perché i frutti siano conformi alla volontà dell’innesto del quale non si curano le radici. Certamente Gesù di Nazaret ed Allah sono d’accordo su questo. Ma non c’è speranza che cristianesimo ed islamismo nelle loro varie versioni siano disposti a tale operazione radicale di taglio ed innesto e riconoscere la deviazione loro, non su singoli episodi costretti dalla evidenza e dopo secoli, ma sull’intero loro dispiegarsi in tanti secoli al loro interno e fra di loro nella concreta realtà storica, che è la vita pratica di ogni giorno. .

L’ UOMO

Non dobbiamo dimenticare che cosa è ancora l’uomo come singolo o popolo: un essere vivente che si dibatte fra istinto di sopraffazione degli altri e tentativi vani della ragione di humanitas: solo che mentre gli altri animali esercitano il loro istinto come da migliaia o milioni di anni per necessità naturale e quanto basta ogni volta per la sopravvivenza, noi abbiamo moltiplicato i suoi effetti di sopraffazione violenta verso l’altro e la natura servendoci della scienza trasformata in tecnica distruttiva. Sapiens non è Humanus, come anèr non è ànthropos. E così fino adesso a turno i vari popoli della terra dominano e violentano gli altri per divenirne poi vittime di un cannibalismo continuo.
I Romani di Cesare ed Augusto non avrebbero mai pensato che per decine di secoli da tutte le loro province ed oltre sarebbero arrivati in Italia ed a Roma popoli che tutto avrebbero oltraggiato e che proprio da tutti i valichi delle Alpi e da tutte le sponde del Mare Nostrum sarebbero arrivati pirati, corsari ed eserciti che avrebbero devastato la penisola, alcuni fuggendo, altri vinti dai nuovi arrivati e restando mescolati ai primi in una stratigrafia umana che rende ridicola la quarta o quinta sponda o purezza della razza. Ogni popolo che arrivava da invasore veniva dopo compresso con i precedenti da un nuovo arrivato. Questa riflessione sia da monito ai popoli che oggi sono di turno nel dominare il mondo con la forza economica base di quella militare: fra non molto anche per essi la posizione potrebbe ribaltarsi come è già avvenuto per decine di imperi.

ISLAM

Con riferimento ai temi che pone Lepanto, alcune note che sembrano dispersive, ma niente è detto a caso in rapporto ai temi attuali che stanno condizionando la nostra vita e quella degli abitanti nei paesi di fatto schiavi dell’Occidente o da questo protetti perché nelle mani di regimi a sua disposizione o letteralmente sanguinari. Notizie minime sull’Islam, non per trascurare il Cristianesimo ma ritenendo che da noi non ce dovrebbe essere bisogno, almeno nelle presenti note, anche se ho dovuto constatare in tanti fanatici sedicenti – perché nati qui- cristiani, ignoranza degli elementari principi della loro supposta fede a parole, perché poi la vita è così,dicono. E quando si chiede loro di esplicitare quel così, ammettono la normalità dell’ipocrisia e della violenza, il mondo dicono è andato sempre così, tanto poi Dio perdona tutto. Se Dio perdona, l’uomo non deve perdonare perché educa a delinquere.
Islam significa resa incondizionata a Dio=Allah, Unico, Assoluto, Che non è mai stato generato e non ha neppure generato e nessuno è uguale a Lui-. Attenzione alla parola – generato- per dare tale attributo a Cristo-generato e non creato- ci vollero i primi grandi concili ecumenici della Chiesa e la definizione non fu mai pacifica dopo migliaia di morti in apparenza per tale credo e la condanna di Ario è discutibile anche sul piano teorico, non per caso le sue idee sopravvissero e Costantino da politico religioso fece finta di perseguitarlo per consolidare il suo potere ed asservire in quel momento la religione al pari dei suoi augusti predecessori. La santità concessa a sua madre Elena non tragga in inganno.
Ora l’Islàm occupa, in forma che nessuno pensa di contestare, quella che sul Bosforo era nata come Bisanzio, poi è stata la seconda Roma sede della chiesa ortodossa e scismatica d’Oriente, da oltre 500 anni Istambul. Essendo nel secondo nome ostile a Roma per gerarchia e spesso per teologia pagò tale avversione con l’abbandono nei momenti di pericolo esterno e col condizionamento fatto da Roma fino all’ultimo giorno della sua caduta: o riconoscete unico padre e patriarca il papa di Roma o non ci interessa il vostro destino che Dio prepara per punirvi. E su questa prospettiva impossibile si giocò per secoli la disputa gerarchica e teologica tra la prima e la seconda Roma, caduta la quale Mosca ortodossa si dichiarò Terza Roma, avvallando la società violenta dello zarismo sulla schiavitù dei servi della gleba a godimento di nobili e popi. E sbaglia chi ritiene che oggi Roma sia rassegnata a convivere con la gerarchia ortododossa o con gli Ebrei: abbracci e baci non traggano in inganno, essa cerca ancora la formula possibile che ristabilisca il principio del suo primato senza riserva teorica pur disposta a concessioni pratiche nelle formalità liturgiche. La sua attenzione agli Uniati mira ben oltre. I rapporti fra le varie –chiese- islamiche non furono diversi.
Insediatosi a Costantinopoli, divenuta Istambul, l’Islam si diffuse fortemente come fede in quell’area che era stata soggetta al Patriarca ortodosso e se incontrò difficoltà storiche e culturali in Grecia, la regione da esso più martoriata, si espanse nei Balcani compensando l’arretramento contemporaneo nella Spagna della reconquista fino a Granada da parte di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona dopo il loro avventuroso matrimonio che malamente avrebbe determinato il destino dell’Italia e del Sud in particolare.

MILLE ANNI DOPO

Lepanto avvenne mille anni dopo la nascita del Profeta di Allah, Muhammad= Maometto e tutto quello che si operò in tale lungo periodo tra Islam ed Impero Bizantino con Fede Ortodossa fu attraversato dopo il mille dalle interferenze occidentali dei crociati che conducevano la guerra santa e se possibile peggiorarono le prospettive. Ancora oggi gli Arabi usano il termine – crociata-, che fa molta presa, per bollare un atteggiamento aggressivo occidentale, economico e culturale, almeno secondo la loro visione suffragata dai fatti. Essi ritengono che le crociate furono l’inizio di una ostilità gratuita per sottometterli ed umiliare la fede di Allah. Accuse reciproche che ancora oggi sono sulle labbra degli estremisti di entrambi gli schieramenti, specie dopo la tragedia dell’11 settembre dai suoi stupidi e criminali promotori ritenuta una inezia di fronte a quello che l’Occidente ha causato all’Islam ed ai suoi popoli nei secoli ed oggi prosegue a fare per portare via il petrolio senza il quale si scioglierebbe come puazzo di neve al sole. Da questa spirale di folle violenza non soltanto verbale al momento non c’è via d’uscita, l’intervento militare contro alcuni paesi islamici potrebbe essere un terribile boomerang con la destabilizzazione dei Paesi arabi moderati e con classe dirigente di fatto senza democrazia neanche formale, a favore dei fanatici estremisti. Un milione o due di soldati con tutta la tecnologia moderna non controllerebbero la situazione ed i duecentomila sparsi in Medio Oriente fino all’Afghanistan ne sono la prova, il loro costo pone già gravi problemi agli stessi USA che rischiano un inizio di declino: con questo metodo essi non possono da soli e nel loro esclusivo interesse economico che è il vero motivo, controllare il mondo come inutilmente provarono di fare i Romani con una difesa che veniva rotta nel suo limes dalle foci del Danubio a quelle del Reno ed Elba.

L’IMPERO DI NUOVO MODELLO


Un tempo le frontiere di un Impero erano quelle fisiche del suo territorio, oggi sono quelle delle materie prime e dei mercati per le quali bisogna comunque controllare popoli e governi anche di altri continenti per portarle via rapinandole. Le condizioni di fame, sofferenza, violenza e mortalità che si determinano ai tali paesi rapinati dalle potenze che sprecano ed inquinano, non sono degne di attenzione se non sottoforma di elemosine propagandistiche. La decolonizzazione forzata e fatta costare ai popoli milioni di morti con torture e violenze senza controlli autorizzate ed approvate dai governi dell’Europa per la quale si reclamano formalmente radici cristiane, deve sembrare alla stessa un fatto così lontano che a parlarne si è indicati come uomini della preistoria, anzi giurassici anche se allora la specie umana era lontana in quanto tale dal muoversi sulla terra. Dimentichiamo che ogni algerino ha avuto il nonno o il padre caduto tra quaranta e cinquanta anni fa nella lotta di liberazione nazionale proprio contro la Francia del Sacro Romano Impero della rivoluzione dell’89 e di Lourds.

I POPOLI SOGGETTI


Come siamo bravi ad esaltare le nostre –gesta- per certi sacrosanti obiettivi, come siamo pronti a negarli agli altri soggetti a noi. Così l’Italia del primo bassotto nipote del Padre della Patria, anelava a ragione avere Trento e Trieste, ma sbarcava in Libia portando per 30 anni stragi ed orrori e lasciava impiccare Oberdan che lottava per quell’Italia in cerca di colonie da sfruttare, mentre gli altri si avviavano ad abbandonarle. Oggi non è conveniente rapinare le persone per venderle o farle lavorare in stato di schiavitù, anche se ancora avviene. Il concetto di schiavitù segue la globalizzaziòne: tenere sotto controllo un intero popolo sul suo territorio tramite suoi governanti men che fantocci, divenuti –kapò- e da quel Paese portare via le ricchezze del suolo e sottosuolo magari col lavoro sfruttato dei suoi abitanti che ricevono appennnna il necessario per mantenersi in vita come se fossero strumenti meccanici, riservando ai –kapò- privilegi ed abusi e fornendo mezzi ed assistenza per reprimere le voci sane che riprovano lo sfruttamento e chiamano alla rivolta anche armata, questa si veramente santa.
Quando poi qualcuno di questi popoli trova dei capi che sia pur con metodi discutibili tiene il potere ma detta all’Occidente le regole per i rapporti economici delle materie prime, allora bisogna abbatterlo perché non rispetta i diritti umani e diventa pericoloso, se invece è sanguinario con il suo popolo ma accetta in cambio di briciole lo sfruttamento straniero, va protetto come avamposto di democrazia: copione permanente nella storia del ventesimo secolo.


CULTURA IMPOSTA IN CALABRIA

La credenza e la cultura popolari della nostra Calabria in materia di religione si formò sempre e soltanto attraverso la parola ufficiale del pulpito, che fu sempre in contraddizione con la pratica vita di buona parte dei celebranti ad ogni livello. La cultura popolare nelle raccolte più compendiose ( usanze, proverbi, costumi) ci presenta un popolo o che prende atto con realismo degli abusi, a volte ironizza sui predicatori rassicuranti o fa timidi cenni di ribellione in vista di una giustizia personale in difetto di quella istituzionale. Quando si profilò una voce diversa che si alzava di livello e con riflessione storica motivata senza mettere in discussione, anzi abbracciando i principi evangelici, e mirava con cognizione di analisi e proposte a smascherare col pensiero pericoloso per il potere, l’ipocrisia e la violenza incardinata nel vario ordine costituito civile e religioso non sempre distinguibili, si provvide ad eliminarla con le stragi di minicrociate in difesa delle vera fede ufficiale o la persecuzione con carcere e morte, episodi che oggi vengono ricordati solo come incresciosi, quasi incidenti di un percorso luminoso, senza ammettere che è stata la normalità per secoli e le colpe criminali di chi li ha volute dal soglio e dal trono, di chi li ha fatto eseguire per lunghi secoli in difesa proprio della loro supposta fede cristiana nelle varie forme, questa è normalità culturale e sociologica degli eredi ortodossi e mai pentiti dei responsabili che ancor oggi sarebbero capaci di tornare a quei metodi che non condannano apertamente, perché dicono che quelli erano i tempi anche se il vangelo era lo stesso prima e poi. Maometto fu presentato come l’Anticristo al servizio degli infedeli suoi credenti ed identificato con il diavolo in persona, che oggi viene evocato come vero vivo ed operante dal soglio più alto terrorizzando le buone anime. Ancora oggi tante persone che pur hanno avuto accesso alla conoscenza parlano di tolleranza, mai di normale pacifica convivenza, fermo restando il giudizio sarcastico sul Profeta dell’Islam come quello del Sinedrio su Gesù il Messia, detto l’Unto. Personalmente da bambino ho notato sotto il letto di alcune famiglie, come sopra acculturate in materia di religione, un battente in ferro di campana e prima che da dove venisse o cosa fosse, ho chiesto, oltre cinquanta anni fa, a cosa servisse. Per tenere lontano – Maghammetto, u Faiettu, u diavulu malignu- mi fu risposto. Ignorando il riferimento mi fu precisato che era il diavolo Maometto che era venuto sulla terra contro Cristo e la Chiesa per dannare i credenti cristiani di cui si impossessava durante il sonno. Poi compresi che i fastidi notturni di natura fisiologica o psicologica che a volte aggravano la persona durante il sonno con risveglio liberatorio ma da incubo, era dovuto a Maghammetto che si impossessava di noi per prendersi l’anima.


DOPO L’EGIRA

Da quando dal giorno dell’Egira ( higra - migrazione), a fine estate 622, Maometto lasciò la Mecca per Medina tornando vittorioso nel 631 per morire l’anno dopo, già vi era stato un primo scontro con l’esercito cristiano di Eraclio nel 629 ad oriente del Mar Morto, la prima volta che gli Arabi combattevano sotto la direzione spirituale di Allah e furono sconfitti a Mu’ta. Di solito si pensa che fu la nuova religione a far uscire gli Arabi dal deserto facendogli fare quella spettacolare avanzata che in meno di un secolo li portò all’Indo in Oriente compresa la Persia ed all’Atlantico in Occidente compresa la Spagna degli inetti e litigiosi Visigoti che non seppero svolgere nella Iberia il ruolo che i Franchi in Gallia. Ma in effetti l’Islam non fece altro che dare una motivazione religiosa, diffondere con la jidad la fede di Allah, all’unificazione politica di una migrazione che i popoli semiti dall’Arabia avevano da tempo intrapreso in tutte le direzioni, come faranno più tardi altri popoli dall’Asia centrale, come i Turchi, con i quali si scontreranno rimanendo sottomessi essi stessi o come fecero intorno al Mille i vari Vichinghi, una scheggia dei quali furono i Normanni al Sud. Al momento essi si lanciano fuori dai loro confini per predare e conquistare, vera molla della loro espansione, come avevano fatto e faranno tanti altri popoli con metodi e mezzi apprestati in base ai tempi, con la differenza che la nuova religione dà loro una giustificazione superiore. Ma questa non li salvò dalle lotte interne cruente per il potere, vere e proprie guerre civili fra tribù, fra i vari pretendenti dopo la morte del Profeta e l’assassinio divenne pratica corrente. A riprova che la religione lungi dall’essere stata mai utile alla pace, è sempre diventata supporto per seminare discordia in apparenza teologica, ma questa copre altri deplorevoli fini perché usata come leva potente di formazione mentale presso le masse di un popolo.
L’ISLAM SI ESPANDE


Dopo il Profeta gli Arabi seguirono nelle conquiste con una rapidità che lo stesso non avrebbe osato sperare, ci fu un’avanzata che in 25 anni li portò in Palestina, Damasco, Gerusalemme, Cesarea, Egitto,Cipro, umiliando l’impero bizantino avviluppato nelle sue dispute cristologiche più che il baco nel bozzolo.
Alla morte di Maometto il genero Alì, marito di Fatima, ( dalla quale i Fatimit, con pretesa discendenza diretta) fu escluso dalla successione e seguirono tre Califfi prima che lo stesso nel 656 a Bassora sconfiggesse il partito di Medina divenendo il quarto Califfo e portando la Capitale ad al-Kufa in Iraq. Allo scontro assistette l’ultima moglie del Profeta, A’isha nemica di Fatima e di Alì, stando su un baldacchino a dorso di un cammello che diede il nome alla battaglia. Fatima era figlia della prima moglie del Profeta . Nel 660 Mu’awiya omayyada si proclamò califfo addirittura a Gerusalemme ed Alì fu assassinato nel 661, ma restavano i figli. Il Califfo omajjada trasferì la capitale a Damasco dove la sua dinastia regnò fino al 750 contrastando i Califfi usurpatori che su base etnica spuntavano dovunque proclamandosi profeti di Allah, visto il successo di Maometto che loro intendevano bissare. Sappiamo la risposta di Giovanni il Battezzatore a chi lo salutava come il Messia. Dopo la scomparsa del Profeta tanti capi tribù si proclamarono tali. Gli scontri fra le principali tribù per il potere dilaniarono gli Arabi, ma questo non impedì la loro rapida espansione in tutte le direzioni, dai confini della Cina alla Spagna, perché i califfi usavano tale prospettiva di arricchimento per tenere impegnata la bellicosità delle tribù che su base etnica regolavano la vita dello stato nel quale proprio per le guerre tribali l’elemento arabo cedeva ad altre etnie divenute islamiche.


LA TEOCRAZIA CATTOLICA ED ISLAMICA

Storicamente, anche per l’attuale scontro tra Sunniti e Sciiti che sono adesso il dieci per cento degli islamici nel mondo con la Persia e maggioranza in Irak, fu importante lo scontro di Karbala sulle rive dell’Eufrate il 10 ottobre 680. Qui Husain, il figlio di Alì e Fatima figlia di Maometto, affrontò i sunniti siriani del califfo Yazid in condizione di assoluta inferiorità, era una battaglia fra credenti ed Allah non si schierò, come in quella di Badr presente il Profeta, con i più deboli che si votarono tutti scientemente al sacrificio in uno scontro che fece di Alì, di suo figlio e dei suoi discendenti e seguaci detti sciiti, gli eredi del suo compito missionario in quanto ritennero che solo alla dinastia di Alì spettasse per diritto il compito di governare gli Arabi da Califfi con potere teocratico, politico e religioso nella stessa persona. Nel capitolo sull’acqua nella storia di Tropea abbiamo riportato alcuni passi di tale epopea dello scontro come lo immaginò un poeta albanese di fine Ottocento. Karbala ha avuto per gli sciiti più valore che le Termopili per i Greci: questi poi si autodistrussero nello stesso quinto secolo non sapendo rinunciare all’egoismo della polis, quelli invece, gli sciiti, sono ancora uniti e solidali. Così l’Europa si massacrò per secoli in nome della Nazione e Patria. Califfi ( unione di potere religioso e civile nella stessa persona) erano formalmente i re romani e poi gli imperatori come Pontefici Massimi con le conseguenze che sappiamo. In mezzo al Medioevo il Sommo Pontefice cattolico di Roma pretese di essere il capo politico di tutto il mondo per delega di Cristo, scontrandosi con il potere temporale che non lo riconosceva tale. Per circa mille anni il Sud d’Italia ebbe come Capo di Stato non soltanto formale, il Papa teocratico di Roma che scomunicava regolarmente chi andasse a governare il regno di Sicilia, poi di Napoli, senza il suo consenso pagato. Questo andava contrattato e si otteneva con laute prebende e giurisdizione che faceva della chiesa il vero stato nello stato. Chi nel settecento intraprese la lotta giurisdizionale fu perseguitato, incarcerato e distrutto come eretico. L’omaggio della ghinea non era folclore e dopo l’Unità l’erede di Pietro indicò nel regno d’Italia un usurpatore e la pace fu fatta nel 1929, senza badare con chi, quando in cambio di Roma il Vaticano ottenne tutta l’Italia sulla quale ancora si proietta in modo non opportuno e conforme al Vangelo il suo controllo teocratico al pari di un grande califfato che difende i tributi ad esso dovuti, ma non adeguatamente condanna gli sceicchi nostrani grandi e piccoli che banchettano sul popolo che lavora ed anche soffre. La Chiesa come istituzione da tempo pur essa secolare riceve ormai dalla nostra classe politica, man mano che si accosta al potere, acqua e terra come la chiedeva il Gran Re persiano alle città greche in segno di sottomissione. Quando i Nipponici reclamavano dagli Americani Okinawa, questi posero condizioni che reclamavano tutto il Giappone, come Roma in cambio di tutta l’Italia e così Trastevere che aveva per mille anni ostacolato l’unità della penisola, se la prese intera: aspettò l’uomo della provvidenza ( di quale Dio?) che si presentò con terra ed acqua. Non c’è Stato al mondo che sia più confessionale di quello italiano e su cui pesi in bene e male il controllo di una religione attraverso le sue istituzioni e magistero. Non cerchiamo di meravigliarci quando certe pratiche le troviamo in altri contesti. In ognuno di essi il miraggio è stato sempre il potere che controlla la bestiale pecunia.
Sconfitto in Iraq il partito di Alì si trasferì in Persia che considerò in funzione antiaraba legittimi Imam o Califfi solo i suoi discendenti. Le millenarie cultura e scienza persiane piegarono e conquistarono l’islam come la cultura greca aveva fatto con Roma. Lo sciismo si consolidò e mirò ad espandersi in lotta con l’ortodossia sunnita: avvenne dopo appena cinquanta anni dall’egira quella divisione violenta sancita dal sangue, che nel cristianesimo si determinò col Lutero. Lo scisma di Michele Cerulario tocca problemi diversi.
L’Islam crebbe rapidamente e conobbe subito la scissione fondamentale della sua storia, mentre i cristiani trascinarono per secoli divergenze teologiche che si tramutavano in scontri armati, fino a Lutero ed allo scontro di Carlo V con i Protestanti con le varie appendici ugonotte in Francia ed hussite a Praga. Quello che sta avvenendo a Bagdad in questi giorni è la lunga scia di sangue di Karbala, l’Europa cristiana lo ha scontato nel Cinquecento in altro contesto, prendendo atto della divisione religiosa sia pure all’interno di una stessa fede di base.



GLI ABBASSIDI

Con l’appoggio dello sciismo nel 750 prevalsero gli Abbassidi discendenti dallo zio paterno del Profeta dalla morte del quale aspettavano il momento giusto per accede al califfato. Nel 750 sempre presso un fiume, il Grande –Zab, un Abbas sconfisse l’ultimo califfo di omajjade, trucidò tutti i discendenti e portò la Capitale a Bagdad, in una concezione di discendenza da Maometto collaterale ad Alì ed il sacrificio per le fede a Karbala di suo figlio Husain. Uno degli omajjadi si salvò rifugiandosi in Spagna dove fondò il califfato di Cordova che per un periodo divenne la città migliore d’Europa.
Si sa quanto peso ha nei secoli presso un popolo il volontario sacrificio di pochi per una causa ritenuta santa e giusta, come Leonida alle Termopili. Con la capitale a Bagdad la cultura persiana permeò l’Islam perché in effetti il trasferimento fu opera dei persiani che da sciiti controllavano gli Abbassidi che da sunniti erano califfi.




GLI ARABI-SARACENI IN ITALIA E SICILIA

Sotto gli Abbassidi fu occupata la Sicilia dove gli Arabi erano già arrivati contro i Bizantini nel settimo secolo. ( Amari). Quando Bagdad riconobbe la dinastia degli Aghlabiti in Africa di fronte alla Sicilia, questi chiamati da un ribelle bizantino sbarcarono a Mazara del Vallo prima dell’830. La Sicilia nella letteratura la troviamo nei testi divisa in due, aldiquà o aldilà del Salso, il fiume che si origina tra Madonie e Nebrodi e la taglia in due scendendo dritto fino a Licata , mentre un altro torrente con le sorgenti vicine ed opposte nella stessa montagna la taglia in due sul lato nord ad oriente di Cefalù. Questa divisione ricalca quella della Calabria in Citra ed Ultra per chi quarda da Napoli : questa da sud fino alla foce e sorgenti del Neto lungo il ramo che oggi forma il lago Ampollino, e da qui fino a nord di capo Suvero presso la marina di Falerna, la seconda fino ai confini con la Lucania ( terra dei boschi) o Basilicata ( thema del basileus greco , col nome Basile che ormai si è perso anche da noi). Poi prevalse in Sicilia la divisione per valle: Val di Mazara la parte orientale, Val di Noto quella di sud- est e Valdemone quella di nord est colpita dal terremoto del 1783 assieme alla Calabria Ultra.
Non fu una presa rapida come la Spagna, più di un secolo prima, sia per la resistenza bizantina che per le crisi e lotte tra Arabi e Berberi i quali erano forza militare determinante per le imprese arabe in Europa anche per distrarli con la prospettiva di ricche prede (beni e schiavi) dalla rivolta frequente contro gli stessi Arabi. Si concluse appunto con la presa di Taormina nel 902 da parte di Ibraim aghlabita che passò in Calabria morendo a Cosenza. Ma da tempo l’Italia meridionale era di fatto sotto il controllo dei Saraceni con basi navali e fortezze ed ancora per predare arrivavano da tutti i porti dell’Africa e dalla stessa Spagna. Invocati verso l’840 nelle guerre fratricide dei principi longobardi che si spartivano il ducato di Benevento,i Saraceni arrivati in tale Ducato, nel tempo sempre più frazionato, di fatto predavano amici e nemici.


GLI ARABI ED IL PAPATO

A fine agosto 843 saccheggiarono le basiliche di Roma in nome di Allah, rischiando di catturare il Papa. Un’altra spedizione navale saracena contro Roma fu approntata nell’849, ma una tempesta la distrusse ad Ostia mentre una flotta cristiana si preparava ad affrontarla. L’iconografia storica vide la flotta cristiana, decimata dalla stessa tempesta, vittoriosa nello scontro, quasi un prologo di Lepanto: fu ritenuto un miracolo e Raffaello lo ricorderà con un grande affresco nelle stanze vaticane dove al posto di Leone II, il papa che aveva promosso l’intervento della lega navale di Napoli, Gaeta, Sorrento ed Amalfi, è rappresentato Leone X, che era stato arcivescovo di Amalfi. La canzone di gesta poi diceva:
- contra hostes fidei semper pugnavit Amalfhis-. L’analogia con quanto sta scritto sullo stemma di Tropea di cinque secoli dopo è evidente. In mezzo c’era la Calabria a subirne le nefaste conseguenze con le spedizioni inutili di Bisanzio e dello stesso impero germanico. Solo nell’ 871 fu ripresa Bari e poi Taranto, liberando anche la Calabria in via provvisoria. I Saraceni si fortificarono sul Garigliano, resero tributario il Papato che solo nel 915 riuscì a liberarsi della loro minaccia che non era solo la rapina, avrebbero potuto diffondere l’Islam presso la stessa Roma. Quando agli inizi del 900 i Fatimiti presero il posto degli Aghlabiti in Africa rivolgendosi poi all’Egitto dove sarà fondato Il Cairo, Berberi e Mussulmani di Sicilia legati a questi ultimi, non li riconobbero, si dichiararono indipendenti con un proprio emiro (913) e nelle loro preghiere dal pulpito nominavano
( segno di sottomissine almeno formale) il Califfo Abbasside. Durò poco, vennero in Sicilia i Fatimiti che si vendicarono e ridussero l’isola a loro provincia, saccheggiarono Genova mentre Bisanzio comprò la loro pace. Nel 948 inizia in Sicilia la felice dinastia Kalbita sotto il controllo fatimita dell’Egitto, e con essa l’isola conosce anche i vantaggi della tecnica e cultura arabe che si protrarranno nel tempo, ma anche riprendono le incursioni contro la Calabria ancora per oltre un secolo fino ai Normanni. Nel frattempo i Fatimiti conquistano l’Egitto ad Oriente e Bizantini e Saraceni in Italia si uniscono contro le pretese di Ottone II sconfitto a Stilo nel 982. In questo momento il Sud è conteso da Arabi ed Imperatori d’Oriente e d’Occidente mentre i Papi si preparano a trattarlo come patronato della sede detta santa e distogliendo per sempre gli occhi dall’oriente, li volgno lungimiranti ad occidente alla potenza carolingia..

I NORMANNI IN SICILIA

Nella prima metà dell’XI° secolo le gelosie fra Arabi e Berberi, problema grave di tutto l’Islam d’occidente, si aggiunsero alle lotte fratricide tra i principi Kalbiti ed intervennero i Bizantini con lo stratega Maniace, richiesto da una fazione in lotta. Questi portò come truppe d’urto centinaia di Normanni che gli si voltarono contro insoddisfatti della ricompensa e Maniace perse ogni risultato. La Sicilia cadde nell’anarchia contesa fra i nativi convertiti all’islam ed il capo dell’aristocrazia araba che sconfitto chiamò egli pure i Normanni già forti in Puglia, Campania e Calabria. Siamo nel 1061: comincia nell’Italia meridionale la fine dei Bizantini e degli Arabi, in gran parte entrambi di fatto rimasti da noi aggiungendosi come popolo, sangue, arte e cultura ai precedenti e futuri. Nel 1130 Ruggero II figlio di Ruggero I Gran Conte e quindi nipote di Roberto il Guiscardo che non aveva avuto figli validi, divenne Ruggero I re di Sicilia contrastato con scomuniche dal Papa e dagli stessi principi normanni. La sua dinastia avrà Guglielmo I, Guglielmo II e si estinguerà con Costanza, figlia postuma di Ruggero II come conte e I ( primo) come re, che sposerà Enrico VI, figlio del Barbarossa, mettendo di nuovo in apprensione il papato con il futuro erede Federico II.

TENTATIVI SU COSTANTINOPOLI

Abbiamo visto che nel 750 dalla Persia sciita partì la rivolta che portò al potere in Iraq gli Abbassidi, così detti perché discendenti da Abas, zio di Maometto estromesso dal potere con Fatima alla morte del Profeta. La cultura persiana aveva permeato l’Islam e si erano integrati ed anche se la dinastia sunnita esprimeva i califfi, il potere ed i suoi vantaggi erano adesso divisi con altri popoli convertiti, persiani in primo luogo. Fu costruita la nuova capitale detta Madinat as - Salam, città della pace, oggi Bagdad per ironia o vendetta della storia. Dopo i primi cinquanta anni di splendore cominciò una lunghissima sopravvivenza formale degli Abbassidi. Come da Damasco nel 717, furono fatti tentativi poco convincenti di prendere Costantinopoli, l’ultimo fallì nel 782: le poderose mura della città la salvarono e poté respirare per un breve periodo cercando di recuperare l’Italia. Era destino che spettasse ai cristiani nel 1204 per sete di denaro e libidine saccheggiare per primi Costantinopoli dopo quasi mille anni ( record insuperato) dalla sua fondazione Entrambi gli imperi si combatteranno per secoli con all’interno gli identici problemi: le eresie religiose che diventavano politiche e viceversa. Le province arabe, anche per la loro distanza dal centro, si dichiaravano indipendenti ed un sistema tributario, militare ed agrario avviava il feudalesimo arabo al pari di quello europeo: potere civile e religioso non sempre distinti si accaparravano le terre e le rendite per le rispettive aristocrazie alla faccia del Vangelo e del Corano.
Ciò sarà causa futura di infinite guerre locali per entrambi prima che a metà del secondo millennio profilandosi gli stati nazionali in Europa si avvierà una carneficina fino alla seconda guerra mondiale, mentre in oriente i Turchi accorpavano tutto in un vasto impero che fece tremare l’Europa per tutto il 1500.


ARRIVANO I TURCHI

Questi prima entrarono nel mondo islamico come mercenari o schiavi che le province orientali davano come tributo al posto della moneta ed il Califfo li usava come pretoriani e validi comandanti che a volte fondavano nelle province loro affidate una dinastia indipendente di fatto. Gli Arabi con i Persiani si erano evoluti verso il commercio, l’industria, o la rendita agraria ed amministrativa, perdendo entrambi la supremazia militare e quindi politica-economica, quando sono la stessa cosa. Man mano che il rapporto tra questi ultimi ed i Turchi si alterava a favore di questi, entrambi ( Arabi e Persiani) furono di fatto privati di ogni potere ed i Califfi tenuti in carica nominale e come simbolo dell’ortodossia sunnita in zona sciita. Dopo il 950 sulle frontiere orientali interi popoli turchi si autoconvertirono all’Islam ortodosso senza guerra santa, anzi promuovendola essi stessi contro gli infedeli e mettendo in imbarazzo e ridicolizzando gli Arabi che si erano rilassati e divisi in tanti stati sceiccati illudendosi di godersi le conquista tra giardini ed harem. Cancellando il loro passato, di cui poco o nulla si sa, i Turchi inalberarono la bandiera della mezzaluna che divenne la loro identità nazionale fino ad oggi. In particolare poi i Turchi Selgiuchidi per altri che li incalzavano, dal lago di Aral si spostarono a sud-ovest convertendosi pur essi da soli all’Islam. Si posero al servizio militare di varie dinastie arabe che provvidero a sostituire e con questo metodo avanzando presero Bagdad nel 1055 da dove in pochi anni arrivarono in Siria e Palestina, si introdussero in Anatolia mirando a Bisanzio che sentì vicina la minaccia. I continui attacchi ai cristiani della Cappadocia produssero l’architettura nascosta nella roccia di chiese e sistemi di difesa. A questo punto solo le divisioni fra i capi turchi che sfociavano in regolare e continua guerra aperta con devastazioni e stragi nei vari loro stati che coprivano l’Anatolia, salvò per secoli la capitale dell’impero che vedeva sul lato orientale del Bosforo le tende dei Turchi ormai divenuti i Musulmani ortodossi per antonomasia e pericolosi quanto gli Arabi non erano mai stati. Nel 1070 i Selgiuchidi presero Gerusalemme ed il loro sultano divenne il regolatore- corrector- dell’Asia occidentale per secoli con un potente esercito che veniva impegnato in tutte le direzioni ai confini dell’impero, per evitare che restando negli accampamenti devastasse i paesi arabi o la Persia. I sultani assoggettate tali nazioni ne assorbirono per intero i valori tradizionali e facendosi garanti dell’ortodossia religiosa base del loro potere e molla di nuove conquiste per la diffusione della fede con la jihad o guerra santa, ne presero il testimone arrivando nel ‘500 a Budapest. Nel 1071 il tentativo di fermare i turchi fu disastroso e lo stesso imperatore di Bisanzio fu catturato destabilizzando il potere nella capitale con continui colpi di stato che bruciavano le poche energie rimaste: i diversi pretendenti al trono di Costantino chiedevano l’aiuto dei Turchi che disponibili chiedevano a loro volta il riconoscimento ufficiale della loro conquista.


LA TEOLOGIA ISLAMICA


Intorno al mille tra teologi islamici si svilupparono discussioni teologiche non dissimili da quella tra cristiani nella patristica e poi nella scolastica. Il problema della natura di Allah fu chiamato in causa quando si affrontò quello della predestinazione e del libero arbitrio con argomenti che quasi esulano dal corano stesso e sono analoghi a quelli che eran culminati in S. Agostino. Prima di Lepanto c’era stata Muhlberg che in teoria fu anch’esso un grande scontro di religione partito dalla concezione luterana della salvezza per fede: tale diatriba dialettica religiosa si trova anche nella teologia araba che conclude nella versione ortodossa a favore dalla fede soltanto. Anzi della volontà assoluta di Allah anche in presenza di grande fede.


LE CROCIATE


In occidente fu avviata l’epoca delle crociate che ebbero varia fortuna e destinazione ma sempre la lotta per la fede (crociata= guerra santa = jihad, allora ed oggi) fu una scusa: il papato doveva ricorrere ai principi cristiani che in effetti inseguivano sogni di potere personale e ricchezze con conseguenze tragiche per le popolazioni ed i luoghi liberati, allora dagli infedeli, oggi dai dittatori che bisogna sostituire con la democrazia-libertinaggio dei governi fantocci, eliminandoli solo quando all’Occidente non permettono di rapinare le risorse dei loro paesi, in questo caso invece sono promossi, protetti ed anche armati, non solo in Medio e Vicino Oriente, quando massacrano e torturano gli oppositori anche a centinaia di migliaia. E l’Occidente si permette pure di parlare di libertà e diritti umani, democrazia, false parole con le quali vorrebbe , quasi guanti di velluto morbido, coprire le sue mani da secoli insanguinate con arni anche letteralmente benedette dall’acqua santa.

LA FITION DELLA GRANDE DEMOCRAZIA

Durante secoli di dominazione truce in questi paesi, signor Blair, perché i governi di S.M. non hanno insegnato la democrazia? Adesso facendo il maggiordomo di Caligola ti è venuto il prurito democratico? Pinochet perché è stato protetto? Negli USA tanti presidenti si fanno vedere nel loro ranch con i cavalli: forse per questo nel senato americano ne hanno portati tanti facendoli dichiarare senatori ma trasformandoli in muli: forse in ricordo dello striscione che appare in –Via col vento- sul quale per incoraggiare la migrazione nel Lontano West sta scritto : Quaranta acres and mule- come dono e viatico oltre la licenza di massacrare gli indigeni, per rapinare loro la Madre terra ed il suo spirito, in nome dei diritti umani e della Grande Democrazia. Dove è finita la cultura delle università americane se alcuni americani stessi danno giudizi ben più gravi di questo? La Grande Democrazia è un inganno e come il Grande Fratello e tutte le ricadute pratiche delle religioni. Negli Stati Uniti d’America il Presidente non è altro che l’Amministratore Delegato delle Corporations economiche potenti e di turno che mettono il veto a ciò di cui quel popolo ha pur bisogno. Quando qualche Presidente dimentica qual è effettivamente il suo mandato, senz’altro viene eliminato e responsabile è un comunista o terrorista, così miliardi di dollari vanno spesi in tale lotta per guerre ed armamenti, e stragi gratuite in tutto il mondo.

LA PERSIA ED I DIRITTI UMANI

Ma stavamo parlando della Persia che, se fallì nell’attacco alla Grecia di Milziade e Temistocle e Pausania, umiliò la potenza romana, piegò quella araba, sfuggì a quella turca, ed infine fu consegnata dagli Inglesi al sanguinario scià, come dire all’Occidente dalle radici cristiane, liberali e socialisti, alla Cia ed alla Savak. Nomi strani per i nostri bavosi cantori a livello nazionale per i quali le stragi patite dai popoli sono normale dialettica storica se tornano utili ai padroni dei loro giornali e televisioni. Quando invece muore qualcuno mandato a supportare, con licenza di massacro e stupro e tortura, l’opera di rapina delle materie prime e del territorio, strillano i bavosi cantori con la voce del padrone come i bambini cui si toglie il giocattolo. La vita di un soldato che – difende la libertà- vale quella di mille o centomila massacrati per mantenere aperta la strada alle trivelle o ai buldozer o ai super mercati delle multinazionali. Con questa logica Mossadek fu rovesciato e lo scià Reza Fhalevi lasciò massacrare fra le torture orrende nelle carceri centomila giovani dalla SAVAK, ma fu sostenuto ed onorato fino all’ultimo per il suo petrolio e gas dagli esportatori di questa nuova merce per e. mail : la democrazia. Mentre nelle carceri iraniane migliaia di giovani, maschi e femmine, venivano torturati ed umiliati con pratiche da inquisizione da aguzzini addestrati dalla Cia come rappresentante della nazione che difende ancora nel mondo i diritti umani, lo scià volava sul jet personale e personalizzato verso le piste di scì di Saint Moritz con la sua corte a suon di miliardi e dall’aereo prenotava alberghi, piscine, alcove con relative ragazze di cui prescriveva le fattezze oltre che il colore, che doveva essere naturale, dei capelli e del pube, che doveva essere inviolato. La conseguenza fu l’estremismo fondamentalista sciita di Komeini e l’attuale situazione, con in mezzo la guerra fra l’Irak e la Persia che lasciò nelle paludi dello Schatt el Arab due milioni di morti ed alla fine nulla cambiò negli agognati confini ricchi di petrolio che l’ingenuo e fesso Saddam voleva sottrarre all’Iran, auspici i suoi fornitori occidentali allora per miliardi di dollari e di armi. La persia aveva le armi già fornite allo scià. Tenere sempre presente cosa vogliono i fabbricanti di armi: guerre, qual è ai fini pratici la loro differenza con i terroristi? Allora l’Occidente, leggi USA, spaventato dallo straripamento della rivoluzione komeinista coccolava ed armava Saddam Hussein quale baluardo e fantoccio, oggi criminale condannato ed impiccato per i suoi crimini e per vendetta privata della famiglia di Caligola e Nerone. Il figlio dello Scià che vive con i miliardi trafugati, dice che bisogna ripristinare in Iran niente meno che la democrazia, quella di suo padre già in atto con la tortura su milioni di prigionieri politici. Armato e finanziato fece Saddam una guerra per procura rendendo da ingenuo ed ambizioso un grande servigio all’Occidente che con lui in effetti fece una crociata che neutralizzò la Persia e fermò lo straripamento del Komeinismo che minacciava di essere più pericoloso dei primi califfi dopo il Profeta. Al momento della cessazione delle ostilità Komeini disse che era costretto a bere il contenuto di un calice di veleno, servitogli dall’Occidente che per quasi dieci anni non fece niente per fermare la strage nelle paludi tra i due stati e si arrivò all’esaurimento. Ma Saddam tornò a casa a mani vuote, ( cu culu ruttu e senza cirasi) con oltre un milione di morti che sono quasi il doppio dei nostri caduti nella Grande Guerra. Capì da stupido e cretino e criminale( ogni dittatore è tale, anche quelli che lo sono di fatto in seguito ad elezioni in apparenza libere) che era stato usato e ritenne che il petrolio del Kuqueit poteva essere una parziale ricompensa alla non conquistata provincia petrolifera del sud ovest della Persia, anche per salvare la faccia all’interno. Non fu così: gli USA e gli Europei intervennero per difendere i loro interessi e l’harem degli sceicchi e degli emiri e dei re sauditi dove è vietato parlare, pena carcere e tortura, di diritti della donna o democrazia: qui i nostri sadducei e farisei puritani e bavosi cantori anche a livello nazionale non hanno obiezioni da fare: qualcuno parla di monarchia illuminata, forse si riferisce al petrolio. La grande stampa non ha tempo e fogli da dedicare.


IL NUCLEARE DELL’IRAN.

Certo che l’attuale presidente iraniano è un irresponsabile e pericoloso quando nega lo sterminio degli Ebrei o chiede la distruzione di Israele. Il va sans dire, dicevano i Francesi.
Ora lo stesso Israele e gli Usa hanno i piani pronti per bombardare e distruggere gli impianti nucleari della Persia, come è avvenuto con l’Irak, e certamente sarà un disastro radioattivo che può avere conseguenze inimmaginabili. L’accusa è quella di preparare armi atomiche a disposizione di un regima terroristico. Se questo fosse vero solo in parte, gli Usa ne sono responsabili per la storia recente di questo paese. La Russia ha un grande arsenale atomico come la Cina, l’India sta facendo altrettanto e nessuno si è opposto mai a questa, tanto meno poi al Pakistan che da questa si sentiva ancor più minacciato. E’ notorio che lo stesso Israele possiede un arsenale atomico di riserva che può servire solo contro gli Arabi che non sopportano la sua presenza, almeno in questi termini di continuo rosicchiamento delle terre palestinesi: il vero obiettivo di tanti Ebrei è quello di formare un Grande Israele con l’invito esplicito accompagnato dalle stragi armate, a tutti i Palestinesi, non solo di non ritornare, ma di fare la diaspora a quelli rimasti. Circondato da cinque potenze atomiche l’Iran, aldilà dell’attuale presidente destinato ad uscire di scena, ha tutto il diritto non solo di sviluppare il nucleare energetico come dichiara, ma anche di costruire la bomba atomica se questa fosse il suo fine ultimo. Chi lo garantisce mai contro i cinque che lo circondano? Quando India, Israele e Pakistan preparavano la pillola, l’Occidente dov’era? Forse con lo scià non avrebbero fatto obiezioni, ma gara per fornire la tecnologia in cambio di petrolio. La vigliaccheria morale e storica dei regimi arabi detti moderati ed in effetti dittatoriali dal mar Rosso all’Atlantico che hanno abbandonato i Palestinesi nonostante il blà blà della lega Araba, sta facendo il resto. Questi regimi si reggono contro i loro popoli soffocati perché hanno l’appoggio armato dell’Occidente esportatore di democrazia, Il vero pericolo è l’arsenale atomico pakistano, dove veramente qualche talebano infiltrato potrebbe mettervi le mani e , Dio con Allah non vogliano, sarebbe l’apocalisse.

IL CONCETTO DI CRIMINALI


Non sono contrario alla pena di morte, ma vengono eseguiti sempre i poveri, mai un ricco qualunque reato abbia commesso negli USA. Se poi si applica per i reati attribuiti a Saddam, dal dopoguerra ad oggi almeno una cinquantina avrebbero dovuto precederlo e quasi tutti scelti tra i protetti dagli esportatori di democrazia: primo Pinochet da loro messo e promosso al potere, poi tutti i generali sudamericani che hanno massacrato centinaia di migliaia di persone anche facendole precipitare negli oceani aprendo la plancia di un aereo targato CIA. Il tribunale dell’Aja perché non ha proceduto anche contro i presidenti USA che hanno autorizzato tanti massacri che certamente sono crimini di guerra? Dal Marocco al Pakistan dittatori più o meno sanguinari prosperano con le multinazionali, che di fatto governano i loro paesi: si tace degli aspetti tragici della giubilata globalizzazione che spingendo al consumismo ci sta rendendo schiavi come persone e sta annientando nell’economia e nella natura gli Stati anche estesi che hanno un bilancio assai inferiore ad una sola holding finanziaria e debbono subire ogni violenza sul loro territorio con riflessi negativi su tutta la terra.

I DANNATI DELLA TERRA


Le loro risorse –dei dannati della terra- di quei popoli che in abbietta miseria cercano di raggiungere il nord, qualificati invasori barbari e terroristi perché musulmani, anche quando finiscono in fondo al mare con i figli neonati, partoriti magari sulla barca, sono l’obiettivo da colpire dagli esportatori di democrazia anche italiani. I cattolici o ortodossi che vengono dall’Est sono forse migliori? Non manca qualche avventuriero, ma cosa spinge tanti disperati a tale periglioso viaggio pur conoscendone i rischi? Centinaia di disperati giacciono in fondo al mare tra Africa e Sicilia ed in Italia dei buoni cittadini se la cavano dicendo peggio per loro. La causa di tanta disperazione alimenta anche il terrorismo scientifico perché gli offre una grande platea di reclutamento tra i disperati. Durante il Natale infinite ore di trasmissione e sermoni ci ricordano che a Maria ebrea, figlia di Anna e Gioacchino, ( Immacolata ab aeterno, Vergine, Annunziata, Addolorata, Assunta) in una fredda notte e con le doglie, Le fu negato dal mondo sadduceo e fariseo un rifugio o luogo decente per partorire nientemeno che il Verbo Incarnato, Logos di cui era figlia e del quale divenne madre. Era ricercata da Erode che temeva il Re dei re. Milioni di Marie scappano partorendo su una barca fredda e fetida e sono fortunate se toccano la nostra terra con il bambino ancora al cordone ombelicale, quando non sono buttate in mare con lo stesso? Sulla spiaggia le aspetta Erode che vede in loro un pericolo per la nostra civiltà e libertà. Lo stesso Erode si incarna per i loro occhi oggi nell’Occidente che vanta le sue origini greco-romane e cristiane, ma che da secoli mantiene per suo comodo povertà ed oppressione nei paesi da dove si scappa. Sulla stampa foraggiata dal mercantilismo cesareo ogni giorno si grida contro l’islàm e gli emigrati, ma nessuna analisi sui veri motivi di tanta tragedia. Quanti Europei ed Italiani morirono cercando di fare anche a nuoto il tratto di mare dal posto di controllo medico ed attitudinale di Ellis Hisland alla costa di New York? O non vale la pena ricordarli perché erano poveri cafoni analfabeti che scappavano dalle zone povere dell’Europa della bella epoque? Bella Epoque, ma per quanti? Disse qualcuno che l’uomo sulla terra è come un pesce nell’acqua: segue la corrente calda o fredda ( kuro scivo e kuro saca) a seconda che porta ad ognuno il cibo, così l’uomo si è sempre spostato sulla terra inseguendo se non proprio l’oro certamente l’aspettativa di miglior vita. Il recente film – MONDO NUOVO- che l’Italia ha mandato candidato all’Oscar, in versione edulcorata ricorda un aspetto di storia nostra tragico per milioni di Meridionali in seguito alla grande crisi del vino che causò tra Ottocento e Novecento la migrazione di milioni di persone da quello che era stato pur esso il glorioso regno, anche se non mancò di grandi opportunità per pochi. I rapporti della polizia americana indicavano cento anni fa i nostri nonni come criminali portatori di violenza e malattie: sono identici alle affermazioni pubbliche di tanti nostri ministri rispetto agli islamici ed estensibili per loro a noi del Sud. Chi è necessitato ad emigrare oggi non può farlo con le invasioni di un tempo che somigliavano ad un alveare in cerca di una nuova arnia. Centinaia di milioni di dannati della terra dal Pakistan al Marocco giù per l’Africa sub sahariana sempre più deserta per il nostro inquinamento, guardano a nord, alla terra promessa: fuggono da sete, fame, violenza,malaria endemica ed anche da regimi sanguinari da noi protetti e che non sanno né possono contrastare. Ma arrivati sulla quarta sponda il mare non si apre di fronte a loro come agli Ebrei il mar Rosso, essi non sono guidati da Mosè e non sono il popolo eletto: sono il popolo dannato di Franz Fhanon. Fuggono da sanguinari dittatori anche cannibali tenuti in piedi dai difensori ipocriti dei diritti umani che governano l’Occidente come amministratori delegati degli sporchi interessi delle multinazionali. Fuggono da guerre dietro le quali ci sono le multinazionali per il controllo delle risorse (petrolio, gas, minerali, legname, colture che fanno avanzare il deserto che accerchia le loro capanne e toglie il pascolo alle loro mandrie) del suolo e sottosuolo da portare via lasciando un disastro ecologico ed umano. Grandi regioni diventano infertili e gli abitanti possono solo morire come gli alberi perchè fissati al suolo da quelle radici che non gli danno più linfa. Non possono eleggere a loro miraggio il sud verso l’equatore dove da cinquanta anni guerre continue hanno fatto almeno oltre dieci milioni di morti che non hanno valore perché africani. Dittatori sanguinari come Ciombè e Mobuto responsabili di stragi infinite e tenuti al potere dalle multinazionali in cambio del rame del Katanga e del prezioso legname che ha distrutto la foresta equatoriale hanno attraversato col picchetto d’onore i dorati cancelli delle cancellerie europee ed americane con il presentat’armi ed il suono delle fanfare mentre veniva impinguato il loro conto personale nelle banche dei paradisi fiscali frequentati anche da tanti nostri moralisti e soloni di celtica civiltà per la loro borsa. Le elemosine lasciate dall’Occidente ricco e potente a tali paesi sono consegnate a tali tristi figuri di sanguinari dittatori che le sottraggono al popolo per loro uso e consumo personale e per una polizia di repressione su chi protesta. Alla morte di Mobuto si è accertato che al suo clan famiglia si trovavano nelle banche europee decine di miliardi di euro da lui trasferiti o direttamente a lui versati dai suoi patroni del mondo libero o meglio del libertinaggio economico, il cui confine con il crimine umanitario non è sempre chiaro e definibile né all’interno né all’estero.

I –TERRORISTI- IN NIGERIA

Chi c’era dietro la guerra del Biafra nel delta del Niger? Qui, in Nigeria le compagnie petrolifere con un governo Quisling stanno realizzando un disastro ecologico infinito che nessun paese europeo avrebbe permesso sul proprio territorio: nel delta invaso dallo sversamento di petrolio l’agricoltura e la pesca sono morte ed hanno come monumento funebre i tralicci delle trivelle che si muovono dinanzi agli occhi degli abitanti disperati come come di fronte ai mulini a vento. La Nigeria si avvia verso i 150.000.000 di abitanti nonostante l’alta mortalità infantile, ed è il maggiore produttore di petrolio dell’Africa senza che migliorino le condizioni di vita, cresce con l’aids la ricchezza dei sanguinari pupi manovrati dagli Occidentali, compresa l’Italia dell’ENI. Essa ha il più alto debito estero del mondo perché il petrolio gli viene rapinato ed i pochi Nigeriani che hanno ben capito la rapina e distruzione del loro territorio con milioni di esseri umani che si riversano nelle città in condizioni spaventose, con i bambini che nascono ciechi, non sono ascoltati, anzi se disturbano sono subito definiti terroristi, vengono impiccati con il plauso consenso degli esportatori di democrazia e dei diritti umani su cui sputano quando vanno contro i loro interessi. Non hanno altro mezzo per fermare lo scempio, che è congiuntamente umano ed ecologico, i gruppi che in questi paesi martoriati hanno il dovere diritto di richiamare l’attenzione su quello che avviene, se non passare all’azione diretta rischiando la vita con attentati agli impianti di pompaggio o addirittura col sequestro degli europei che lavorano alle dipendenze delle compagnie i cui dirigenti si godono al sicuro il frutto della rapina e violenza accusandoli di violare le leggi. Quali leggi? Quelle sempre del violento più forte, anzi fortissimo? Speriamo che gli operai italiani sequestrati possano al più presto rivedere sani e salvi le loro famiglie in Italia, ma chiamare terroristi i loro sequestratori non credo sia il miglior viatico. Né credo che l’ENI o le altre compagnie si lavino la coscienza facendo vedere che hanno regalato qualche scuola o ospedale ad un popolo di centocinquanta milioni che ha diritto di vedere i giusti proventi del petrolio spalmarsi su di tutti i disperati che arrivando in Europa sono terroristi, solo perché da tale situazione purtroppo qualcuno può essere adescato. La più ampia solidarietà a chi lotta contro le compagnie petrolifere che così agiscono: dove siete voi intellettuali europei? Dove sono i figli di Hugo, don Chisciotte, Ghoete, Dante, Kafca, ecc…o gli auspici vengon tratti dal petrolio? e quelli sono sola roba obsoleta da incorniciare perché non hanno capito la molla della storia che è solo il profitto che è riuscito ad uccidere il messaggio di ogni profeta e religione ?
Viviamo di fiction che viene esibita: si fanno spettacoli con artisti per raccogliere fondi per l’UNICEF e svampite dive sulla via del tramonto si prodigano ad esibire seno e coseno e quant’altro al silicone come se fossero portatrici di umanità: si raccolgono pochi spiccioli dall’incerto uso. Ambasciatori ed ambasciatrici che sono il simbolo vivente del consumismo di fatto ateo ed anticristiano fanno da mosca cocchiera alla ipocrisia dei loro mandanti. Il grande digiunatore si fa grissino contro la condanna a morte nel mondo: dobbiamo includere fra i condannati morte anche i milioni di morti per fame, aids, malaria o che nascono ciechi per la devastazione alla ricerca di materie prime. Contro tali condanne collettive a morte perché nessuno protesta se non con appelli di rito? Non si fa perché bisogna analizzando arrivare ai responsabili che sono tra noi. Poi scopriamo che i grandi personaggi nei vari settori sono da anni grandissimi evasori fiscali con vari espedienti: non solo hanno negato a Dio quel che è di Dio, ma anche a Cesare quello che è di Cesare. Poi fanno il concordato pagando meno della metà della metà e continuano ad esibirsi per gioa di un popolo cui si offre panem et circenses in versione moderna: sport truccato sempre e violento, pornografia e violenza vera e propria come valori che se non condivisi secondo l’offerta ti fanno dichiarare obsoleto, perché il mondo è questo.
I guerriglieri della Nigeria che sequestrano e liberano i lavoratori delle compagnie petrolifere, rispetto a queste forme di vita sono degli angeli per il loro popolo di fronte al terrorismo ambientale e sociale dalle stesse promosso.

LA TRATTA DEGLI SCHIAVI


Da questa zona vennero tratti milioni di schiavi catturati all’interno e venduti agli Europei che con le navi attendevano sulla costa per portarli al mercato del centro e nord America. Ai mercanti di popoli oggi non interessa tanto la tratta umana, ma le risorse-ricchezze di tali paesi e per averle si tiene e si opprime per mezzo di kapò popoli interi sul loro stesso territorio come i loro antenati formalmente schiavi. I pontefici denunziano con appelli generici la situazione: perché non si impegnano veramente indicando per nome e cognome i responsabili che fanno integralmente parte di quell’occidente dalle supposte radici cristiane? Non bisogna invocare aiuti contro la fame nel mondo e le conseguenti varie epidemie, si dica chiaramente che bisogna porre fine a rapina, violenza e sfruttamento che alimenta nel nord un folle spreco e consumo di materie prime tratte dai quei paesi dai quali si fugge. Lo stesso vale per l’emigrazione latino-americana negli Usa: si ripercorra la storia degli ultimi duecento anni degli interventi armati nel centro e sud America per ivi mantenere ed imporre con milioni di morti regini favorevoli alle compagnie americane nei vari settori, petrolio, telefoni, banane ecc…. Per loro ammazzare uomini politici liberamente eletti, provocare colpi di Stato con migliaia di morti è pratica corrente da duecento anni, perché –l’America agli Americani.- Per secoli l’Europa fu terrorista con i paesi da dove ora vengono quelli che essa chiama terroristi con la politica delle cannoniere puntate su interI popoli. Noi abbiamo dimenticato, loro non possono. Dopo la seconda guerra mondiale gli Usa sostituirono in Africa ed Asia l’Europa ormai fuori gioco, con la stessa tecnica di potenza rapinatrice e terroristica dell’Impero Romano, da questo hanno mutuato la strategia: servirsi di potenze regionali e riservandosi l’intervento diretto nelle emergenze operando da basi strategihe opportunamente dislocate. A scuola ci dicevano che Roma esportava la civiltà: quella del terrore e del sangue.


I PAESI RAPINATI

Quelli che arrivano morti o vivi a Pantelleria fuggono dall’aids che non possono curare per i prezzi delle medicine che pretende chi si definisce – mondo libero- perché chi siede nel consiglio di amministrazione delle case farmaceutiche deve guadagnare almeno cinquanta milioni di dollari all’anno. Si abbattono le foreste per produrre cereali per l’Occidente, si abbattono con genocidio calcolato le ultime tribù amazzoniche che ancora non sanno niente della civiltà. Si mandano spedizioni di presunti filantropi per carpire le loro conoscenze millenarie nella cura di certe malattie con una biopirateria che fa risparmiare alle multinazionali farmaceutiche milioni di dollari brevettando cure rubate. Quello che sta avvenendo in tale campo è più grave della guerra in Irak, ma all’occidentale considera noioso parlare di tanto. Attenzione: qualche turgido spruzzo di tanto arriverà a noi e sarà tardi. – Dove arrivano creano il deserto e lo chiamano pace- disse qualcuno delle legioni romane in Africa nei nostri primi secoli. Ed allora veramente il Magrheb non era deserto come adesso, da esso traevano i Romani i leoni per il circo: hinc sunt leones.
-Tu regere imperio populos Romane memento- (Imperio significa imporre la propria volontà di occupante con la forza delle armi). Ogni Impero di turno si è attribuito una missione di civiltà in nome dei suoi valori civili, religiosi ed interessi economici quali che siano, per chi non li accettava erano pronti legionari e pretoriani o giannizzeri, lanzichenecchi, oggi sostituiti con missili, bombardieri e carri armati o naplan. Questo fu profuso a tonnellate sulle capanne del Vietnam, come mai i presidenti americani non sono stati processati da nessun tribunale interno o internazionale per crimini di guerra? O il loro naplan era alla coca-cola e quello di Saddam al petrolio? Qual’ è la differenza, signora Ponti? Quello che sta venendo oggi fuori dagli archivi filmati di tale uso del naplan in Indocina è terrificante, ma il popolo americano reagisce pallidamente perché ognuno ha paura di essere assimilato ai terroristi solo se mostra disgusto o chiede spiegazione nel paese della grande democrazia: poi ci meravigliamo se durante il nazismo pochi, compreso qualche sacerdote, poi mandati tutti ai campi di sterminio, ebbero il coraggio di protestare in nome della umana dignità.
Quando durante lo spargimento del naplan, che costituisce crimine di guerra, ci fu una discussione nel parlamento italiano, un nostro capo di governo arrivò, forse con ritrosia interna, ad esprimere agli USA – comprensione-. Bisogna oggi valutare le conseguenze della sostituzione della potenza americana nelle colonie che l’Europa dovette abbandonare: tentativo armato di mantenerle tali anche se nominalmente libere. L’Europa anziché farsi un esame di coscienza storica ( che sciocca illusione di don Quijote ) si affianca. E’ inutile mirare ad un particolare anche esecrabile del terrorismo, bisogna osservare tutto l’insieme nel suo nascere e sviluppo, anche se condannabile senza riserve il suo retroterra antico e recente è lì a fare reclute.

LA CHIESA E L’OCCIDENTE


Perché non si fanno sentire le radici religiose e civili dell’Occidente? Almeno quello del Vecchio Continente. Non sono mai esistite, il nuovo totem è la Multinazionale e gli idoli la carta di credito, i beni di consumo costosi che obbligano ad un circuito di vita malsano, in definitiva il denaro è sempre stato il vero Dio dell’uomo. Più che condivisibili le gravi preoccupazioni dei recenti Pontefici circa la necessità di ricristianizzare l’Europa ( ma è mai stata tale nella concreta determinazione storica nella vita della società e delle istituzioni comprese quelle della stessa chiesa?) perché da tempo sta tornando pagana. Sarebbe più vero ed onorevole per la Chiesa stessa ammettere che l’Europa compresa la Chiesa ha glissato per 2000 anni il vangelo e proporsi di ricominciare dal terzo millennio, ma l’enciclica di tal nome non pare intenda così. Ma da dove cominciare? La risposta è netta: dalla Chiesa stessa per non incorrere di nuovo nel rimprovero dell’Islam che diventa un alibi occidentale per coprire la grande ipocrisia, e viceversa. L’Islam in questo momento per le ragioni accennate è percorso da un movimentismo che rischia di metter in difficoltà il Cristianesimo in quanto tale nelle varie versioni che per fortuna non si azzannano più, se non sa con maggiore coerenza al Libro andare tra il popolo tutto praticando il discorso della Montagna e non solo predicarlo. La Chiesa-Vangelo non si salva con il rafforzamento diplomatico e con le lodevoli fondazioni di Ospedali ed Università non accessibili ai dannati della terra. Si combattano a viso aperto gli sciacalli che fanno morire ogni 5 secondi un bambino per fame tra il miliardo di affamati per gli sprechi imposti dal nostro consumismo eccitato da una pubblicità criminale.


AFRICA TRA CRISTIANI E MUSSULMANI

Buona parte di questi dannati si trovano nell’Africa tra l’Equatore ed il Tropico del Cancro in una zona cuscinetto tra Islam e Cristianesimo. Quello a Nord già dall’ottavo secolo e questo al Sud con il colonialismo e le missioni: il rapporto sta cambiando. Dal Senegal al golfo di Guinea passando per la Nigeria sull’Atlantico e verso oriente fino al Mozambico sull’Oceano Indiano, l’Islam sta avanzando dall’interno verso le coste ed a poco servono le missioni cristiane: se è vero che ogni religione ha pari dignità perhè le missioni a scopo di conversione? Su questo versante Roma sarà battuta, se la sua forza non sarà la pratica del vangelo stesso e la denuncia forte e conseguente della fiction di tanti, la maggior parte, dei cristiani.
Se si visitano quei paesi ( Senegal, Guinea, Costa d’Avorio, Nigeria, Rep. Centrafricana, Sudan, Etiopia, Somalia, Kenia, Tanzania, Monzambico…) si trovano le vecchie chiese del colonialismo che ai pochi giovani con accesso alla cultura e quindi determinanti, rievocano schiavismo e sfruttamento contro il quale raramente la chiesa prese sia pur timide posizioni essendo praticato da quei governi di popoli comunque cristiani dell’Europa con i quali era piuttosto impegnata in vantaggiosi concordati sul piano giurisdizionale ed economico.
. Sono presenti invece un gran numero di nuove prefabbricate moschee dell’Islam nel quale confluiscono tanti animisti anche come centro di solidarietà in una vasta zona di fame e mortalità infantile, mali per i quali è facile al Muezzin indicare nell’Occidente cristiano da secoli il responsabile. Le moschee nuove sono sempre donazione dei fratelli musulmani sceicchi del Golfo Persico che non badano a spese nel finanziare iniziative umanitarie per alleviare le sofferenze di milioni di persone. Essi possono dire che assolvono alle sure che tanto comandano in vari punti del Corano con riferimento alla Zakat-decima:destinata a diverse categorie di bisognosi ed intesa come purificazione dei beni posseduti a vario titolo e serve a tanti scopi generali. E’ una specie di patrimoniale–salasso che come vedremo veniva giustificata in Calabria l’anno di Lepanto 1571.
Anche se strumentale l’agitazione islamica sta dando alla religione del Profeta del deserto un forte ritorno di fedeli nelle moschee, facendo leva sulla violenta intromissione nostra determinata dal mantenere in quei paesi governi sanguinari col loro popolo e corrotti, ma succubi dei nostri interessi, toccando i quali bisogna abbatterli per introdurre la democrazia: concetto soltanto ipocrita ed inattuabile nelle condizioni date. Dall’Atlantico all’Indo, con la grande appendice dell’Indonesia che è il più popoloso paese musulmano, in nessuno dei paesi arabi esiste democrazia con libere elezioni e dovunque c’è repressione e tortura anche se quei governi ipocritamente si richiamano all’Islam. Se uno di essi comincia ad espropriare i pozzi di petrolio o gas delle compagnie allora ci si ricorda che non rispetta i diritti umani, è amico dei terroristi e bisogna abbatterlo. Così anche si alimenta il reclutamento al terrorismo di tanti che pur non fanatici, con l’accesso alle conoscenze magari nelle università europee o americane, ben intendono la storia passata e presente del loro popolo e scelgono disgustati di tornare all’-antica madre-.. Eppure nei vari paesi, compresi gli USA, non mancano studiosi della storia civile e religiosa di tali popoli che sappiano valutare le conseguenze a medio e lungo termine degli sciagurati interventi militari e le misure alternative quando necessarie.

ISRAELE

Il caso di Israele è particolare, ma rientra ormai nel quadro generale di un nodo che non si scioglie, né si può usare la spada come Alessandro con quello gordiano. Non si può sempre recriminare sul passato, Israele ha diritto ad una esistenza entro confini incontestati, ma fino a quando agli occhi di ben oltre un miliardo di musulmani apparirà come il braccio armato dall’Occidente ed in particolare killer degli Stati Uniti contro di loro, tale valutazione sarà una fabbrica di kamikaze o terroristi e comunque si chiamino la soluzione non sarà mai militare. L’intelligenza degli Ebrei dovrebbe riflettere, anche se la non infondata paura di essere sopraffatti fa svolgere tale ruolo. Chi bambino sopravvisse alla stragi di Sabra e Schatila con Tell al Zatar operate dai cristiani maroniti, propiziata dal generale ebreo Scharon ( al quale in coma sinceramente si augura il miracolo, forse Dio-Allah lo ha voluto punire, forse in fine lui falco aveva cominciato ad intelligere, ) che la lasciò consumare dalle tigri libanesi, ed ancora vive in campi profughi in condizioni morali e materiali orrende ed assiste ai morti e feriti per le incursioni ebree che ogni giorno ammazzano anche donne e bambini nelle misere tende, quale meraviglia se vede la stella di David sui tank ed aerei d’Israele come una svastica a cinque punte? e se diventa martire-kamicaze, con la esecrazione e condanna non si risolve niente. Chissà se il coma concede a Sharon qualche momento di lucidità? Che Dio-Allah abbia pietà di lui! Gli ritorneranno in mente migliaia di infanti scannati e mutilati sotto gli occhi delle madri all’ombra dei cedri, ( salici, dirà il poeta in Italia) e chissà se li accosterà alle migliaia di bambini ebrei anche neonati di pochi giorni o settimane prelevati dagli orfanotrofi dell’eroe Petain
( tale è stato ed è ancora per tanti francesi antisemiti prima degli stessi tedeschi) e trasferiti in carri bestiame verso lo sterminio che già si verificava durante il viaggio che potevano fare avanti indietro perché all’arrivo morti qualcuno veniva dimenticato nel fondo dei vagoni? OH ISRAELE !!! OH POPOLO ELETTO, quando capirai che il tuo nemico vero non è il Palestinese che tu hai reso come te ramingo, ma chi ti sta facendo svolgere il ruolo di killer, quell’occidente che porta ancora nel suo animo e culturalame un germe di antisemitismo secolare e mai dimesso, nonostante le belle varie dichiarazioni ti considera sempre –il perfido ebreo-, della preghiera del venerdì santo colui che quel Cristo morto ha rinnegato come i Farisei. A coloro che sembrano offensive queste parole, e saranno tanti, raccomandiamo la letteratura ufficiale o quasi cattolica nei secoli sull’argomento, in particolare – Civiltà Cattolica- e gli increduli si contentino della -Storia degli Ebrei Italiani sotto il Fascismo- di Laterza, che già basta per far accaponire la pelle in rapporto a certe riportate dichiarazioni sugli ebrei da parte di eminentissime figure cattoliche. Stai attento, la storia ha tempi sempre più corti nella formazione e caduta degli imperi che per loro natura sono sempre sanguinari e quello che ti sta usando si profila pur esso in declino. Tu sei ritornato alla Terra Promessa dopo quasi 2000 anni per volontà mirata dell’impero inglese cadente e di quello USA nascente e dopo una esperienza tragica che non ha eguale: a quelli che hai cacciato da meno di 50 anni impedisci di tornare, questo dice il tuo Vecchio Testamento? Tu stai applicando il razzismo di stato agli arabi che incolpevoli hai scacciato dalle loro case, tu sei per loro come i Romani che crocifissero Cristo e ti oltraggiarono, da Pompeo a Tito e ben oltre fino alla definitiva diaspora.

I VANGELI

Solo un cristianesimo con Vangeli appositamente manipolati e costruiti a posteriori, secondo la visione paolina da conformare alla visione imperiale romana, poteva trasformare lo zelota Gesù Salvatore, che in David provò a liberarti dalla schiavitù romana dopo quella egiziana e babililonese, in vittima della tua malvagità nascondendo per secoli di essere pur esso caduto nelle mani di Sadducei e Farisei. Dio non ha mai prescritto la grandezza e ricchezza dei templi e dei loro sacerdoti in nessuna religione, ma un cuore aperto e la borsa non serrata di fronte alle sofferenze di popoli ed individui.

Il problema non è la questione israelo-palestinese, ma l’uso che se ne fa perché non si risolva. A lungo andare Israele potrebbe fare la fine dei regni crociati dell’undicesimo secolo, ora è strumento degli USA per l’estremismo arabo, ma sa che il suo protettore protesse pure i criminali nazisti che tentarono la soluzione finale, e non lo fece da solo. Norimberga fu una farsa: la maggior parte dei criminali nazisti di alto e medio rango si sottrasse alla resa dei conti protetta anche dalle abbazie e da quelle varie istituzioni che fingevano di inorridire di fronte allo sterminio. I criminali rimasti in Germania dopo gli anni cinquanta divemmero intoccabili e protetti dal parlamento tedesco negando qualsiasi ipotesi di estradizione attraverso un’opera di rimozione che ha lasciato intatto in Europa l’antisemitismo. Molti di loro fecero carriera politica magari con rapporti speciali con Israele. E quando qualcuno di loro è stato estradato in un paese europeo è stato trattato anche troppo bene invocando il rispetto di norme di civiltà giuridica, anche se non ha ritrattato nulla sui crimini commessi o mostrato segni di redenzione e così tra condanne minine e ragioni di età qualcuno di loro in Italia fa il turista sullo scooter a nostre spese. Bisognava in Europa mantenere un plotone di esecuzione permanente, ma un continente arrivato a quella barbarie da tanti condivisa non è degno più di essere preso sul serio in nessuna delle sue istituzioni civile o religiosa.
Vedremo in ciò anche l’Italia .

RELIGIONI E POPOLI : LA FAMIGLIA

Si rischia veramente un ko magari senza che nulla migliori. Non si dimentichi che l’attuale tasso di natalità dal nord Atlantico a Vladivostok sul Pacifico è in caduta libera
( in Russia dal 2,2 all1,2 % dalla caduta dell’URSS) e solo trattenuto dagli emigrati legali o illegati musulmani o dalle repubbliche turco-musulmane dell’Asia centrale e, ciò che per noi in questo momento dev’essere motivo di riflessione, dalla Turchia. In Italia si è scoperta la flessibilità del lavoro come modernità ed è diventata la prima causa prima del decremento demografico; si è di molto alzata l’età matrimoniale demotivando la procreazione o arrestandola ad uno o due figli con calo degli abitanti. La mancanza di certezza di un reddito sta rendendo milioni di cittadini single e chi decide in tale stato o sposata di procreare rischia il posto di lavoro flessibile appena scoperta: dovrebbe poter nascondere la sua maternità come l’insegnante romana del romamzo- La storia- di Elsa Morante. Poi ha enormi difficoltà ad assistere il neonato e conservare il precario posto di lavoro. Non ci sono servizi per l’infanzia ed il mantenimento decoroso di due figli presuppone che entrambi i genitori abbiano un lavoro sicuro con reddito decente. Chi fa queste osservazioni viene indicato come arretrato ed incapace di comprendere i tempi moderni del lavoro e della concorrenza, anzi sostiene che la flessibilità ed il precariato avviano i giovani al lavoro. Hanno trovato la maniera di formalizzare la schiavitù moderna: allo schiavo greco e romano si passava il vitto necessario a sopravvivere e rinnovare con esso la sua forza lavoro: Con lo stipendio suo il precario, licenziabile ad libitum in ogni momento e quindi inferiore allo schiavo al quale il proprietario non rinunciava se non vendendolo, oggi non riesce a mangiare e si chiede a lui di non fare il bamboccione, ma di sposarsi e fare figli italiani da contrapporre a quelli islamici. Si parla di sostenere la famiglia attaccandola nelle sue esigenze elementari con servizi pubblici essenziali inesistenti a favore della mistoforia varia e parassitaria come l’ape regina produttrice di voti: Si provi ad almeno triplicare gli assegni per i figli finché studiano e per il coniuge, maschile o femminile, se non lavora o vi rinuncia pro tempore per accudire i figli, si faccia un piano di edilizia popolare decente, e si vedrà l’aumento rapido delle nascite, se questo si vuole. Vedremo come nel nostro 1571 qualcuno proponeva di esentare dalle tasse le famiglie di normale reddito se provvedono alla educazione scolastica dei figli, intendendo tale sforzo come un atto positivo ed utile a tutti. Per questo si può condurre la guerra santa con forca e croce. Idea santa e giusta. La cosa disgustosa ed infamante sta nel fatto che esponenti politici attivi da decenni e di altissimo rango fino a quando posano i loro aidoa ( dal greco: invisibili in quanto non ostensibili, vergognosi, quelli che, ci dice Erodoto, non sempre gli altleti coprivano) sugli alti o altissimi scranni e pesano sul pensionato al minimo costretto a pagare il tiket per non morire, e loro si pappano milioni di euro, si limitano a discutere du sexe des anges , appena lasciano la poltrona che ha riempito la loro borsa con vergognose prebende, subito si ricordano che in Italia la famiglia è abbandonata alle sue difficoltà. Costoro a vario titolo tra Stato e parastato, dal colle più alto alle valle più bassa, sono un esercito di decine di migliaia di persone alle quali bidimezzare, quanto meno, lo stipendio da rapina a mano disarmata che si sono autoattribuito, significherebbe ancora lasciargli un privilegio senza motivo. Ma nessuno di questi figli della loro mamma, di centro, destra o sinistra, si alza a dire che ventimila , trentamila, centomila e diversi milioni di euro all’anno sono una rapina che li configura come un’associazione truffaldina…… di stampo politico dedita al prelievo autorizzato di pubblico denaro ad libitum. Mi viene la voglia di chiamare qualcuno per nome e cognome per quello che va predicando in rapporto al suo esibito credo politico civile o religioso, ma temo la fine della vox clamans in deserto. La maggior parte degli Italiani forse non sa che soltanto dimezzando gli assurdi e folli stipendi della classe politica ai vari livelli e di tutti i loro protetti di alto rango nei vari enti pubblici specialmente regionali, verrebbero fuori cinquanta miliardi di euro all’anno. La vita misera di tanti Italiani è determinata anche da tale casta di folli privilegi economici. Si vuole aiutare la famiglia italiana a crescere e procreare? Prima di tutto la base economica e finiamola con la retorica dell’amore per i figli, proprio perché si amano , non si cercano per soffrire con loro.

I COSTI DELLA POLITICA : LA DEMOCRAZIA TRADITA


Vedremo che togliendo i decuplicati e vergognosi costi della politica che pasce a sbafo centinaia di miglia di accoliti grandi e piccoli da mille a ad un milione di euro al mese, oltre la- giusta mistoforia-ercede -, e tagliando letteralmente le mani, una volta tanto come il Corano insegna, ai ladri del denaro pubblico raccolto dal sangue dei contribuenti, si risolvono tanti problemi, questo della famiglia compreso. Se tale pena in Italia non si vuole introdurre perché la legge musulmana è estranea alla nostra civiltà giuridica , si alzi in ogni comune almeno una forca o si pianti in permanenza una croce, agli arraffatori del denero pubblico sotto varie forme applicheremo la democrazia facendo scegliere la pena , accertata senza ombra di dubbio il dolo di pubblica baratteria. Di questa si tratta. Io ti metto a questo posto con commenda faraonica, tu mi assumi i miei clienti che mi dovranno rinnovare il voto. Il tutto pesa sui servizi pubblici. Se poi questo non è possibile perché dei nostri reges a trenta, quaranta o centomila euro al mese con liquidazione e pensione milionaria rubata a chi deve sopravvivere con seicento euro, nessuno lo promuove, allora fra poco possiamo fare a meno di ogni istituzione pubblica e ci stiamo avviando allo sfacelo, anzi alla dittatura di fatto. Nessuno crede più ai politici: ognuno bada alla sua tasca ed a sperperare per la sua irresistibile ascesa: vox populi, Per questo quella che viene chiamata la criminalità sotto le varie forme e nomi, non viene percepita anche dal cittadino esemplare come un fenomeno fuorviante ed eccezionale o tanto diverso dalle forze politiche. Se il miraggio sono il denaro con il potere o viceversa, ognuno se lo procura come può, ed i nostri reguli non sono fessi, sanno come certa classe politica è da loro direttamente eletta ed a loro deve dare conto mettendogli a disposizione, con personale mirato, gli uffici dove in diversi modi si fabbrica ricchezza. Tanti ormai impotenti ne prendono atto ed invocano un’altro uomo della provvidenza, dicono prostrati che i primi sono loro, cioè i politici che dovrebbero darsi una regolata, una cura dimagrante ai loro assurdi emolumenti. Essi fanno finta di non rendersi conto del disprezzo che da òoro sta scivolando sulla democrazia. Quarant’anni di duro lavoro e sessant’anni di età per una miserabile pensione per non rovinare l’economia, qualche anno in parlamento per un lauto vitalizio. Cose da turchi, si diceva una volta, con rispetto parlando aggiungevano i nostri vecchi.

CARDUCCI

Poi la concezione della famiglia è un’altra cosa e comunque positivo quello dell’ordinamento giuridico italiano, senza imporre o dettare certe prescrizioni per nessuno quando attengono alla libertà personale che non limita altri. Sentire certe dame che fanno le supermoraliste in ogni paese e conoscendo di che erba è fatta la scopa, richiama alla memoria il Carducci ancora repubblicano quando con riferimento di cronaca nera notificava a costoro: Voi siete cristiane, o nazzarene, - foste dai preti a scuola- avete nelle vene- l’aretino ed il Loyola.-

I FIGLI DEGLI IMMIGRATI

Il conseguente vuoto di nascite nelle famiglie italiane che neanche si costituiscono, viene colmato dagli immigrati con famiglie numerose e fede islamica e qualcuno per integrazione intende che debbono abiurare facendoli diventare moriscos. Gli antislamici che sono anche assertori della flessibilità e peggio, meditino un poco se hanno a cuore -la purezza della razza e civiltà-. Agli stessi poi fa comodo tenere gli immigrati al lavoro senza diritti contributivi e con salario spesso da schiavi minacciando loro l’espulsione. In Persia da Komeini in poi la popolazione è quasi raddoppiata diventando la più giovane della terra ed anche gli altri paesi islamici ( Nigeria, Egitto ) corrono come abitanti. Di questo passo una montagna umana vulcanica che erutta verso nord lapilli a forma di mezzaluna, si sta ergendo di fronte all’Europa edonistica e senza anima né civile, né religiosa se non a parole. Oltre mille chilometri di muro, ben più lungo di quello che sta costruendo Israele per ingabbiare i Palestinesi, stanno alzando gli Usa per fermare chi? Gli eredi degli Indios massacrati dagli Europei compresi i figli di questi ultimi nelle loro varie discendenze. Caduto il muro di Berlino altri se ne costruiscono per cause recenti e passate e con conseguenze oscure. Il muro di Berlino era un’offesa alla civiltà, quello americano o di Israele quale civiltà difendono? Quella dei sopraffattori. Non offendono nessuna civiltà? Milosevic va processato, la Germania che fa la inorridita per quello che succede nei Balcani dove ha tenuto per decenni e tiene ancora nascosti migliaia di criminali? Perché non li ha impiccati? Pinochet esaltato e protetto anche in Europa: come possiamo essere credibili quando mandiamo soldati all’estero per difendere o introdurre la democrazia? Così insultiamo proprio gli Arabi intelligenti della storia e dei problemi presenti, tagliando loro un’alternativa regolare e la possibilità di guidare i loro popoli, facendoli apparire collaborazionisti. C’è molto da riflettere aldilà di queste affrettate ed anche forse imprecise note che non vogliono avere nulla di moralismo.


TURCHIA ED EUROPA

Nella scuola italiana ed europea la faziosità dovuta ad ignoranza ed incrostazione culturale di antica memoria oltre che presunzione di civiltà superiore anche per religione, le crociate sono presentate ai giovani, dalla scuola elementare al corso terminale prima dell’università, come una grande epopea militare e religiosa per liberare i luoghi santi dagli infedeli e feroci musulmani arabi e turhi, senza neanche accennare al fatto che in quel momento e per secoli i primi erano essi stessi sotto il controllo dei Turchi Selgiuchidi in perenne lotta per il potere, prima che la dinastia ottomana riuscisse, con bagni di sangue, ad imporsi su tutti e prepararsi al trasferimento a Bisanzio, da dove lungo il Danubio avrebbe dato l’assalto ad un’Europa altrettanto frazionata con una interminabile lotta di popoli, religioni e nazioni, che niente riuscì mai a comporre, neanche la carnefina della prima guerra mondiale partita dalla stessa Europa exturca, seguita dalla seconda e dai suoi orrori quali -Summa historica et theologica – di duemila anni. Ironia della storia stessa, i due tragici eventi determinarono anche la fine dell’altra potenza turca che fingeva pur essa di appoggiare e giustificare i suoi massacri di popoli inermi sulla diffusione e difesa del verbo di Allah-Dio. Oggi Europa e Turchia si trovano sotto il protettorato Usa cui non interessa di fatto proprio niente né di Cristo né di Allah, soltanto manovrare ( divide et impera) per imporre ad entrambi e con entrambi il controllo dell’economia mondiale con una guerra santa il cui Dio è quello vero ed unico per l’uomo e per la potenza imperiale di turno: l’oro come potenza e ricchezza, nelle sue varie forme.



PRIMA CROCIATA

Dal 1081 Alessio Commeno era a capo dell’impero greco-bizantino dagli arabi chiamato Romano in quanto erede di quello, ancora oggi gli stessi arabi usano il termine ar- Rum per indicare i greci. Egli succedeva ai basilei macedoni durante i quali le lotte intestine per il potere favorirono gli attacchi da tutti i lati dall’esterno permettendo al sultanato di Iconio Sulaima’n di arrivare a Nicea.

1096.

I turchi pur in mezzo a lotte fratricide erano riusciti a conquistare l’Anatolia e Nicea era da poco la capitale di uno dei tanti sultanati, al margine occidentale quasi di fronte a Costantinopoli. Per arrivare a prendere la ricca città, difesa da mura sempre allargate e rinforzate a partire da quelle costantiniane, ci vorranno ancora oltre 350 anni. Ma intanto ci provano tutti, compreso Roberto Guiscardo che era avanzato verso Tessalonica. Rientrato per necessità politiche in Italia vi lasciò il figlio Boemondo respinto da Alessio. Nel seguente tentativo muore assediando Cefalonia nel 1085. La sua ambizione dissimulata passerà al figlio nella crociata, trasmigrerà negli Angioini cui costerà cara. La caduta di Costantinopoli fu ritardata in primo luogo. dalle guerre eliminatorie che in tale intervallo si fecero i vari sultani ed emiri turchi, non più a vitalità della sua classe dirigente economica, politica o religiosa che si dilaniava con stragi al pari dei turchi . A tanto si aggiunse per due secoli la presenza con alterna fortuna militare dei Crociati europei, detti generalmente Franchi, che occuparono la striscia da Antiochia-Edessa fino a Gaza, con spedizioni in Egitto e valsero indirettamente a mantenere in vita comatosa la fondazione di Costantino. Il sultanato con capitale Nicea cinta da mura, sede del concilio da cui nel 325 nacque per imposizione poliziesca di Costantino l’inutile condanna bizantina di Ario riassunta nel Credo o Simbolo niceno, era stato fondato dal turco selgiuchide Sulaiman della dinastia ottomana., conficcando un cuneo verso Bisanzio, meta agognata e non più lontana o impossibile, alla quale gli arabi avevano rinunciato assopendosi e sorpresi dai primi turchi nella mollezza delle loro conquiste. Ma questi morì nel 1086 nelle interminabili lotte che ogni principe turco conduceva per difendersi o attaccare il concorrente vicino, o un piccolo emiro che mirava a soppiantarlo o il proprio fratello. In quel momento il sultanato più forte era quello di Iconio, che dal sud ovest fino a Rodi attraversava l’Anatolia verso il mar Nero ed il Caucaso e si era allargato verso Bisanzio facendo di Nicea una nuova capitale. All’interno erano frequenti ribellioni di emiri feudali che distrassero per oltre tre secoli l’assalto di fatto a Bisanzio. Ma tutti erano di stretta fede sunnita ortodossa ed intolleranti verso gli sciiti o altre varianti islamiche. Alessio e la sua diplomazia erano maestri nel mettere un sultano contro l’altro per cercare di recuperare almeno la Bitinia con Nicea e Nicomedia.
I crociati che si inserivano con la forza in tale contesto lasciavano un’Europa politica non diversa in tutti i settori e sconvolgevano il programma di riconquista dei Commeni, anche se all’inizio lo favorirono arrestando anche lo slancio turco verso Bisanzio.
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QILIG ARSLAM


Agli inizi dell’estate del 1096 il giovne sultano figlio di Sulaima’n, Qilig Arslan dopo aver recuperato con Nicea parte del sultanato paterno, adoperò ogni mezzo,compreso l’omicidio, per eliminare i parenti concorrenti in tutta l’Anatolia. Toccò a questo che possiamo definire ragazzo ed al suo –divano – di esperti e prudenti emiri, fronteggiare nel 1096 la prima ondata di crociati che si accampano a Civitot, dopo aver attraversato il Bosforo favoriti dal Commeno che col fiato turco sul collo vede nei crociati un insperato soccorso, pur nutrendo per essi un fondato timore anche perché nell’ esercito crociato era notevole la presenza di principi con palesi ambizioni al suo trono. Con sistemi analoghi i califfi abbasidi di Bagdad alla metà dello stesso secolo XI erano diventati semplici strumenti del selgiuchide più forte di turno: comanda ed ha ragione sempre chi nel pubblico o privato tiene l’imperium che è la possibilità di imporre con le armi la propria volontà quale che sia. Anche oggi è così. Erano arrivati dall’Europa decine di migliaia tra cavalieri, fanti, donne, vecchi e bambini con un viaggio lungo e tormentoso che li aveva decimati: portavano sul dorso il segno della croce, disegnato con strisce di stoffa dai colori appariscenti, come quelli che oggi usano gli addetti alla manutenzione delle strade o i pompieri. Non andavano a spegnere un incendio, ma ad accenderne uno con dei metodi criminali su tutta la linea del fuoco che pertanto ancora oggi divampa su tutto il fronte, sempre per quasi mille anni alimentati dall’Occidente con violenza ed ipocrisia fino a buttare su di esso non acqua ma petrolio. Il Commeno provvide subito a fornigli aiuto per il passaggio del Bosforo per evitare che si affollassero pericolosamente davanti a Bisanzio, capitale di un impero sempre più accerchiato ed in difficoltà, ma custode dentro le sue poderose mura di un enorme patrimonio in metallo prezioso ed opere d’arte nelle grandi chiese, comprese le biblioteche con i codici miniati. Li fece arrivare al campo trincerato di Civitot, diviso da Nicea dal lago Ascanios, certo nella speranza di farli urtare contro quell’avamposto mussulmano che minacciava esso stesso di attraversare il Bosforo in senso contrario, senza fallire come per due volte i Persiani all’inizio deV secolo a. C nei confronti della Grecia della polis. Una massa di circa 50.000 persone avanzava come le cavallette proveniente dall’Europa: avendo bisogno di cibo ed altro per se ed i cavalli, il saccheggio e le conseguenti stragi di popolazioni inermi anche cristiane era la prassi ordinaria come un popolo invasore, anche se dall’aspetto straccione e trasandato sembravano i profughi di un popolo cacciato dalla sua terra: evento frequente nella storia dell’uomo fino ad oggi.
Il 1096 si concluse male per loro: dopo alterne vicende il giovane sultano esperto dei luoghi ne eliminò la maggior parte intorno a Civitot, facendo prigioniere le donne ed i bambini per il mercato del piacere e degli schiavi. Il sultano non ancora ventenne si illuse di aver risolto il problema e tornò negli altipiani anatolici contro gli usurpatori locali dei territori unificati da suo padre, fiducioso della facilità di affrontare un eventuale ritorno di Franchi.




1097

Un’altra ondata di crociati si riversa dall’Europa verso la Palestina passando da Costantinopoli ed il Bosforo sempre assistiti dal Commeno che comincia chiaramente a rivendicare in cambio alcune terre e città ( Antiochia in particolare) tolte all’impero prima dagli arabi e poi dai turchi, affiancando alla nuova possente armata franca il suo esercito anche per controllarne le imprevedibili mosse contro la stessa capitale agognata per i tesori custoditi più che la terra santa per Cristo. Si riteneva nel mondo arabo-turco che fossero mercenari dell’impero fra i quali non mancavano gli stessi turchi e normanni. Sorpreso il sultano prima stipula una tregua e poi un’alleanza col suo nemico correligionario e turco Danishmand nel nord-est e poi rientra a nord-ovest e trova Nicea stretta d’assedio da franchi e bizantini senza riuscire a liberarla. La città si arrende al basileus il 18-19 giugno 1097, questi la salva dal saccheggio prevedibile dei crociati, e rispettando le clausole della resa si prende cura della moglie del sultano col figlio a fini diplomatici e recupera tutta l’Asia egea con le isole lasciate dai turchi compreso l’entroterra di Smirne. Sembra essere tornati al V secolo a. C. col tira e molla nell’Egeo Ionico tra Greci e Persiani per il possesso della costa e delle isole. Il giovane sultano si dà alla macchia e recluta volontari predicando al pari dei crociati la guerra santa, il Gihad. Il Dio al quale si rivolgono è sempre lo stesso, anche se in arabo si chiama Allah. Misteri della Fede o maetria delle religioni?. Tende un agguato ai franchi che proseguono verso la Palestina sotto un sole torrido e tormentati dalla sete lungo l’antica strada persiana attraverso l’interno montuoso.


DORILEO

Al suo fianco c’è Danishmand, il nemico di ieri che si è reso conto che il pericolo cristiano minaccia tutti i principi turchi. Notare che se l’obiettivo dichiarato dei crociati è l’islam, questi è sempre difeso con capi militari non arabi ormai soggetti ai turchi, ma da questi che li usano in subordine come truppe invertendo i ruoli delle origini prima del mille. Il nuovo alleato portava migliaia di cavalieri arcieri, forza determinante fino ad allora degli eserciti selgiuchidi che fra poco entrerà in crisi. L’imboscata avviene presso Dorileo dove la strada passa in una valle tra le colline dietro le quali si appostano in silenzio gli alleati turchi. Il 1° luglio 1097 all’alba scatta la trappola che sorprende ma non scoraggia i franchi che arrivando a diverse impreviste ondate neutralizzano con la loro armatura pesante, estesa ai cavalli, le frecce degli agili arcieri turchi che avrebbero dovuto essere determinanti. Ad un certo punto i due capi turchi si vedono accerchiati e fuggono abbandonando ricchezze ed i loro fanti che vengono uccisi o venduti schiavi. Fu la disfatta turca che ai crociati apriva la strada verso la Palestina anche se impiegarono cento giorni a percorrere su difficili sentieri di montagna e sotto la calura estiva la distanza fino ad Antiochia, la prima vera città a nord.ovest della Siria sulla strada per Gerusalemme, obiettivo finale e dichiarato da cui cacciare l’islam, arabi e turchi ed anche ebrei. Antiochia era appartenuta al basileus fino al 1084 pur trovandosi in un mare arabo, fu presa allora dai selgiuchidi ed era adesso in grado di resistere anche ad un lungo assedio iniziato verso il 20 ottobre 1097. Il piccolo re sultano della città, Yaghi Sijan fa di tutto per resistre ed è costretto a rivolgersi ai re di Damasco e Aleppo dai quali aveva sempre temuto di essere accoppato. I franchi crociati arrivarono in Siria mentre la lotta per il potere teneva in discordia i vari emiri e re della zona che si eliminavano con ogni mezzo. Fu negato aiuto alla città in quanto ognuno badava ai propri interessi, anzi sperava vantaggi dai guai dell’altro emiro, non importa se cugino o fratello. Inoltre gli arabi turchi commisero l’errore di considerare i crociati mercenari del basileus per riprendersi Antiochia e tardi intesero il vero scopo finale delle crociate che dopo due secoli avrebbero travolto anche Costantinopoli. Ora c’era da sperare che la comprensione del nuovo pericolo li facesse unire come a Dorileo pur dall’esito tragico. Ma non fu così. I franchi della seconda ondata arrivarono in vista del nord ovest della Siria divisa nei sultanati di Damasco ed Aleppo tenuti da due fratelli in lotta senza tregua ed ognuno sperò che fosse eliminato l’altro ed anche fece di tutto col tradimento perché non prevalesse sui crociati acquistando quel prestigio che sarebbe stato fatale per l’altro I vari potenti di Damasco, Aleppo ed anche Mossul nell’alta Mesopotamia si ostacolarono a vicenda ognuno temendo che una vittoria dell’altro contro i franchi sarebbe stata anche la fine del suo feudo spesso acquistato strangolando fratelli e congiunti. In questi raggiri e tradimenti Baldovino si era impossessato di Edessa, città armena alle sorgenti dell’Eufrate da dove minacciava Mossul, dopo aver ucciso i precedenti signori che gli avevano trasmesso il potere.

1098

I turchi divisi ed in odio tra di loro permisero ai franchi di superare le enormi difficoltà materiali in cui vennero a trovarsi sotto Antiochia, permettendo loro di prendere la città il 3 giugno 1098 e massacrare tutti gli abitanti in una generale mattanza come i tonni nella tonnara di Paralia. Poi i franchi da assedianti divennero assediati ed affamati dentro Antiochia ed anche allora i sospetti e le gelosie fra gli emiri permisero loro di superare quel grave momento e non temere più a lungo nel tempo e nello spazio di tutta la Siria un esercito ed un capo con forza e volontà di contrastarli. L’ultima risorsa era il sovrano di Mossul che sbagliando strategia bruciò l’ultima possibilità di liberare la città. Ora partendo da Antiochia per sopravvivere potevano e dovevano razziare le zone e le città circostanti come normali pirati ed assassini per molti anni sfruttando anche le divisioni che a vario titolo c’erano fra i mussulmani, arabi e turchi che fossero. Da notare che spesso nei popoli vinti seguono gli odi civili che aggravano la situazione. Il mondo arabo-turco del medio oriente era storicamente crollato come una vetrata ridotta in schegge pericolose e tale situazione si sarebbe protratta fino all’arrivo di un sultano unificatore delle varie province e suscitatore dell’orgoglio arabo-turco del Gihad, come in quel momento la guerra santa dei franchi supportava le immonde stragi commesse a lungo dilagando in Siria. I crociati riuscirono a sfondare perché arrivarono nella zona dove non c’era una formazione statale musulmana decente, ma tanti sultani ed emiri disposti ad ogni vergognoso compromesso pur di eliminare il vicino considerato pericoloso anche vincendo contro i franchi. Fra poco i capi crociati in vena di diventare principi e re definiranno Alessio I come il vero nemico dell ‘occidente e si arriverà poi alle follie della IV crociata.
L’altra città notevole a sud est di Antiochia era Ma’arra: qui giunse Boemondo e dopo un assedio promise agli abitanti rispetto e salva la vita. Penetrando in città il 12 dicembre 1098 i liberatori del Santo Sepolcro passarono a fil di spada tutti gli abitanti, uomini, donne e bambini. Da fonti contemporanee francesi si passa ai particolari: i franchi divennero cannibali ed infilzavano allo spiedo i bambini magari vivi ed arrostiti li mangiavano. Forse la fame, certamente il fanatismo di una religione tradita ed abbrutita per lunghi secoli. Non sembri strano. Lo stesso faranno per divertimento gli spagnoli in America quattro secoli dopo, e la sede apostolica certamente disapprovando non risulta abbia espresso condanna ed orrore per tale pratica per la quale non dobbiamo scomodare le ultime tribù papue. I crociati erano ormai sfuggiti oltre che al controllo del basileus, anche ai richiami formali del Papa il quale predicando il Gihad-Guerra Santa aveva richiamato un demonio sanguinario a svolgere il suo compito col miraggio di potere e ricchezze come il vitello d’oro.



1099- GERUSALEMME

Ripresero, rifocillati da tale orrendo pasto, la marcia ormai senza ostacoli verso la Città Santa, conquistando o costruendo fortezze che ancora oggi esistono, dopo aver incendiato Ma’arra. I deboli signori locali e le popolazioni traditi da califfi ed emiri incapaci, scelsero la sottomissione che non sempre li salvò dal saccheggio al pari delle grandi città che cercarono di resistere, ed i crociati si avvicinavano dall’interno e cosa più utile lungo le ricche città della costa diretti da Saint-Gilles, da Trpoli ad Acri. Il controllo dalla costa era necessario per i rifornimenti e lo sbarco di sempre nuove forze che dall’Europa arrivavano attratte dalla fama delle ricchezze razziate. Per evitare il difficile percorso dell’Anatolia e le imboscate relative dei sultani alla macchia che svolgevano il ruolo di resistenza, si pensò anche di sbarcare direttamente in Siria via mare. A conoscenza delle stragi di Antiochia e Ma’arra le città resistevano ad oltranza ed i crociati proseguivano lasciandosi alle spalle per ora roccaforti inespugnate contando sulla presa di Gerusalemme che avrebbe avuto un effetto domino devastante per i musulmani ma utile per loro. Fu presa la cittadina di al-Akrad – Alcazar- Castrun- che diverrà una tremenda fortezza ancora oggi intatta. Veniva poi Tripoli e la sua vicina città di Arqa e mettere le mani insanguinate sugli abitanti e sui beni di questi centri fu un tentativo per ora fallito e continuarono verso Sud finchè attraversarono il piccolo Fiume del cane che formalmente segnava il confine con il sultanato fatimida di Egitto nel quale si riconoscevano gli sciiti, mentre i sunniti avevano a quida spirituale il califfo abbasside di Bagdad, anche se ridotto a figura simbolica prima dai persiani e poi dai capi selgiuchidi. Sia il Commeno che il gran Visir d’Egitto al- Afdal videro all’inizio con piacere le incursioni degli irresistibili franchi perché fermavano e scompaginavano l’avanzata degli Ottomani e Selgiuchidi verso Bisanzio lungo l’Anatolia e verso l’ Egitto con la presa ormai avvenuta della Siria compresa Gerusalemme, terza città santa dell’islam dove Maometto per volere di Dio incontrò Gesù e Mosè: essendo lui l’ultimo profeta ad inveramento finale di tutte le rivelazioni della divinità. I due capi si intesero per coordinarsi, ma da ingenui credevano che uomini come Baldovino e Boemondo si sarebbero messi al loro servizio. Quando cadde Antiochia il Visir fatimida d’Egitto giocò d’anticipo e tolse Gerusalemme ai Turchi sunniti che per lui erano nemici almeno quanto i crociati. Si illuse in tal modo di trattare con i franchi lo status giuridico e religioso della città, ma ancora non capiva la determinazione assoluta di quelli che gli erano apparsi possibili soccorritori contro i turchi sunniti visti appunto peggiori dei crociati. I crociati risposero che non avevano bisogno di accordi con lui, avrebbero comunque preso la città con la forza. Tripoli fu saltata per non logorarsi in un lungo assedio e si proseguì verso sud. Beirut accolse con doni ed aiuti i franchi, Sidone cercò di resistere mentre Tiro ed Acri aprirono le porte ed ai primi di giugno del 1099 gli europei erano intorno alle mura di Gerusalemme a propiziare l’imminente carneficina della città con processioni e preghiere intorno alle mura: i funerali celebrati ai vivi, come i corvi volteggiano sulla preda ferita. Poi cominciarono le manovre e gli assalti con le torri e nel luglio 1099 la città fu presa permettendo ai difensori fatimidi di uscire verso Ascalona. Tutti gli abitanti senza distinzione furono massacrati in una orgia nibelungica di sangue: gli arabi nelle moschee distrutte e gli ebrei bruciati nelle sinagoghe ( erano i deicidi in Cristo), i religiosi cristiani orientali torturati per farsi consegnare quella che veniva ritenuta l’originale croce di Cristo e poi espulsi dalle loro sedi. –Missione compiuta – ha blaterato il Goffredo Buglione del terzo millennio dalla tolda di una nave. Obiettivo raggiunto: allora le ricchezze della Siria, oggi il petrolio del Medio oriente ed oltre, allora si cercava la croce con centinaia di migliaia di massacrati, oggi si esporta la libertà dei liberticidi imperiali, è proprio vero che il fine anche immondo giustifica i mezzi e che la storia si ripete perché con qualunque religione gli uomini sono e saranno sempre gli stessi: bestie feroci.

RITORNANO I TRADITORI DEL VANGELIO

Secondo il vangelo con l’apparizione dello Spirito Santo della Pentecoste gli Apostoli, compreso quello che aveva surrogato Giuda, si sparsero per il mondo greco romano di allora per portare e predicare il messaggio soteriologico della Buona Novella ( Eu Angelion), ed andarono incontro al martirio. Dopo oltre mille anni i loro presunti eredi con l’appoggio incondizionato materiale e morale di una Europa che aveva tradito già da tempo il Cristo in tutte le sue istituzioni temporali e spirituali, tornano ad incarnare in quei luoghi tale evoluzione e si presentano tutti col volto di Giuda Iscariota. L’Occidente non vuole comprendere ancora oggi quanto ha pesato e peserà ancora l’avventura criminale delle crociate nei rapporti tra islàm e cristianesimo per quello che in effetti significa per le folle mussulmane sia pure strumentalizzate come le nostre dai capi politici e religiosi che i rispettivi Libri li hanno solo annusati.
Il Visir d’Egitto mosse verso la Palestina impaurito e da fanfarone lasciandosi pure sopraffare ad Ascalona da una incursione vittoriosa dei franchi che ormai guardavano al delta del Nilo. Qualche mese dopo il –Principe dei Credenti- suprema autorità religiosa, in effetti il califfo sunnita abbasside di Bagdad, fu informato di tutto restando indifferente: non poteva fare altro, il potere era nelle mani dei capi turchi che per tutto questo periodo badarono più ad eliminarsi fra di loro che a fronteggiare i crociati, quando questo finirà finiranno in oriente i crociati e le loro conquiste. Per ora l’impero abbasside è da oltre un secolo frantumato fra tanti sovrani feudali turchi e la riscossa sarà possibile solo quando uno di essi eliminandone buona parte, riuscirà a ricostituire una forza soprannazionale.


1100 CONTINUA LA STRAGE


Tripoli è assediata ma resiste ai crociati di Saint-Gilles che per dissidi interni lascia il campo andando a Costantinopoli, Goffredo di Buglione muore nell’assedio di Acri. Boemondo è signore di Antiochia, mentre Baldovino è signore di Edessa. Dall’Europa continuano ad arrivare con i cavalieri armati folle di uomini, donne e bambini come ad un pellegrinaggio di fede. Non è escluso che si pensasse di colonizzare con abitanti europei la fascia da Antiochia a Gaza, per avere una forza locale ed affidabile: I CROCIATI AVEVANO FATTO DA ECISTI. Il sultano cacciato tre anni prima da Nicea è sempre in agguato sui valichi obbligati nel transito dell’Anatolia con Danishmand che ha per capitale Niksar nel nordest dove Boemondo è tenuto prigioniero: entrambi sorvegliano il transito crociato per terra attaccando al momento opportuno ed ebbero modo di rifarsi delle passate umiliazioni. Nel tentativo di liberare dall’assedio la città armena di Malatia Boemondo fu catturato da Danihsmand e portato in catene a Niksar. Baldovino vuole divenire re di Gerusalemme dopo la morte di suo fratello Goffredo, e si avvia verso la città dovendo passare il Nahr al Kalb dove si stringe la strada come alle Termopili in Grecia prima che il mare si ritirasse. Qui si propone di sorprenderlo il re Duqaq di Damasco che era stato umiliato nella sua città da Goffredo e Tancredi nipote di Boemondo, con un esercito di gran lunga superiore. Ma il signore-qadi di Tripoli teme più Damasco che Baldovino al quale rivela l’imboscata facendola fallire e consentendogli di proclamarsi re di Gerusalemme. Il sultano di Damasco pagava così l’analogo comportamento disfattista tenuto contro suo fratello Ridwan agli inizi del 1098 durante l’assedio di Antiochia. Inoltre ogni principe cristiano si alleava anche con quello di fede musulmana e viceversa pur di conservare o ingrandire il potere, ormai sul campo troviamo contrapposti eserciti misti di cristiani e musulmani che rispondono alla logica di personali interessi feudali, come avveniva in quegli anni in Europa.

MERZIFUN


Saint-Gilles sembrava scomparso, Goffredo era morto, Boemondo prigioniero: sembrava il momento della riscossa, i franchi erano pochi e per resistere però ricorsero alle fortezze difficili da espugnare per i disordinati musulmani. I capi turchi non seppero sfruttare il momento per la diffidenza reciproca. A Boemondo prigioniero successe in Antiochia Tancredi che addirittura rese quasi vassallo il re di Aleppo Ridwan. All’inizio dell’anno un’altra ondata di crociati valutati in centomila si riversa in Asia ed il giovane sultano che li spiava per attaccarli, dopo averli persi di vista li vide assalire e prendere la sua città di Ankara come già Nicea, poi dirigersi verso Niksar, per liberare Boemondo! Col suo alleato li sorpresero stanchi ed affamati a Merzifun nel nord, non lontano dal mar Nero e ne fecero carneficina oltre che migliaia di prigioniere donne per il mercato delle schiave, mentre il comandante Saint-Gilles fuggiva con i cavalieri che avrebbero dovuto difendere questo viaggio di emigrazione verso il Far- Oest. Subito fu massacrata una terza colonna di crociati che seguiva verso la strada del sud, una terza che fu attaccata ad Eraclea annientata mentre cercava di dissetarsi. Qiliq non vedrà mai più la sua Nicea, ma sarà morto soddisfatto…….La vigliaccheria dei padroni di Aleppo, Damasco, Mossul e l’indecisione di Qiliq permisero ai crociati di superare il grave momento che fece cambiare strategia ai crociati: non più dall’Europa folle inutili alla guerra ma fanti e cavalieri specializzati per resistere a tempo indefinito in superfortezze anche per il loro potere intimidatorio per arabi e turchi che al pari dei primi stavano perdendo la primitiva forza d’urto. Infatti Saint- Gilles con trecento cavalieri sconfisse il re di Damasco all’inizio di aprile del 1102 dando inizio all’assedio di Tripoli che conquistata diverrà il quarto stato dei crociati, mentre gli egiziani sprecavano pure loro le occasioni fortunate per mancanza di coraggio o temerarietà che non mancva ai crociati per i quali perdere significava essere eliminati. Nel 1104 Boemondo e Tanccredi di Antiochia e Baldovino II di Edessa provano a sfondare verso Mossul puntando sulla imponente fortezza di Harran che controllava la strada tra la Siria e l’Iraq lungo l’Eufrate. Gli emiri locali misero da parte le loro lotte in corso ed inflissero ai franchi la grave sconfitta di Harran che demoralizzò per sempre Boemondo che allora appunto rientrò per sempere in Italia lasciando Antiochia al nipote Tancredi.


DONNE E CAVALIERI


Per chiarire quale fosse la qualità morale dei capi si ricorda che nella battaglia di Harran Baldovino II di Edessa rimase prigioniero del signore pro tempore di Mossul che voleva scambiarlo con una bellissima giovane già sua ed ora in mano a Boemondo e Tancredi. Ma questi restituirono la fanciulla ottenendo quindicimila dinar in oro lasciando Baldovino II prigioniero, col miraggio di prendersi così anche Emessa. Anche questo è un mistero della cavalleria.
In seguito Baldovino passerà nelle mani di un altro signore di Mossul dal quale con lungimiranza fu reso libero. Si scontrò con Tancredi che gli aveva preferto il denaro, si riprese Edessa dove punì ferocemente quelli anche armeni che lo avevano esautorato e divenne amico diplomatico dei mussulmani. Tali eventi fecero si che divenisse normale l’alleanza anche militare tra musulmani e franchi contro altre alleanze identiche: la guerra santa reciproca era divenuta guerra feudale perché per il potere religione e cultura sono solo sottigliezze di illusi. Quando Barbarossa condusse la sua armata navale a Tolone auspice Francesco I, si parlò di empia alleanza.




Si notano adesso le figure di Tancredi suo nipote e Baldovino di Edessa succeduto a quello che si era insediato re a Gerusalemme. Essendo normale che alcuni capi franchi si alleassero con alcuni capi turchi contro analoghe alleanze e si dessero vera battaglia come se fossero schierati in nome della fede, ogni schieramento invocava in uno Dio ed Allah: altro che gihad o guerra santa, contava e conta solo il potere personale. Tanccredi, che si faceva chiamare –Grande Emiro- divenne temuto conte di Antiochia anche da Aleppo, mentre Damasco ormai impotente accettava i comandi dei re di Gerusalemme. .Per la ricca città di Tripoli il suo signore si prodigò fino a Bagdad dal Califfo abbasside senza risultato: qui non solo il califfo non contava niente al di fuori del suo harem, ma neanche il sultano dal quale in teoria dipendevano tutti gli altri emiri e sultani locali almeno nell’ambito sunnita. Il Visir d’Egitto al-Fadal con la scusa di soccorrere la città mandò una flotta per derubarla mentre il suo qadi si trovava prostrato a Bagdad per chiedere aiuto contro i franchi.
Si completava l’occupazione con la caduta di Tripoli il 12 luglio 1109 dopo sei anni d’assedio e l’indifferenza di turchi ed arabi e le repubbliche marinare italiane che si scontravano nell’estorcere ai franchi, bisognosi delle loro navi, concessioni e privilegi. Ormai tutto sfuggiva al basilueus ed al papa.La città subì la fine delle precedenti: la biblioteca di centomila volumi fu bruciata perchè islamica, gli abitanti venduti schiavi ed espulsi, un bottino immenso diviso tra i vari capi che nell’imminenza della caduta si erano recati come avvoltoi o iene sopra la vittima morente. Il 13 maggio 1110 fu presa Beirut con il massacro indiscriminato di tutti gli abitanti perché avevano osato con coraggio e disperazione resistere. Divenne di moda in Europa che i principi si recassero in pellegrinaggio con truppe per fare anche la guerra agli infedeli: Nello stesso anno arrivò un re nordico che alleatosi a Baldovino re di Gerusalemme, presero Sidone che si arrese per non fare la fine di Beirut. L’impressione che Tiro, Aleppo, Damasco e persino Bagdad erano nei desideri dei crociati era fondata. Era il nord dell’Iraq contro in nord della Siria. Da questo momento comincia un risveglio degli arabi e turchi che parte da Aleppo, ma i tempi saranno lunghi.Il Commeno constatando la situazione che gli negava le sue antiche terre, si rivolse formalmente con gli aleppini al califfo e sultano di Bagdad per uno sforzo comune inteso ad espellere i franchi ciascuno dai propri territori. In questo ambiente equivoco operò per decenni la setta degli Assassini di origine araba, al servizio dei franchi ed intesa ad eliminare qualunque arabo con decisione organizzava la riscossa musulmana. I suoi complici e mandanti erano i sultani periferici che preferivano compromessi disonorevoli con i franchi per evitare che un grande sultanato centrale li eliminasse o anche soltanto li rendesse effettivamente sudditi.


IL PONTEFICE A GERUSALEMME

Quando Giovanni Paolo II si recò a Gerusalemme prosternandosi chiese perdono agli Arabi ed alla città, tardi anche se meglio che mai, dopo nove secoli durante i quali nel Mediterraneo era accaduto di tutto con ribaltamento della situazione: la piaga secolare della reciproca pirateria e guerra di corsa, l’espansione ad una sponda nord dell’Islam con la Turchia ed la sua penetrazione in Europa lungo il Danubio a suon di stragi, l’occupazione coloniale europea dal Marocco all’Indo sfaldandosi l’impero turco, con l’ostinazione nostra a rimanervi che costò a quei popoli milioni di morti, tutto seguito dal neocolonialismo tuttora in atto. La illuminista e cattolica Francia ammazzò due milioni di Algerini prima di uscire sconfitta dalla lotta di quel popolo per l’indipendenza. In base a quali valori o radici?

LA RAZZIA IN AFRICA

Quando milioni di negri, ragazzi e ragazze, venivano razziati in Africa ed in catene spregiandoli in ogni modo avviati al mercato degli schiavi da cristiani e musulmani, i rappresentanti in terra di Cristo ed Allah dov’erano? Che senso ha che un Pontefice, consumato l’olocausto della tratta dei negri, vada a chiedere perdono all’Africa dopo secoli su quell’isola da quella tragica apertura per l’imbarco? Tutti sapevano anche in Europa già cristiana e ne godevano i vantaggi armando le navi per la cattura ed il trasporto. Se ne discuteva: non sulla liceità di tale commercio ritenuto normale, ma come era meglio stiparli tecnicamente sulle navi negriere, non per farli soffrire di meno, ma per economia del trasporto e subire minori perdite da buttare in mare ai pescecani certamente migliori degli armatori europei e musulmani, buoni padri di famiglia secondo la sempre falsa morale di chi vive da vampiro, e certamente frequentatori con la stessa della chiesa o moschea del loro paese. E negli USA dei celebrati Padri Pellegrini in cerca di libertà, che cosa accadeva? Si poteva andare ad ascoltar messa con la famiglia in calesse nel primo mattino e poi passando dalle capanne degli schiavi allevati con selezione negli incroci come le pecore, sottrarre ad essi i figli appena giovinetti e portarli al mercato per i coltivatori di cotone e la loro libidine ed irridendo le madri disperate che vedevano rapinare i loro figli, ed il tutto raccontare, come è documentato, per diletto nella corrispondenza agli amici. Nello stesso periodo e con stesso metodo i Turchi razziavano i bambini destinati a diventare giannizzeri ed anche accorrevano al richiamo del muezzin. Non si risponda –quelli erano i tempi-. Nel vangelo e corano erano scritte le stesse cose in tal senso? O se ne può dare ogni giorno o secolo una interpretazione di comodo, ipocriti?



LA SCUOLA

Nella scuola europea poco o niente si insegna di tali fatti, si dice che l’Europa allargava la sua civiltà, portava la parola di Cristo e portava beneficio ai popoli soggetti con scuole, ospedali e strade: ancora c’è chi in Italia da ignorante o in malafede, insegna che i Somali, i Libici e gli Etiopi ci dovrebbero essere grati, ma non parla delle crudeltà che abbiamo commesso per razzismo e barbarie e crudele spacconaggine, come ogni potenza occupante in ogni tempo e luogo con stragi e deportazioni di cui i Romani erano professionisti, anche con gli imperatori saggi o filosofi del II° secolo.


SCUOLA ARABA


Nelle scuole arabe difficilmente si parlerà di Otranto, ma si darà risalto all’espansione dell’Islam come vera fede sotto la protezione di Allah e quelli caduti per la guerra santa = jihad saranno eroi e martiri risorti nelle delizie di fiori e vergini fanciulle = spose purissime – huri- che li accolgono nel giardino = paradiso terrestre islamico percorso da freschi ruscelli ed ombrosi per gli alberi che offrono tutti i frutti. Il giardino è l’oasi del deserto arabo che offre di colpo tutto ciò che manca nella traversata del deserto infuocato ed esprime l’idea del premio a chi è timoroso di Allah. Per le huri l’intepretazione è variegata tra gli studiosi e teologi islamici anche se l’Occidente ha divulgato quella materiale e sensuale per screditare il Profeta. Molti non tengono presente che il Profeta degli Arabi non negò quello dei Cristiani. Anche se nell’anno II dell’era islamica (624 d.C.) ci fu il cambiamento della Qibla, orientamento nella preghiera rituale da Gerusalemme a Mecca, Maometto dice che la sua è l’ultima rivelazione in ordine di tempo con cui Allah-Dio si rivolge all’uomo per meglio precisare le precedenti a cominciare da Noè, Abramo- nella seconda sura definito – imam per gli uomini-, passando per Mosè, l’unico a cui Dio parla direttamente sul monte Sinai fino allo stesso Muhammad che riceve la rivelazione tramite l’Arcangelo Gabriele sul monte Hira nel 610 dell’era cristiana, a sigillo ed inveramento di tutte le precedenti. Non si esclude esplicitamente che ne possano seguire altre prima del giudizio universale, come sostiene l’escatologia cristiana.


IL CORANO E LA TRINITA’


Il corano rimprovera gli Ebrei per il trattamento riservato a Cristo messaggero di Dio perché non conforme ai loro interessi, ammonisce i Cristiani sulla vera natura umana e profetica del figlio di Maria negando la Trinità , ( Non dite – Tre-, sura IV dove rivolge gravi rimproveri agli Ebrei per le calunnie a Cristo e sua Madre). Ma egli predica la rivelazione ricevuta dal 613 al 632 d. C. ed accusa gli –imam- o casta sacerdotale ebraica e cristiana di ipocrisia: solo predica del messaggio di Dio senza pratica nella vita di fronte agli uomini tutti egualmente suoi figli. Se un altro Profeta apparisse oggi non avrebbe difficoltà ad estendere tale accusa alle gerarchie religiose politiche dei musulmani. Così il popolo ebraico aspetta il Messia non riconoscendo tale Cristo, per il cristiano Gesù è il Messia promesso da Dio per la redenzione dell’umanità, per i musulmani Muhammad è l’ultimo Profeta a ricevere la rivelazione sul monte Hira. La storia non si ferma sotto nessuno aspetto: e se comparisse un altro Messia con l’aiuto dei media dicendo di essere l’ultima voce di Dio? Qualcuno ha tentato.


TRE RELIGIONI


Su questa base per secoli le tre religioni con lo stesso identico Dio-Allah- Javè, si sono rivolte furenti accuse come espediente di guerre di conquista con gli Ebrei vittime della diaspora e sparsi e perseguitati dall’Europa cristiana solo perché tali ed indifesi per il piccolo numero. Le attuali dichiarazioni di amore e rispetto di ogni religione che esternano alcuni anche di alto rango, non debbono trarre in inganno: per secoli nella preghiera del venerdì santo si invocava Dio contro – i perfidi Ebrei.- L’Europa politica e religiosa non deve dimenticare ma avere il coraggio di ammettere che l’olocausto degli Ebrei, fu si praticato in Germania come momento-soluzione finale, ma viene da lontano e còrrei in diversa misura è stata l’evoluzione del razzismo religioso e civile dagli Urali all’Atlantico, senza che questo alleggerisca la criminale follia del nazifascismo che non ha analogie ed è rimasto di fatto impunito.

I LIBRI CRISTIANI

Le condizioni politiche ed ambientali portarono ad un diverso espandersi del Vangelo e del Corano. Il Cristianesimo trovò ostacolo e persecuzione nella mentalità giuridica formale di Roma in un momento in cui gli imperatori della casa Giulia consumavano la loro tragicomica esistenza dopo il primo Augusto e come questi erano i pontefici massimi
( papi) della religione ufficiale che poi fu detta pagana, fino a quando fu ammesso in teoria alla pari di tutte le religioni all’inizio del IV° secolo. Ma dopo Costantino, che fu battezzato solo all’ultimo minuto e da un ariano ed in effetti non fu mai cristiano, i Cristiani ebbero una rapida ascesa e provocarono la messa al bando anche forzata delle altre religioni premendo sul potere politico mentre le varie eresie, più gravi la monofisita e la monotelita che cercò di dribblare il problema, aprivano al suo interno una lotta anche cruenta essendo sempre la disputa teologica un mezzo per il potere a Bisanzio o la stessa se ne serviva per un Patriarca che si sgancerà dal Papa di Roma.
Ogni religione conosce varianti dalla forma originaria, o meglio non tutti i seguaci leggono alla stessa maniera il messaggio del suo fondatore. Situazione che si aggrava e degenera regolarmente in guerra di religione che copre con altri fattori quella per il potere. I cristiani furono dilaniati dalle eresie già nei primissimi secoli della loro era quando ancora mancava non solo un’ interpretazione univoca della Bibbia ( vecchio e nuovo testamento), ma anche un accordo sulla sua formazione e per il nuovo testamento: quali fonti dovessero farne parte in quanto autentici e quali no perché apocrifi, ed essi stessi vivevano nella clandestinità. Questione irrisolta ed irrisolvibile quando poi il solo discuterne poteva portare direttamente al rogo. Oggi che la Chiesa ha fatto di necessità virtù, ed ha certo tutto il diritto a controbattere sul piano strettamente storico con chi la contraddice, ma sul piano della interpretazione e codificazione dottrinale può rivolgersi solo ai soli cristiani cattolici, senza pretesa di richiamare chi non crede, chi credente in Cristo interpereta diversamente, tanto meno i credenti in altra religione che possono anche offendersi come se credessero negli idola. Ma il suo richiamo, indipendemente da tutto, può avere una valenza universale se i suoi fedeli di ogni ordine e grado la finiscono di professare in grandissima parte il vangelo solo con le labbra. Idem per l’Islam.
Seri studi di ricercatori senza pregiudizi, avvalendosi delle varie discipline attinenti l’ermeneutica, mettono in dubbio l’originalità dei vangeli, la vera figura di Cristo, il suo vero scopo in rapporto all’occupazione romana, e la stretta relazione con i miti e le figure di credenze e religioni precedenti che vanno fino all’Indo. Si ha l’impressione che a volte sfiora la certezza che il Libro di ogni Messia sia l’aggiornamento alla storia presente di quelli che lo hanno preceduto.

L’ERESIA ARIANA



Nell’ambito di tali problemi, guardando le cose dal punto di vista della cattedra di Pietro che si arròga il diritto dell’ultima parola, l’eresia più grave fu quella ariana che verteva intorno alla vera natura di Cristo, anche per le conseguenze che ebbe per i popoli che da ariani invaseo l’occidente. Ebbe diverse varianti e pur condannata nel 325 a Nicea sopravvisse e si diffuse nel tempo e nello spazio non ostacolata da Costantino il Grande che in quel concilio tenne posizione equivoca e militare. L’eresia fu favorita dai suoi figli durante la lotta per il potere. Per Ario Cristo era la prima in assoluto creatura generata dal Padre ma non esistente prima di tale atto anche se fu il primo di Dio Padre che così precede nel tempo il Figlio non esistente prima di essere generato ma per creazione, assunto pericoloso per le conseguenze deducibili, in rapporto alla Trinità: poteva non essere divino, secondo a Dio saltava il mistero della Trinità, non ad esso coeterno, quasi uomo, così svaniva la portata del suo sacrificio ( che è ad un tempo dello stesso Dio suo Padre) per la redenzione dell’uomo. Chiaramente si negavano gli attributi ristabiliti dal Concilio di Nicea in Bitinia, Coeternità e Consustanzialità: nel ventre di Maria si è incarnata la essenza-sostanza stessa ed identica ( ipsaque eadem) del Padre che si chiama ed è il Figlio quale seconda persona della Trinità (Consustanzialità), che condivide con Esso ed in Esso la continuità senza scissione di tempo e nell’ assoluto che è l’eternità ( Coeternità). Se possibile e non errata un’analogia( e chiedo perdono ai fedeli cristiani per la materialità): da un tronco plurisecolare (eterno) di ulivo spunta un pollone che si sviluppa quanto il primo e con esso coesiste traendo vita dalle stesse radici perché in esso tronco viveva coesistente allo stesso senza inizio nel tempo, ( coeterno) e con le identiche qualità (consustanzialità ). Non nato da un nocciolo di oliva caduto nel terreno pur fertile e benedetto nel ( Immacolata concezione ) ventre di Maria Annunziata e germogliato nel tempo ( creatura generata), ma dal tronco stesso che da sempre lo aveva contenuto ( consustanzialità ) attraverso l’Incarnazione che lo rese uomo e Dio insieme per essere sacrificato quale – prezzo del perdono-. Questo è il cardine primo ed indispensabile della soteriologìa cristiana, in quanto nel Dio unico ed immutabile di cristiani, islamici ed ebrei non sono concepibili perfettibilità nel tempo essendo lo stesso fuori di tale categoria. Non si può dire che Dio diventa migliore e più Dio, sarebbe come dire che prima non lo era ed ancora non lo è; Dio non ha alcun ostacolo (Onnipotente) e niente è fuori dal suo intelletto (Onnisciente), il pur minimo dubbio su tali assunti significa negarlo e cadere nell’ateismo o quanto meno nel manicheismo. Ben lo sapeva Sant’Agostino quando nel suo sforzo intellettuale di salvare predestinazione e libero arbitrio ( che io ritengo inconciliabili) sfiorò da coraggioso nel pensiero posizioni che al tempo di Torquemada lo avrebbero portato diritto sul rogo a scaldarsi anche nella calura estiva. Ma a coloro che adombravano difficoltà pur indirette per Dio come davanti al Male di Satana, nell’opera salvifica dell’uomo ancora dopo il suo sacrificio in Cristo fattosi uomo, rispondeva qui iis autem contraria dicunt, ipsi impotentem introducunt Dominum. quasi non potuerit perficere quod voluerit: chi afferma il contrario ( poter Dio incontrare ostacolo), proprio essi prefigurano un Dio menomato, come se non potesse portare ad effetto ciò che ha stabilito.) Quando i recenti pontefici marcano l’accento su Satana e la perfidia del Maligno non tengono conto quanti ordinari credenti cadono in buona fede in tale eresia e per liberarsi da questo ultimo affollano gli studi dei maghi che sono frequentati più che le chiese e si alimenta la stregoneria suffragata dagli assurdi spazi che hanno in televisione questi …..falsi ciarlatani dell’oroscopo, parlano a dei creduloni di tutte le categorie soggiogandoli come ex cathedra e non si vede che sono una fabbrica di paganesimo. Ed hanno spazio con fior di quattrini a spese di tutti e nei programmi popolari si fanno parlare come se discutessero di cose decisive per la vita di ognuno, cacciate dalle nostre case questi impostori ciarlatani dello Zodiaco.
Forse la Chiesa dovrebbe tener conto più della Patristica che della Scolastica che ha plasmato la orrenda controriforma cattolica dopo Lutero, con tutta la stima alla ricerca di Bonaventura e del bue muto Tommaso d’Aquino.


I D’AQUINO

A proposito dell’Aquinate nelle preghiere serali che un tempo si recitavano prima di dormire, la famiglia d’Aquino di Tropea nello sgranare l’elenco dei Santi quando lo stesso a lode del Signore veniva ricordato, anziché - Amen- ( certamente-va bene)- si chiosava- Parente Nostro-. In quel 27 marzo 1928 vedremo che il nostro occasionale ospite adirà per distrazione il Circolo Galluppi ed il bidello lo inviterà ad acculturarsi al libro delle quaranta pagine che formò molte generazioni di erculei ed epigoni. Il caso gli darà l’occasione di assistere al passaggio della processione della Madonna da Rumanea preceduta da Santa Domenica di Tropea con i lupi ai suoi piedi. Si fermava il sacro corteo in piazza Ercole ed il pilota da quel balcone fatale, dal quale Felice Cribellati magna cum pompa, votò la Nostra Cattolica Città Caput Mundi (di Santi, Eroi, Scrittori, Poeti, Scienziati, Generali, Ammiragli, nobili che si fottevano le aree pubbliche, Canonici che tali diventavano dopo aver bighellonato fino ai 50 anni almeno in attesa che lo zio o forse padre morendo gli lasciasse il posto in Capitolo tra quelli che hanno voce e prebenda, e per l’attribuzione di quella più pingua si scannavano nel coro durante l’Elevazione e nobili che sguainavano la spada per contendersi in pubblico il porto del baldacchino che non erano degni di sfiorare, e traditori che rifornivano durante la prima guerra mondiale i sottomarini austriaci e Vizzoche e Vizzochi ), al Sacro Cuore di Gesù, da quel balcone appunto mentre la banda in crescendo accompagnava e rinforzava le invocazioni al Patreterno perché fossero meglio esaudite, assistè all’energico e risoluto intervento del Capoguardia Alfredo Vallone, che in alta uniforme come le altre autorità militari seguiva la processione,in difesa della morale e della fede: l’arresto in flagrante per atti osceni in luogo pubblico su minorenne di Pietro Russo ( u Capitanu ), con l’aggravante di essere quasi in chiesa essendo la processione in preghiera un solenne atto sacro. Il poveretto seguiva il quadro della Romania con la fidanzata e relativa indispensabile mamma ed esaltato dai canti, dalla musica e dai botti, non si trattenne dall’appena sfiorare con un tenue bacio alle tempie la sua ufficiale fidanzata sulla guancia per trasporto di sincero affetto, ispirato dalla Madonna, come mi disse quando andai a trovarlo poco prima che morisse, nella quale occasione mi permise una foto e gli dissi che l’avrei pubblicata. Mi confermò il tutto: la faccenda gli costò 33 giorni di carcere, per tanto mai avrebbe votato per il figlio. Il tutto per dire che nella sua visita al –Galluppi- il pilota si renderà conto che l’invocazione della santa parentela non salverà i d’Aquino dallo spappolamento della loro proprietà e dal ridursi come le altre famiglie a scribacchini, e fu pure inutile l’attiva partecipazione da comandante alla repressione nell’Esercito della Santa Fede che andava ad impiccare
( parola di moda) l’intelligenza napoletana. Essi per ozio e poltroneria come tutte le altre famiglie persero le proprietà che avevano acquisito con i matrimoni; i d’Aquino cadetti vennero a Tropea da Castiglione loro feudo per sposare le ultime eredi di famiglie estinte ed infatti un tempo si diceva d’Aquino già Guarneri, proprio a significare che dai beni di quella famiglia estinta nel ramo maschile veniva loro lustro e possanza, e non per merito proprio. Questo in seguito.


TRE MESSIA


Tornando all’assunto principale, gli Ebrei aspettando ancora il Messia ed i Mussulmani, avendo Maometto profeta solo come uomo, non ebbero di questi problemi, ma altri egualmente tragici.
La disputa non finì qui ed il cristianesimo, anche per la divisione e la lotta cruenta tra i figli di Costantino Dominus del Concilio, si diffuse in forma ariana tra i goti barbari a nord est dell’impero. Quando questi già dalla fine del quarto secolo invasero l’Occidente arrivarono da ariani e fu ancora più difficile la loro convivenza ed integrazione col mondo latino e cattolico ortodosso secondo Roma. Basti pensare alla diversa sorte dei goti di Teodorico o dei Longobardi di Desiderio ed Adelchi se confrontata con quella dei Franchi prima dei Merovingi e poi dei Carolingi. La storia dei concili fino al mille è eloquente: il credo Niceo-Calcedonico fu in Oriente sgretolato e le lotte anche cruente per i dogmi fecero un mix di sangue con quelle per il trono o la separazione delle province fino alla minaccia araba. Finchè l’Occidente avvierà con equivoci intenti le stragi delle crociate, e quella contro gli Albigesi la più abominevole, col lontano riverbero del massacro di Guardia Piemontese in Calabria. Poi all’interno della cattolicità lo scontro si spostò sulla teoria della salvazione per fede o per opere e si arrivò allo scontro che ci fu in Europa tra cattolici e luterani nel Cinquecento prima e dopo Lepanto. Non mancavano le forze per fermare gli infedeli, ma era più importante difendere qui il potere religioso e politico.
FALLIMENTO FINALE DI CARLO V


Carlo V aveva piegato in Europa tutti gli eserciti con la sua fanteria, la sua sconfitta militare fu Algeri dove c’era in gioco la religione di Maometto, la sua sconfitta politica fu la pace di Augusta in Germania dove fu ammessa la tolleranza del protestantesimo. Con la clausola che i sudditi erano obbligati a seguire la versione religiosa scelta dal principe che poteva essere in contraddizione con la quasi totalità di quelli ( cuius regio, eius religio) Soltanto ai tempi delle persecuzioni romane contro i cristiani troviamo simili aberrazioni in materia di libertà religiosa.


LE TAPPE DELL’ISLAM

Se il tempo ha una valenza, si ricorda che nel XV° secolo della sua vita parte dell’Islam intende ancora praticare la teocrazia religiosa degli ayatollah-CALIFFI con assurde ricadute sulla società civile. Si tengano presenti le pretese identiche della Chiesa di Roma per ben lunghi secoli e la lotta a tal fine tra Papato ed Impero e la storia d’Italia segnata profondamente dalla opposizione del Papa a chiunque la volesse unificare salendo dal Sud o scendendo dal Nord per non perdere il suo potere temporale.
Appena nato l’Islam ebbe un'espansione rapida per la praticità del suo messaggio e perché appunto cavalcò sulla tendenza in atto degli Arabi a migrare ed alla stessa diede unità e movente religioso di accelerazione. Possiamo dire che avanzò come un purosangue arabo: veloce e resistente. Il monofisismo con la negazione alternata di una delle nature di Cristo e diffuso lungo l’Africa dal Mar Rosso al Marocco, favorì la conversione addirittura di alcuni monaci cristiani e lo fece accetto ad un popolo che così si liberava dal fiscalismo dei corrotti funzionari di Bisanzio, sconfitta prima ancora che dagli eserciti della jihad, dal suo malgoverno e dall’uso spregiudicato delle eresie per sopravvivere. Non si deve credere che Leone III Isaurico fosse un folle e matto nella sua lotta contro le sacre immagini: senza giudicare qui sul piano liturgico la questione, è sicuro che l’imperatore dovette difendersi dall’uso degenerato che di esse facevano numerosi frati sottraendo all’impero consensi e denaro, a questo si aggiunge che dopo un secolo dall’Egira l’Islàm era alle porte della Cappadocia fermato per ora soltanto dalla catena del Tauro e mieteva consensi proprio negando la raffigurazione della Divinità e dei santi.
Solo che l’Islam non ostacolato da un forte potere preesistente si espanse subito ed altrettanto subito sorsero al suo interno le guerre fratricide perché per le varie tribù esprimere il Califfo erede del Profeta, significava, di fatto, avere il potere e la ricchezza conseguente per tutto il clan: Nihil novi sub luce solis, la lotta armata a Roma per il Papato era contemporanea e si protrasse per secoli con i clan parentali che si inseguivano per la città a spada insanguinata. La lotta tra i pretendenti califfi permise a Costantinopoli di fronteggiarli a lungo e con relativo successo anche per secoli dopo l’arrivo dei Turchi che pur essi si massacrarono tra loro per cinque secoli prima che da Iconio e Smedirne il sultano si trasferisse a Costantinopoli. .
Quanto detto fino adesso basta a dimostrare che non si tratta di scontro fra le varie religioni ma tra gli interessi che dalle stesse si fanno trascinare. Se anche su tutta la terra ci fosse una sola religione al suo interno sorgerebbero le eresie con i conseguenti scontri anche armati come la storia interna di Islàm e Cristianesimo dimostra perché ci sarà sempre chi cercherà di prevalere. Lo stesso vale se ci fosse sulla terra la monarchia universale.


IL MARTIRIO


Nacquero due concetti di martirio forse insiti nelle due rivelazioni, ma esaltati dal rispettivo contesto storico ed ambientale. Per i cristiani indifesI ed in catene di fronte alla potenza poliziesca e militare di Roma che vedeva in essi degli esseri strani e pericolosi, fu un martirio passivo affrontato con assoluta fede nella resurrezione insieme a Cristo che ne aveva dato l’ esempio assoluto anche in quanto Dio incarnato: - il sangue dei Cristiani è seme- proclamava Tertulliano in Africa dopo la denuncia dei processi irregolari all’inizio dell’Apologeticum: Si non licet vobis, Romani Imperii Antistites, aperte ed palam…

Per il mussulmano che si lanciava in battaglia c’era la certezza della resurrezione in paradiso come martire per Allah. La jiahd non significa letteralmente guerra santa, ma uno dei mezzi per adoperarsi alla diffusione e difesa della fede. C’è una differenza tra i pagani di Roma ed i seguaci di Cristo e poi di Maometto: la religione romana era l’adempimento pubblico e formale di certi riti per tenere buoni gli dei anche dei popoli soggetti senza coinvolgere la vita dell’uomo ed il pantheon per questo serviva, tale visione fu comunque messa in crisi dagli Stoici. Le religioni rivelate, pur avendo una liturgia visibile anche se diversa, vogliono cambiare l’animo e la vita dell’uomo di fronte al proprio simile penetrando all’interno del credente.




GUANTANAMO

Ogni impero ha avuto la sua Guantanamo per annientare l’anima ed il corpo dei nemici ritenuti pericolosi alla sua potenza complessiva identificata con la civiltà ed il vangelo o corano del momento. Nelle scuole italiane si tace o addirittura si ignora quanti prigionieri libici e musulmani i cantori della quarta sponda deportarono alle isole Tremiti lasciandoli morire orrendamente di fame, torture e malattie, perché un popolo che nasce ha dei diritti su un popolo che muore. Le scuole libiche lo ricordano ai loro alunni. Restando fra noi Italiani, dopo la disfatta delle truppe borboniche tanti passarono nella file del Regio Esercito giurando fedeltà ai nuovi arrivati, mentre numerosi soldati analfabeti e di umile origine si rifiutarono, affermando che il giuramento di fedeltà già fatto ai Borboni impediva loro, uomini e soldati di onore, di ripeterlo ad un’altra dinastia o Stato: Uno Dio, Uno Re. Semplicemente furono catturati ed in catene trasferiti in Piemonte come dopo i Libici alle Tremiti. Episodio degno di ricerca se ce ne sarà il tempo.

LA QUARTA CROCIATA

Tornando ai primi crociati costituirono i regni latini di Gerusalemme e Tripoli, iniziarono gli scontri con l’impero greco che espressamente aveva chiesto la restituzione di tali province già sue. Anzi il Normanno Boemondo lasciò la Palestina e tornò in Italia per prendere da occidente l’impero, impresa fallita a suo padre Guiscardo morto proprio nell’Egeo nel 1085. Anche il figlio fallì fermato nel 1108 dall’imperatore Alessio che gli impose un duro trattato e così fu chiaro qual era lo scopo della crociata che per tali discordie non approfittò quanto poteva della paralisi musulmana.
Le Crociate in Oriente ebbero sempre tale scopo.
Il secolo XII° trascorse vedendo il fallimento della seconda e terza guerra crociata ed i maneggi di Venezia , Pisa e Genova che forti delle loro flotte le usavano per combattersi sui mari e per il trasporto delle truppe delle varie crociate chiedendo sempre maggiori concessioni e privilegi commerciali. Così l’Impero già per terra circondato dai Turchi, perdeva il controllo della propria economia favorendo a lungo andare il colpo finale degli stessi con spavento di tutto l’Occidente. Da qui vi erano stati vari tentativi di conquista dell’Impero perché lo vedevano debole e l’impresa non era impossibile, anche se si teneva conto che chiunque si sarebbe trovato di fronte ai Turchi. Prima e dopo la quarta crociata ci provarono fallendo Roberto il Guiscardo, suo figlio Boemondo principe di Taranto, ed il regno normanno vagheggiò sempre tale impresa. La seconda crociata segue la caduta della contea latina di Odessa in mai turche, fu un incubo per Bisanzio che si alleò col sultano anatolico di Iconio minacciato da quello di Mossul, ed insieme di fatto la fecero fallire. Allora in Europa si propose una crociata direttamente contro l’impero greco per prendere Costantinopoli, il cui basileus era –cristiano solo di nome-, verità pura e semplice ma estensibile a tutti i sovrani europei e non solo, per lunghissimi secoli. La terza crociata intrapresa dal Barbarossa, costretto dal Papa, aveva come vero obiettivo la capitale, ma fu un fallimento anche per la morte dello stesso imperatore tedesco che prima si era scontrato con il collega bizantino. Enrico VI figlio di Barbarossa e marito di Costanza erede della Sicilia, aspirava ad un impero universale e fece proprie le ambizioni paterne e normanne su Bisanzio, dopo aver eliminato l’aspirante normanno di ramo maschile al trono. La sua morte nel 1197, forse per mano della moglie Costanza, salvò per poco la città. Restava il figlio che sarà Federico II, per ora affidato all’educazione del papa..


SALADINO

Intanto si fa avanti la grande figura di Saladino che pone fine, 1171, al califfato fatimida, mentre la Siria era nelle mani di Norandino e con la morte di questi nel 1174 lo stesso Saladino diventa unico sultano da Aleppo al Cairo compresa Damasco. La frantumazione e discordia tra i turchi non esiste più: nel 1187 avviene la riconquista di Gerusalemme che consacrerà la gloria di Saladino, personaggio grande ed umile allo stesso tempo, vissuto senza sfarzo, da vero cavaliere senza macchia, morto in povertà. L’occidente in quel momento non aveva niente da contrapporgli da nessun punto di vista.


LO SCEMPIO DI COSTANTINOPOLI


I vari crociati latini sempre fingevano la difesa dei luoghi santi ma i loro occhi erano puntati sulle ricchezze accumulate dentro le mura della capitale compreso l’oro e l’argento dei calici per la consacrazione. Contro tale prospettiva Costantinopoli, ancora mai espugnata, non esitava ad allearsi con i sultani turchi : entrambi temevano le crociate.
Neanche i Turchi nel 1453, fecero a Costantinopoli quello che i Crociati nell’aprile 1204, lo scopo di quasi tutti era la predaziòne mentre i capi litigavano per spartirsi ciò che ancora non avevano conquistato.
Trasformare la quarta crociata nella presa della città fu un capolavoro di Venezia per i suoi affari, sicché gli infedeli non furono più i Turchi ma i Bizantini. I crociati avevano assoluto bisogno delle navi di Venezia per andare in oriente e questa oltre un prezzo e condizioni esosi manovrò per dirigerli contro Bisanzio con la complicità taciuta dei loro comandanti e perché il sultano d’Egitto si era accordato con i Veneziani perché li tenessero lontani dal suo paese e dalla Siria.
Nel luglio del 1203 i crociati assediavano le mura di Bisanzio non per liberarla dai musulmani, ma le poderose mura di Bisanzio mai espugnate da Costantino in poi li fermarono un po’ di tempo moltiplicando il loro appetito. La città fu presa ed una ridda di effimeri imperatori in pochi mesi non la sottrasse ad una sorte orrenda. Il doge Enrico Dandolo, cieco ed ottantenne al seguito della flotta, voleva recuperare quanto riteneva spettasse per le prestazioni della flotta ed appoggiò il piano di saccheggiare i tesori della città, impadronirsi dell’impero e dividerlo tra i vari capi con parti predefinite, senza badare che preparavano lo spezzatino per i turchi. Il che avvenne senza scrupoli perché i Greci ai loro occhi erano responsabili del fallimento delle prime tre crociate, erano scismatici, non ubbidivano al Papa, peggiori dei Musulmani. La città fu presa ad aprile del 1204 e fu letteralmente massacrata mentre ancora una sua parte, uguale alle tre maggiori città europee, incendiava da settimane:
- Al massacro non ci si abbandonò che come incidente secondario, nel corso delle più lucrose attività del saccheggio e della rapina: forse non più di duemila abitanti vennero massacrati. Ma avidità e cupidigia infierirono per le strade: i preziosi monumenti dell’antichità, cui Costantinopoli aveva dato geloso riparo per nove secoli, vennero abbattuti, asportati o fusi; case private, monasteri e chiese, vennero vuotati di ogni loro ricchezza; i calici, privati delle pietre preziose, divennero delle coppe per bere, le icone ripiani da gioco o tavole; le monache vennero rapite e violentate. A Santa Sofia i soldati strapparono il velo del tabernacolo, e fecero a pezzi i bassorilievi d’oro e d’argento dell’altare e dell’ambone; caricarono poi i loro trofei sui muli e cavalli che scivolarono e caddero sul pavimento di marmo, rigandolo del proprio sangue; e una prostituta sedette sul trono del patriarca cantando oscene canzoni franche-.( Cambridge, storia del mondo moderno)
Avendo citato forse illegalmente tale passo, per far arrabbiare ancora di più la superiore civiltà anglosassone invito a controllare cosa combinò con Lord Kitchener nel 1898 a Khartum: l’11 settembre moltiplicato.

LE TRUPPE FRANCESI E MAROCCHINE IN ITALIA

Non si pensi che sia sceneggiatura di tempi barbari: le truppe occupanti di qualsiasi razza e religione hanno in ogni tempo e luogo tenuto tale comportamento anche tollerato se non incoraggiato dai comandanti che si sentono tutti Cesare. Della divisione alpina francese che avanzava verso Roma tra il 1943-4 al comando del generale Juin Alphonse, facevano parte un migliaio di soldati marocchini dalla Francia reclutati con la forza: essi furono di fatto liberi di violentare migliaia di minorenni tra la Campania ed il Lazio e furono inutili le rimostranze del Governo del Sud di S. M IL BASSOTTO. La quale Maestà non aveva mosso obiezioni quando tre anni prima una simile divisione italiana aveva commesso le stesse nefandezze aggredendo dal sud una Francia già sconfitta al nord perché qualcuno con pochi morti voleva seder da vincitore al tavolo delle trattative per allargare i confini della patria. I Francesi tolleranti si prendevano la rivincita. Il film – La ciociara – rievoca il caso.

INVITO ALLO STUPRO


Cinque anni prima per emulare le conquiste tedesche qualcuno occupò l’Albania quinta sponda.
Un generale italiano, uno che non è degno di essere nominato, arringò i soldati nostri nella piazza Scanderbeg a Tirana o Valona del paese delle aquile che aveva operato da eroe contro i Turchi pur finendo Giovanni Castriota ( Scanderbeg ) esule in Italia. Il messaggio concione fu questo: so che a casa vostra siete in Italia bravi lavoratori e morigerati padri di famiglia, questo va bene in Italia. Qui non sarete mai abbastanza violenti e stupratori di fanciulle……..Era il viatico-messaggio della nuova civiltà italiana nel mondo che ci portò dopo un secolo e mezzo di tregua nelle invasioni al passaggio in Italia di quelle truppe marocchine. Quel becero comandante,mai richiamato, sapeva che parlava a soldati che venivano dalle regioni del sud dove allora la mattina dopo il matrimonio un fazzoletto macchiato di sangue verginale al balcone testimoniava l’onore della sposa nel matrimonio, e che una parola poco opportuna ad una donna poteva essere fatale. Ma non sapeva il becero che non lontana da Tirana si trovava la Tracia ( un tempo grande) dove alcune comunità di pastori montanari avevano avuto una concezione si rigorosa da accostarsi alla donna solo per il concepimento e col corpo separato da un ruvido panno per limitare al massimo il contatto.

TERRORISTI VECCHI E NUOVI


Chiunque venga dall’Africa musulmana è un potenziale terrorista perché l’Occidente tale è stato per secoli in quei paesi. L’Etiopia e la Somalia sono paesi con diverse religioni ( ortodossi, musulmani, animisti) che da decenni sono massacrati da una guerra civile con sfondo anche religioso. Dopo aver appoggiato per anni un dittatore sprecando ingenti somme, ora tutti si sono ritirati dai velleitari tentativi di porre fine ai signori della guerra.
Quando si volle dare al bassotto per cui si proponr il Pantheon il titolo di Imperatore d’Etiopia non ci fu risparmio di armi atroci contro gli Abissini: - Il moderno esercito italiano aggredì un avversario pressoché inerme con una brutalità che non aveva riscontro e che introdusse uno stile senza precedenti, impiegando perfino i gas asfissianti. Altrettanto privo di precedenti era l’atteggiamento da bravacci di certi ufficiali fra i più in vista, compresi i due figli di Mussolini, Bruno e Vittorio, che si vantavano spavaldamente di essersi divertiti a inseguire, con i loro aerei da combattimento, branchi di selvaggina umana in fuga, uccidendoli a centinaia e a migliaia con le bombe incendiarie e le armi di bordo.- La selvaggina era costituita dagli indigeni che avevano per casa misere casupole di fango e paglia, mitragliate ed incendiate. Così .- Il 5 maggio 1936 Badoglio entra in Addis Abeba, la Capitale dell’Abissinia, alla testa delle sue truppe. La vittoria italiana è completa. Per le tribù etiopiche il bilancio di questa vittoria si riassume nelle seguenti cifre: 275.000 uomini caduti in combattimento; 75.000 uccisi nelle successive azioni di guerriglia; 18.000 eliminati nel corso dei – rastrellamenti -; 35.000 deceduti nei campi di concentramento; 24.000 condannati a morte dai tribunali militari e giustiziati-. ( Erich Kuby- Il tradimento tedesco- BUR, 1996)
Da quale paese e civiltà e religione veniva l’esercito che si macchiò di tanta infamia? Da quali radici storiche ( culturali, civili, religiose) in Occidente è alimentato l’albero che dà tali frutti? Non risulta sulla stampa anche cattolica dell’epoca la dovuta riprovazione e condanna. I bassotti meritarono il titolo di Maresciallo dell’impero, e l’Italia crede di aver saldato il suo debito con la restituzione dell’obelisco allora rubato come trofeo dalla piazza di Addis Abeba - Fiore del Deserto. Noi sbagliando crediamo che i nipoti di quei massacrati abbiano dimenticato, come oggi in Italia di fatto si irride sui martiri del Risorgimento e c’è chi come capo del governo sta facendo di tutto di oltraggiare i martiri della Resistenza, anche se la pacifica competizione politica .non deve far nulla dimenticare. Si rimanda al volume di George W Baer – La guerra Italo-Etiopica- Laterza 1970, per lo sviluppo diplomatico e militare ed in particolare al cap. XI che presenta il comportamento della Santa Sede di fronte all’aggressione bestiale.


MISSIONE COMPIUTA


– Missione compiuta- proclamò dalla tolda di una corazzata il comandante supremo dopo l’occupazione dell’Irak. La missione non era compiuta, quando lo sarà con la fuga delle sue truppe, quel paese avrà avuto in vent’anni oltredue milioni di morti riconducibili in generale all’imperialismo dell’occidente che poi grida allo scandalo se da tale carnaio vengono fuori terroristi. Cesare tenne prigioniero il grande Ariovisto per anni nelle carceri mamertine e dopo averlo fatto sfilare con la barba intonsa da anni, attaccato al carro del suo trionfo finale, lo fece decapitare sui ceppi del carcere mamertino. Qualcuno oggi non può fare questo, ha fatto impiccare Saddam Hussein con rancore personale, ma non sa quanto danno futuro recherà all’Occidente tutto, verrà da un miliardo di Sunniti reso eroe e vendicato con migliaia di attentati e di morti. Ferme restando le responsabilità dell’uomo Saddam al pari di tanti altri ricevuti da anni con tutti gli onori nelle cancellerie dorate del Quirinale-Campidoglio. Un atto di clemenza non umano ma politico, sarebbe stata mossa intelligente contro l’estremismo.
Gli episodi di soldati che ora in Irak violentano le ragazzine sotto gli occhi dei genitori e poi uccidono tutti per non lasciare testimoni, sono di fatto cento volte più numerosi di quelli conosciuti e per i quali le autorità della Grande Democrazia mettono su con propaganda la fiction del processo. Il futuro lo dimostrerà, quando per scrupolo o denaro quei soldati ci faranno vedere il video da loro stessi conservato. I pezzi del museo saccheggiato di Bagdad sono già in collezioni private occidentali e saranno in seguito battuti all’asta. Così si moltiplicano i kamicaze.
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L’IMPERO DIVISO

La maggiore vittima da tutti i punti di vista della quarta crociata fu la stessa cristianità. Anche questa crociata si era conclusa con stragi come le altre precedenti.
Nei fatti che seguirono Venezia la fece da padrona e si assicurò un impero marittimo nello Ionio da Durazzo alla costa meridionale della Morea, come Atene venti secoli prima aveva fatto nell’Egeo anche se in seguito a ben diversi scontri.
Sorse l’Impero Latino d’Oriente ed agli ortodossi fu imposto un patriarca latino che per loro pesò più del saccheggio stesso. Il tutto finì nel 1258 quando Michele VIII Paleologo pose fine al potere latino che aveva sminuzzato la Grecia ed aiutato dai Genovesi ripristinò un impero greco che dal colpo ricevuto non si riprenderà più anche se sopravvivrà come in sala di rianimazione per quasi altri due secoli, manovrando con un’abile diplomazia anche matrimoniale per non dire con la continua prostituzione delle sue principesse, sulla divisione dei nemici compresi i Turchi ed allettando il papa con la prospettiva impossibile della riunificazione. Genova e Venezia, si contendevano concessioni di approdi commerciali facendo e disfacendo gli imperatori. I Turchi avanzavano su Bisanzio e la circondavano anche da nord-ovest ed a fine Trecento erano pronti e determinati a fare della seconda Roma la capitale dell’Islam e del loro impero proteso verso il Danubio e Vienna. I tentativi di nuove crociate si ripetevano con esito insignificante o disastroso e prima ancora che la Costantinopoli degli ultimi ed inetti Paleologhi cadesse per mano di Otoman II nel 1453, l’Europa aveva cercato di soccorrere il moribondo impero d’Oriente quando era sultano Bajazet I, (figlio di Murat I ) che costruì la prima flotta turca, significando che non solo poteva avanzare per terra, ma anche affrontare i vascelli nel mare, che erano sostanzialmente quelli di Genova e Venezia, essendo ormai Pisa fuori gioco dopo la battaglia della Meloria. L’Aragona-Catalogna-Valencia (detta semplicemente Aragona) possedeva in Italia ancora soltanto la Sicilia da dove con una continua guerra che devastava sempre la Calabria - terra di passaggio- aveva intrapreso già dal momento del Vespro la conquista di Napoli che si concluderà nel 1442 con Alfonso I il Magnanimo, dopo le follie che vanno da Giovanna I a Giovanna II.


CARLO I D’ANGIO’

Le aperte mire su Bisanzio di Carlo I d’Angiò, che il Papa aveva inviato con preciso contratto a prendere contro Manfredi ghibellino Napoli, furono fronteggiate dal Paleologo alleandosi con Pietro d’Aragona, suocero di Manfredi, la cui famiglia il feroce angioino aveva fatto morire in prigione di fame. Mentre questi era vicino alla grande capitale, l’intesa aragonese –bizantina fece scoppiare il Vespro (31 marzo 1282) con l’intenzione di dare il regno che era stato di Manfredi al re aragonese estromettendo Carlo che di fronte a tale imprevisto evento rientrò in Italia per non perdere tutto.
Ma sola Venezia nel corso dei secoli poté evolversi in vero ed unico stato indipendente in Italia quando, con i Doria che passarono dalla Francia alla Spagna, anche Genova fu risucchiata nelle avventure spagnole col vantaggio mercantile di investire i suoi capitali anche in Aragona e Castiglia. Venezia, nel duello tra Francia e Spagna, trovava sempre più impossibile allargarsi verso l’Adda sulla terraferma dove si era dilatata senza scrupoli nell’uso dei mezzi. Si che il contenimento dei Turchi nei mari e porti della Grecia, dove un tempo aveva spadroneggiato, divenne una necessità per la sua economia mercantile, soprattutto dopo che nel XVI° secolo i navigatori portoghesi intercettavano direttamente nelle vere Indie i prodotti che la stessa repubblica imbarcava negli scali marittimi dell’oriente mediterraneo al terminal della via della seta. Ma l’impero d’oriente all’inizio de 1400 era ormai un feudo dei Turchi, ed i suoi imperatori vassalli e tributari degli stessi si uccidevano ed accecavano all’interno della stessa famiglia. Le vittorie di Murad I nei Balcani alla Marizza e poi a Kossovo nel 1389 avevano piegato per sempre la Serbia e suo figlio Bajazid I di fatto si preparava a trasferirsi a Bisanzio, mentre i vari pretendenti greci all’impero o lo servivano da vassalli contro le stesse città bizantine o giravano l’Europa mendicando aiuto ed offrendo umiliati al papa l’unificazione delle chiese che pur sapevano impossibile per l’opposizione del clero e del popolo ortodosso che ai Romani cattolici avrebbero preferito i Turchi. Ai cui sultani i vari imperatori greci o pretendenti al trono non esitavano a sacrificare, come Ifigenia in Aulide, le proprie vergini figlie mandandole loro in dono per implementare il loro harem.
Alla fine del Trecento un esercito contro i Turchi comprendeva Venezia, l’Ordine Gerosolimitano, l’impero stesso e soprattutto diecimila volontari nobili francesi, per lo più cadetti, che si sentivano spinti alla guerra santa ( non è un concetto solo islamico) e crociati per la fede. L’ Aragona-Catalogna nel nord-est della penisola iberica, controlla dai tempi del Vespro la Sicilia, ed è ben distinta dalla Castiglia che occupa gli altipiani centrali ed impegnata da secoli nella riconquista del sud ancora in mano ai Mori sempre in nome della fede.



IL MEDITERRANEO

Come si vede siamo in un periodo durante il quale la diversa fede dei figli di Abramo, Islam e Cristianesimo, viene chiamata a dare copertura e giustificazione ad ogni avventura di guerra anche quando si concludeva con orrende ed immonde violenze, rapine e massacri anche gratuiti, perché dopo un lungo e faticoso assedio i vincitori inebriati e pur essi sfiniti erano presi da una incontenibile sete di sangue come gli squali: sempre avveniva la negazione completa della religione quale che fosse quella invocata. La Castiglia impiegherà ancora un secolo di crociata continua per prendere Granata. Negli stessi anni Carlo VIII invadeva il regno di Napoli che i suoi antenati politici avevano cominciato a perdere proprio con il Vespro. La storia europea dall’undicesimo secolo in poi è inoltre attraversata dal desiderio di Roma papale di tornare ad avere il controllo dei cristiani d’ Oriente scismatico e dalle conseguenti crociate invocate e spesso praticate per liberare dai Turchi la Terrasanta ed il Santo Gran Sepolcro di Cristo. Con queste parole il Tasso conclude la –Gerusalemme Liberata-. Ma i risultati furono sempre deludenti, sia per le crociate deviate contro gli stessi cristiani, perché scismatici o eretici a giudizio dell’Occidente, sia perché su tutto prevalsero i motivi commerciali, di rapina e saccheggio. Il duello poi secolare tra Francia e Spagna, nel quale si inserì la riforma protestante che dissanguò la stessa Spagna, fece il resto: tutto tramò a tenere le coste del Mediterraneo occidentale sotto la pirateria islamica del Magreb e dall’armata navale turca: le conseguenze furono devastanti anche sul territorio, con gli abitanti fuggiti sulle montagne devastate e disboscate con grande dissesto geologico dell’Italia meridionale. Si ricorda che per secoli nessun stato europeo sarebbe stato in grado di affrontare sui mari l’armata turca unita in formazione di combattimento, da qui sempre la necessità di –leghe- anche tra Stati in Europa diffidenti: Venezia, Spagna, Roma.
Anche allora alla fine del ‘300 la spedizione era agli ordini di un giovanissimo per quel compito: Giovanni duca di Borgogna.
Da tempo i Turchi passati in Europa avevano come capitale Adrianopoli da loro chiamata Smedirne. Ma la spedizione si risolse in un disastro di crudeltà a Nicopoli in Grecia nel 1396, e la vita del giovane comandante Giovanni prigioniero fu pagata al sultano, che ancora non stava a Costantinopoli, a peso d’oro da Carlo VI re di Francia.. Subito dopo lo scontro di Ancira tra Tamerlano e lo stesso Bajazet che ne uscì vinto e prigioniero, salvò per altri 50 anni l’impero ridotto alla sola capitale. Seguì la lotta tra i suoi figli che rinviò ancora la presa di Bisanzio. Nel 1413 si consolida Maometto I eliminando i fratelli e lasciando erede Murad II. Un altro tentativo di lega contro i Turchi che ormai accerchiavano la capitale, fu fatto da Giovanni VIII Paleologo che nel 1438: venne dal Papa invocando aiuto, in cambio offriva la solita riunificazione delle chiese greca e latina. Un esercito cristiano con a capo il re d’Ungheria andò contro i Turchi, ma dopo i primi successi fece l’errore di avanzare fino a Varna sul mar Nero. Qui il 10 novembre 1444 nello scontro decisivo Amurat II annientò i cristiani, in battaglia cadde re Ladislao d’Ungheria. Peggio che a Nicopoli. Fu l’ultimo tentativo dell’Europa cristiana contro i Turchi che subito invasero la Morea sconfiggendo ed umiliando Costantino che da re teneva quella regione in contrapposizione alla capitale da tempo rassegnata vassalla dei sultani. Giovanni VIII Paleologo, penultimo imperatore muore a fine ottobre 1448, Costantino viene incoronato imperatore nella sua Morea all’inizio del 1449 e poi si reca a Costantinopoli. Ma i giochi sono fatti, anche se lui non era un vile: la capitale è accerchiata dai Turchi e Maometto Otoman II, figlio di Amurat II si sente indicato dal cielo e dal destino di completare l’opera. Ancora il 12 dicembre 1452 si annunciava l’unione delle chiese con una solenne messa in rito latino in Santa Sofia, celebrata dal cardinale Isidoro, ex metropolita di Mosca. Era il Requiem. Il giovane Maometto II aveva predisposto i piani ed a fine maggio 1453 prendeva Costantinopoli lasciandola al saccheggio del suo variopinto esercito. Con l’ingresso trionfale del sultano in Santa Sofia divenuta moschea finisce l’impero di Costantino il Grande, qui trasferito nel 330. L’ultimo fittizio imperatore romano d’occidente si chiamava Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore d’Oriente di chiamava Costantino XI. Coincidenze. In questo caso la città, a parte le violenze orrende sugli abitanti, non subì distruzioni o asportazioni di tesori d’arte dovendo restare la capitale nuova ed ultima della mezzaluna. Maometto II fece il suo ingresso in Santa Sofia trasformata in moschea convinto di essere lo spirito del mondo a cammello come apparve Napoleone a cavallo ad Hegel dopo una memorabile vittoria sugli stessi Prussiani. Ma in Europa ancora apparirà Hitler spirito del mondo sul carro armato per il suo popolo.
Maometto II era proteso a rapidamente prendere tutta la Grecia e con gli occhi puntati alle sorgenti del Danubio. I Turchi erano passati in Bulgaria agli inizi del trecento pagando il nolo alle navi veneziane, erano riusciti a fiaccare i Bulgari e dopo la presa di Costantinopoli divenuta Istambul, si esibirono per oltre cento anni, prima di Lepanto, in una serie continua di vittorie e conquiste a danno di Venezia nello Ionio e nell’Egeo, e sottomettendo tutti i popoli lungo il Danubio fino all’Ungheria con la battaglia memorabile di Mohàcs, minacciando Vienna nel loro sogno forse di chiudere a tenaglia il Mediterraneo fino all’Africa. Sogno fallito agli Arabi sette secoli prima quando attraversarono Gibilterra, fermati però dalla nascente potenza dei Carolingi della Francia di Pipino a Poitiers nel 732. E’ l’epopea dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. Il sogno turco durò fino al 1683 quando l’esercito ottomano fu battuto mentre di fatto assediava Vienna: da questo momento l’impero della mezzaluna perse l’iniziativa in Europa anche per terra e cominciò quel secolare arretramento a favore di Vienna che si sarebbe concluso alla fine della prima guerra mondiale. Durante tali due secoli si consumò anche la decadenza della Spagna guidata da una oligarchia agraria-religiosa che sperperò tutte le ricchezze che venivano dal nuovo mondo dalla schiavitù di fatto di milioni di Indios, anche se al tempo di Colombo la regina Isabella aveva proibito tale pratica che continua ancora oggi da parte dei grandi latifondisti di Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguai, attraverso la tecnica del rapimento e deportazione. La Turchia fu costretta negli attuali confini ed anzi rischiava di essere quanto meno occupata senza la figura di Kemal Pascià, ma si lasciò lungo il Danubio quella congerie di popoli e religioni che ha determinato il recente sfascio della Jugoslavia. Questo evento l’Occidente l’ha imputato alla egemonia della Serbia ortodossa senza valutare le sue origini e svolgimento: un grave errore che sarà pagato, ferma restando la condanna senza appello per gli orrori delle pulizie etniche. Durante i mesi tragici di questo conflitto la Turchia chiese, senza ottenerlo, alla Bulgaria il permesso di passaggio per il suo esercito per andare in soccorso dei musulmani della Bosnia-Erzegovina. Era la guerra santa quella che la Turchia da poco voleva intraprendere. La Turchia musulmana arrivò sotto Vienna risalendo il Danubio, l’Austria si avvicinò poi ad Istambul scendendo lungo lo stesso fiume fino al 1914 e si trovarono per la prima volta dalla stessa parte sbagliata in quanto perdente: entrambi sono le responsabili storiche di quanto successo. Il processo a Milosevich non cancella il passato, non rimuove la storia, pone le condizioni di altri scontri. Il frazionamento dei Balcani jugoslavi è un pessimo esempio per l’Europa: a partire dall’Albania musulmana un cuneo islamico dal Kossovo attraversa la Bosnia-Erzegovina tra cattolici ed ortodossi. A questo punto è una situazione di fatto, ma può diventare una punta acuminata nelle mani della futura Turchia e degli USA che ostacolano una vera unità europea. E pensare che l’epopea albanese ha per protagonista lo Scandeberg nella sua lotta contro i Turchi con il regno di Napoli come rifugio.


IL PONTE DI MOSTAR


Durante i giorni tragici i media del mondo libero ci hanno proposto migliaia di volte il ponte di Mostar sulla Narenta distrutto durante la guerra e poi da ricostruire come simbolo di pace ed unione dei popoli di quella zona. Il ponte è stato ricostruito con cura archeologica riesumando la tecnica dei perni di ferro protetti dal piombo per incastrare le pietre e proteggerli dalla ruggine e servirà ad unire i popoli nella pace. Nulla di più falso. Dopo la conquista turca centinaia di migliaia di giovani slavi vennero deportati passando proprio su quel ponte dei sospiri, ma di lacrime e pianto delle mamme slave che videro le loro figlie giovinette strappate per gli harem ed i postriboli turchi, i loro figlioletti infanti avviati in lacrime alla schiavitù o alla tremenda carriera di giannizzeri. Questi erano il corpo pretoriano dei sultani formato dalla razzia ogni tre anni di bambini nei paesi cristiani occupati ed allevati da famiglie musulmane per la guerra e la repressione, senza conoscere la loro origine. Solo una parte, anche per ragioni di psicologia infantile, riusciva a sopravvivere. Educati al coraggio ed alla crudeltà da ostentare furono responsabili di infiniti atti di impensabile ferocia. I vuoti lasciati da tali deportazioni venivano riempiti con abitanti di origine e fede musulmana presenti sul territorio nella loro discendenza.


COSE DA TURCHI


La resistenza o ribellione slava, soprattutto alla tratta dei bambini, veniva repressa con metodi che furono detti cose da Turchi: nei villaggi venivano selezionate le donne in avanzato stato di gravidanza che non potevano tenere - il pondo ascoso-, con la sciabola squarciavano la pancia delle sventurate e ne estraevano il feto già maturo che ancor unito dal cordone ombelicale allo squarciato seno, infilzato e grondante di sangue e con i vagiti della morte violenta e non della vita nascente, come un rospo creduto velenoso veniva esibito con una corsa a cavallo alle mamme dissanguate, atterrite e morenti. Messaggio chiaro e forte: se non consegnavano i figli per la devshirme – contributo dei bambini- essi se li prendevano in anticipo in questa orgia di crudeltà. Non conoscendo la sua origine qualche giannizzero avrà compiuto tale gesto su qualche sua sorella o addirittura sulla sua stessa madre superando gli infortuni della tragedia greca. Tali scene si sono tramandate nel popolo slavo fino ad oggi, il perdono non esiste nello svolgimento della storia, anche se lo invocano Corano e Vangelo. Per questo il ponte di Mostar è ambivalente. La letteratura slava ha presente diffusamente tutto questo con opere che presentano tale tragedia di migliaia di famiglie per secoli.


LA RELIGIONE IN AMERICA

Nello stesso periodo la cattolicissima Spagna stava conquistando alla fede di Cristo il nuovo mondo con il massacro degli Indios nei campi e nelle miniere. Qualche Conquistador che con poche decine di uomini e cannoni si impadroniva degli imperi Inca e Atzeca ( i Maia per analoghe pratiche di sangue sulla cima delle loro piramidi, erano scomparsi oltre 500 anni prima lasciando le loro cattedrali-piramidi alle scimmie della foresta) e relative ricchezze, dopo le fatiche della guerra si concedeva il riposo del guerriero: mentre alcuni Indios lo servivano a tavola con carne allo spiedo, ordinava ad altri di infilzare vivi allo stesso spiedo magari gli stessi figli e fratelli rotolandoli sul fuoco per sollazzo suo e dei suoi compagni di merenda. Non era certo che avessero un’anima. La religione degli stessi Atzeca con le sue pratiche sanguinarie su illimitata scala fece inorridire gli stessi spietati spagnoli. Cose da Turchi e Cose da cristiani quando si va a massacrare gli altri popoli. Non c’entrano le religioni, non ne eiste però una che non sia degenerata come arma da parte di chi le abbraccia formalmente. In questi appunti si parla di Venezia: i suoi metodi per il potere non differivano e la Riviera degli Schiavi non è un nome esotico.




COSA SI CERCA

Tali aspetti sono tragicamente attuali, di fronte a quello che l’Occidente chiama terrorismo islamico, mentre questo ritiene che siamo noi occidentali a continuare la linea delle crociate da loro ben diversamente giudicate come terrorismo ed aggressione gratuita nei loro confronti. E come allora prima di Lepanto l’Europa ed in particolare Venezia si sentivano strozzate dalla potenza turca, così oggi le frange estremiste di entrambi, anche nelle istituzioni, vedono pericoli e minacce alla propria civiltà. Se a questo si aggiunge il controllo delle risorse energetiche che dai paesi arabi ora si estende alle repubbliche centro asiatiche il quadro si complica con prospettive oscure. Se una diversa risorsa energetica di facile ed economico accesso all’improvviso sostituisse per metà gas e petrolio, i giudizi reciproci scorderebbero il passato e parte del presente e le religioni, come molla di aggressione di presunta civiltà superiore, perderebbero scatto.


LA TURCHIA


Le recenti visite di ministri europei ed italiani in Turchia con le annesse dichiarazioni di rito sulla promozione della stessa in Europa, sono più di facciata che di sostanza: date per normali le leggi europee sui diritti civili, quella nazione è ben lontana. Ma non è questo il problema, un altro Kemal Pascià potrebbe accorciare i tempi, la difficoltà sta nell’ondata di fondamentalismo cui quel paese non si sottrae, al pari dei nostri fondamentalisti cattolici, solo che questi per noi non sono pericolosi e continuano la diffusione di libelli per difendersi dall’Islàm come da Annibale alle porte. L’Europa con una dichiarazione ufficiale di – radici cristiane- formalmente farebbe un passo indietro rispetto alla stessa Turchia che da tempo si è definita laica. Bisogna sapere che con una Turchia mussulmana, così popolosa e povera ma nei diritti e doveri integrata in Europa, altri milioni di fedeli di Allah arriverebbero in Europa che dovrebbe prepararsi a tanto considerando la diversità di religione un fatto normale con uno Stato laico non solo a parole, ma anche nelle conseguenze pratiche sulla vita civile come liturgia, scuola, lavoro, lingua, cibo, volendo giustamente conservare i Musulmani i propri usi leciti se attengono alla religione anche se in contrasto con la legge europea.

TOLLERANZA O PARITA’ IN DIRITTI E DOVERI


Se poi il trend della loro presenza in Europa per le ragioni qui accennate dovesse tanto aumentare di pari passo con i diritti e doveri politici, allora si aprirebbe uno scenario che fa tremare i nostri bigotti che a parole parlano non di libertà religiosa ma di tolleranza, e se a lungo termine in qualche Stato europeo i rapporti si invertissero( evento non improbabile) sarebbero i cristiani ad aver bisogno della tolleranza dei mussulmani. Avrebbero diritto agli insegnanti di lingua araba pagati dallo Stato e per quelli di religione nominati dai loro Imam come quelli cattolici dai Vescovi. Se la diversa religione conferma i cittadini sempre eguali di fronte alla legge, bisogna trarne le conseguenze o affrontare un conflitto permanente pericoloso. Se alle scuole italiane si applicasse il controllo messo in atto alla scuola coranica di Milano, bisognerebbe chiuderne oltre la metà. In classi con religioni miste ognuno appende il segno della sua religione o i musulmani debbono essere costretti a vedere il Crocefisso? E se la maggioranza degli alunni in varie classi diventa di fede mussulmana il Corano può stare sulla cattedra? Non si può tornare al Cuius regio eius religio . Con classi separate ci sono in Europa gli insegnanti adatti? Immagino il volto ipocritamente cupo di tanti sedicenti cattolici, E se di conseguenza l’8/1000 deve potersi devolvere anche a favore della moschea, è un fatto di normale democrazia o bisogna gridare con alcuni bavosi cantori che è in pericolo la nostra libertà: -Giù le mani dalla nostra liberta-, proclama un loro recente libercolo che invita alla intolleranza verso coloro che poi sono una miniera d’oro( e siamo sempre lì) quando accettano in stato di necessità un lavoro nero, e dormono in baracche fetide, così li possono pure chiamare incivili e portatori di malattie. E la Turchia accetta la reciprocità assoluta? La Turchia minimizza il genocidio armeno durante la prima guerra mondiale diventando collerica al solo nominarlo ed ha perseguitato gli intellettuali non allineati come il premio Nobel per la letteratura 2006: questi interpreta una verità che un governo turco non accetterà mai anche se adesso aspirando agli euro dell’Europa fanno gli agnellini mentre le chiese cristiane bruciano e bruceranno secondo il programma a lunga scadenza dei protettori ed ispiratori dei – Lupi Grigi-.

IL KURDISTAN O DELLA PATRIA
Parola che non si deve nominare

L’Occidente processa Saddam per i Curdi, non si accorge cosa fa la Turchia con i suoi Curdi? Quelli iracheni hanno diritto alla libertà, quelli turchi si possono sterminare o rendere schiavi. Si sa che l’Irak nasce da una costruzione artificiale di Churcill (megalomane almeno quanto De Gaulle): un solo stato da tre province turche diverse per etnia, lingua e religione da oltre mille anni. Se i Curdi delle Turchia parlassero non di indipendenza ma solo di autonomia allargata verrebbero sterminati come gli Armeni e l’America ed i suoi maggiordomi in Europa non muoverebbero un dito: sta accadendo. E se i Curdi di Turchia, Irak e Persia volessero rifondare il Kurdistan, come a mio avviso è loro diritto a battersi con tutti i mezzi, compresa la guerra, i mercanti di democrazia cosa farebbero con quegli Stati? Valuterebbero la convenienza in rapporto alle materie prime e farebbero sorgere un altro stato, o darebbero piuttosto licenza di massacro agli altri tre? Se il Kossovo ha diritto arbitrariamente all’indipendenza avviando lo spezzatino prossimo in Europa, perché a magior ragione tutti i curdi non hanno diritto ad unificarsi in unico Stato? O per tale legittima aspirazione sono terroristi come li chiama la Turchia autorizzata a massacrarli ancora con le armi dell’Occidente? Dov’è il tribunale dell’Aja? La Turchia in Europa sta spaccando l’opinione europea, ma la discussione dovrebbe prescindere dalla religione, ha aspetti che riguardano la dignità dell’Europa e non la difesa di presunte radici.
Com’era l’Italia dopo Vienna? Perché a scuola ci segnarono come epopea il nostro Risorgimento? Dobbiamo rinnegarlo? I monumenti ai suoi Martiri, che ancora e sempre mi commuovono, dobbiamo demolirli se quegli stessi valori oggi rendono terroristi chi li ha abbracciati per l’onore e la dignità della sua patria- si bella e perduta-.In questo peregrinare non casual di riflessioni abbiamo sempre nel porto di Messina-Zancle la flotta veneziana con l’anziano venier che aspetta il giovane don Giovanni presunto figlio di CarloV.
Ed a proposito mi viene in mente l’incìpit del libro sul quale studiai per l’esame di ammissione alla scuola media, procuratomi da mio padre in cambio di una piccola cesta di pomodori. Esso recitava, perché testo sacro a me apparve: - I FRATELLI BANDIERA-:
Si chiamavano Attilio ed Emilio Bandiera. Erano due giovani ufficiali della marina austriaca…disertarono……, ora un monumento dimenticato li ricorda nel vallone di Rovito a Cosenza. Ad essi associo il Foscolo perché nacque e cantò Zacinto accanto alla quale fra poco sfilerà la nostra flotta con la croce garrula al vento. Egli anziché giurare fedeltà con vita comoda all’Austria, preferì l’esilio con quello che per lui ne seguì. Se tutto questo ha ancora un valore, ipocriti, mettete sullo stesso piano tutti quelli che in nome o di Dio o della libertà lottano nel mondo e non giudicate in base alla convenienza petrolifera o mercantile. Vane illusioni.
Ricordo ancora i Martiri Cattolici dell’Irlanda del Nord massacrati dagli Inglesi: sono terroristi? O purissimi eroi ! Essi si che sono dei santi, ma nessuno mai li proclamerà tali in blocco perché non rendono. Usarono le armi? Quelle si che erano benedette. Simon Pietro usò la spada tagliando l’orecchio al servo del sommo sacerdote a sua volta seervo dei Romani, quando i soldati imperialisti romani andarono ad arrestare Gesù responsabile di preparare la rivolta contro Roma, perché tale era il suo compito essendosi proclamato figlio di David. Tale esempio dimostra che per cacciare l’occupante bisogna prima cacciare con ogni mezzo il suo fantoccio che ci governa. Gli esempi attuali sono tanti, l’opinione mai dettata da verità e giustizia

PROSPETTIVE FUTURE

Oggi per ogni tre italiani presunti cristiani se ne rinnovano due, per ogni italiano presunto islamico se ne rinnovano tre: basta fare le proiezioni statistiche e vedere quando saranno maggioranza se conserveranno la loro fede. Di fronte alla costruzione di moschee che in breve tempo rispetto ai credenti supererà in Europa le chiese cristiane, come si risponderà? che non sono in regola con i permessi di legge o che la loro architettura contrasta con il paesaggio gotico, romanico o con i mulini a vento? Se l’Europa in tempi brevi non saprà veramente unificarsi con un governo con tutti i poteri effettivi almeno nella politica estera e difesa, si condanna allo stallo e qualche Paese comincerà a fare retromarcia. Non si può andare avanti così, pena lo sgretolamento: quando si fanno certe affermazioni di principio, salendo in cattedra bisogna sapere le conseguenze future. Cosa accadrebbe con una Turchia integrata in una Europa con un solo Ministero per gli Esteri e la Difesa, se diventasse necessario o solo utile per la pace intervenire armata manu in un paese arabo? Un governo turco, approvando, reggerebbe di fronte ai suoi musulmani tutti? Se le membra sparse e divise del Kurdistan si riunificassero e con la rivolta proclamassero l’unità e l’indipendenza, come provò l’Italia nel Risorgimento, una Santa Alleanza con mezzaluna e croce farebbe una crociata in nome di chi? E se viceversa proclamasse l’indipendeza una provincia importante di uno stato europeo con la Turchia integrata mlitarmente, l’Islam dei Turchi potrebbe arrivare dove non potè nel secolo VIII e nel VXVII°? Non sono scenari chimerici ma possibili.
Alla legittima divergenza politica si sommerebbe quella religiosa con le prevedibili conseguenze. Ecco un problema vero posto dalla situazione di fatto e non gonfiato per fini speculativi. I recenti episodi contro i Cristiani in Turchia non sono da sottovalutare. Il Primo ministro turco si era dichiarato latitante durante la visita del Papa di Roma, poi lo ha incontrato occasionalmente incrociandolo all’aeroporto: sa come la pensa la maggioranza dei Turchi. E gli attuali 27 paesi europei possono essere paralizzati da un veto turco di matrice religiosa? Prima l’Europa diventi tale con una costituzione che preveda la fine dei veti e poi si vedrà, anche in base alla scena del Medio Oriente, il da farsi.




CIPRO


La battaglia di Lepanto partì da Cipro dove sbarcarono i Turchi l’anno prima prendendo con lungo e sanguinoso assedio Nicosia, e nel 1571 mentre le navi marcivano a Messina tra luglio ed agostom bruciò Famagosta, il fietu di quell’incendio ancora dura.
La Turchia oggi non riconosce la Cipro greca perché vuole che si prenda atto della legittimità della sua occupazione nel 1974, con essa vorrebbe convivere in Europa. Siamo tornati al 1570. Tenere la Turchia per sempre fuori dall’Europa è una scelta saggia ed un messaggio chiaro per gli USA. Cerchi pure la Turchia di farsi promotrice di una federazione rivolta a largo raggio al suo sud est compreso Israele, vincolante sui temi principali e poi l’Europa si confronti con tale nuova entità.
Nel Cinquecento la inarrestabile ascesa per terra e per mare della potenza turca con le continue rapine e devastazioni lungo le coste fino alla stessa Venezia, avevano creato un clima di terrore ed apprensione. La stessa Venezia rischiava il saccheggio al pari di Roma come avevano dimostrato le incursioni di Barbarossa che sulle coste italiane ogni anno riempiva le navi di beni e schiavi.
E’ l’apogeo di Solimano. Le torri costiere saracene che dal Quattrocento al Settecento furono costruite per l’avvistamento dei pirati valsero a poco ed ora sono in disfacimento vergognoso: non ci sono più i pirati che vengono dal mare ma quelli che si piazzano di fronte al mare.
Ormai a Venezia erano rimaste Cipro, Creta, le isole nello Jonio il tutto tenuto pagando la mazzetta ai Turchi come facevano l’Austria ed anche la Polonia. . Lepanto le era stata tolta dal sultano Bayazid nel 1499. A sud della Sicilia i Cavalieri di S. Giovanni hanno fortificato Malta dopo aver lasciato Rodi presa dai Turchi che ora hanno deciso di controllare tutto il Mediterraneo orientale e centrale: Cipro, Creta e Malta dalle cui basi veniva danno alle loro navi. Siamo nel momento del massimo splendore turco incarnato da Solimano il Magnifico ed il suo impero è il più potente del mondo. In questa strategia rientra nel 1521 l’assalto a Rodi tenuta dai Cavalieri di S. Giovanni. Solimano preparò per tale impresa migliaia di cannoni e 100.000 soldati: non si doveva fallire come a fine 1479 con l’ammiraglio Mesih-Pascià. Ma l’anno seguente ci fu Otranto che si inserisce nelle mire espansionistiche a nord di Ferrante II a danno di Firenze e nella neutralità sul mare di Venezia che sempre lasciata sola era costretta a negoziare la pace con i Turchi pagando la mazzetta annua di centinaia di migliaia di ducati per accedere ai mari del Mediterraneo orientale, pena la sua morte economica. . Questi nel 1521 investirono di fuoco la fortezza che si era preparata e si combatté con tale accanimento che dopo sei mesi capitolò ed ai suoi difensori fu risparmiata la vita, secondo i patti della resa che non saranno rispettati a Cipro. Cinquantamila Turchi persero la vita ed i superstiti Cavalieri si trasferirono a Malta, unica isola che i Turchi non presero mai. L’impresa che costò tanto a Solimano non fu una questione di prestigio, i Turchi badavano al sodo e non all’etichetta come gli Spagnoli. Rodi si trova assai vicina alla costa sud ovest della Turchia e partendo da essa la flotta dei Cavalieri corseggiava i paesi rivieraschi razziando beni e schiavi da mettere ai remi o vendere, come facevano i Turchi da noi. da Cipro ancora Venezia faceva altrettanto.

POMPEO E LA GUERRA AI PIRATI

Già nel primo secolo a.C. l’isola era la base dei pirati che infestavano i mari d’Oriente e vendevano migliaia di schiavi tratti dall’Oriente ai latifondisti del senato romano che si erano impossessati delle migliori terre d’Italia dopo aver eliminato i Gracchi da loro ritenuti pericolosi sovversivi, oggi terroristi.
Questo irritava i piccoli proprietari ( coltivatori diretti) che non reggevano la concorrenza dei prezzi agricoli col lavoro schiavistico, ma suscitò l’appetito della grande borghesia finanziaria della city romana che vedeva lucrosi guadagni con il controllo degli schiavi. Allo stesso modo che oltre quindici secoli dopo quella europea.
Siamo tra l’80 ed il 70 a. C.: Pompeo viene incaricato e finanziato dal senato romano per liberare dai pirati l’Oriente, compito che gli meritò il trionfo: aveva assolto il suo mandato. In effetti ai pirati si sostituirono i cavalieri romani nel commercio degli schiavi offrendone tanti agli agrari da far svilire il prezzo della merce: i piccoli proprietari crollarono ed i loro piccoli fondi furono assorbiti dai grandi.
A difesa di Rodi non fu bandita alcuna crociata in Occidente: nello stesso anno il Papato aveva altre preoccupazioni, badava a scomunicare Lutero con tutto quello che ne seguì in tema di libertà di religione in Europa con guerre e stragi come oggi tra Sunniti e Sciiti.
L’assalto a Malta nel 1565 fallisce dopo aspri scontri e crudeltà reciproche, i Cavalieri tengono l’isola che costò la vita a Dragut. L’anno seguente moriva il Solimano, gli succedette il figlio Selim II che iniziò una serie di sultani sempre meno all’altezza del Magnifico. Questo attributo non deve farci dimenticare che aveva fatto scannare dinanzi ai suoi occhi il valente figlio Mustafà, e poi ancora i figli di questo. Era sospetto di tradimento per insinuazione della giovane ultima favorita che spianava la strada al trono a suo figlio Selim II, conoscendo la consuetudine di eliminare tutti i parenti più prossimi da parte del nuovo sultano. Si tralasciano per brevità le norme che nell’harem regolavano gli incontri delle schiave col sultano che dovevano sempre augurarsi di non concepire, pena vedere quasi sicuramente i loro figli soppreesi neonati o al momento della successione.
Fallita la presa di Malta la flotta turca doveva subito riacquistare il prestigio della invincibilità e del terrore, indispensabili per intimare la resa alle fortezze e farsi pagare pesanti tributi dagli Stati vicini, compresa Venezia se voleva svolgere sul mare d’oriente i commerci necessari alla sua ricchezza anche per fronteggiare la Spagna ed il Papato che in Italia ne misero in pericolo l’esistenza nel 1507 con la lega di Cambrai.


O CIPRO O GUERRA!

L’obbiettivo immediato diventa Cipro, isola ricca e strategica. L’-intelligenza- veneziana era al corrente di tutti i progetti dei Turchi, ma contrastarli e da soli era un’altra cosa. L’11 febbraio 1570 Selim II manda un ambasciatore che intima a Venezia- O Cipro, o guerra !- rompendo una quasi tregua non più barattabile con il pagamento di un tributo sia pure elevato: era in effetti una estorsione fra il forte ed il debole. Fino a quel momento Venezia aveva declinato gli inviti del Papa alla formazione di una Lega per mare contro i Turchi che sempre doveva comprendere la Spagna con i Doria: preferiva pagare i Turchi e ci guadagnava di fronte alle spese di una guerra sempre incerta, sicura che la Spagna voleva solo fingere per abbandonarla nel momento critico come era avvenuto. Non per questo l’attività del suo arsenale, primo nel mondo in quel momento, si arresta, anzi prosegue la ricerca di navi di ogni specie sempre veloci e capaci di essere di gran lunga superiori in battaglia per bocche e potenza di fuoco. Nello stesso ci sono le fonderie per le armi e la ricerca e fusione di leghe all’avanguardia coprendo tutto col segreto militare che, se violato, portava senza appelli alla eliminazione dei responsabili. Al cantiere arrivano ordinazioni da ogni parte ma, come oggi, non a tutti vengono vendute la navi da guerra per non vedersele contro. Coperte dal segreto militare si approntano le galeazze: per i tempi corazzate da 50 metri a vela e con 50 remi mosso ognuno da 7 uomini. I circa 40 cannoni vengono disposti, novità assoluta, ad ellisse per consentire fuoco in tutte le direzioni senza necessità di complicate e pericolose manovre nel momento concitato della battaglia. Tanto lavoro ferve nell’arsenale che copre 26 ettari di terreno, rinnovato dopo la sua distruzione con incendio del legname e scoppio delle polveri nel settembre del 1569, evento per il quale non si esclude il sabotaggio per cui le navi di Lepanto non erano costruite con legnme stagionato. La potenza finanziaria di Venezia in rapporto alla sua estensione ed in assoluto è enorme, ma è subordinata tutta alla possibilità di commercio. La sicurezza militare con un’abile diplomazia è l’unica che la può garantire.
All’intimazione la repubblica oligarchica oppone un rifiuto, ma cerca di fermare il colpo con la diplomazia segreta supportata dall’oro presso la corte del sultano. Fallita questa rinforza le difese lungo le rotte marittime e fa conoscere al papa la sua disponibilità ad una lega, senza interrompere i colloqui conla Sublime Porta. Fornisce al papa lo scafo di dodici navi da guerra da completare con vele corde e cannoni, nella speranza vana che nello stesso 1570 una flotta cristiana possa dissuadere i turchi dall’assaltare Cipro o liberarla con un eventuale sbarco. La Spagna invece si adoperava apertamente affinché l’isola fosse presa dai Turchi. Poi sarebbe andata in aiuto ad una Repubblica in ginocchio privandola delle terre vicino a Milano, ed esposta essa stessa alle mire dell’Austria di Massimiliano d’Asburgo: Vienna alla fine si prese Venezia proprio nello scambio di Campoformio con Milano nell’ottobre 1797, durante la campagna in Italia di Napoleone ancora generale e la tenne fino al 1866. Alla notizia dello sbarco turco a Cipro, da Venezia acquisita nel 1489, Filippo II fa finta di mandare il venduto Giannandrea Doria al concentramento ad Otranto col Colonna per poi andare contro Occhialì che con la sua flotta proteggeva dal mare gli assedianti turchi di Nicosia, primo obbiettivo dello sbarco sul nord di Cipro di fronte alla Turchia come avvenne 44 anni fa. Il copione spagnolo si ripete come alla Prevesa: allora lo recitò Andrea Doria, ora lo recita il nipote Giannandrea: arrivare tardi al concentramento, fare questioni di comando ed etichetta, litigare senza fine sul piano di battaglia, invocare la stagione inoltrata e le tempeste per proporre il rinvio al prossimo anno, e se tutto questo porta comunque alla battaglia, durante la stessa manovrare per sottrarre le navi di Spagna allo scontro lasciandolo ai Veneziani con la speranza di vederli affondati e defilarsi indenni da quel tratto di mare. Il piano funzionò alla perfezione nel 1570 : Il 9 settembre cade Nicosia, il Doria si ritira, Il Colonna e l’ammiraglio veneziano Zane si riducono a Corfù pei poi sciogliersi. Una grande armata navale con enormi costi di armamento e gestione viene di fatto sconfitta senza combattere, mentre un’azione rapida all’inizio dell’estate avrebbe potuto osare il tutto per togliere l’assedio a Cipro veramente umiliando il sultano. Per Nicosia si narrano le nefandezze dei Turchi sui vinti e prigionieri: ordinaria prassi praticata all’occasione anche dai cristiani sui turchi e per restare fra di noi in Calabria verso i Valdesi 10 anni prima. Capisco che gli ipocriti ed anche spesso ignoranti si rifiutano di prendere atto di tanto. Visto il fallimento Venezia destituisce lo Zane nominando al suo posto Sebastiano Venier, provveditore di Corfù quando quello vi condusse una flotta sconfitta senza combattere. Nel 1571 si rinnova in modo formale la Lega Santa e don Giovanni d’Austria figlio naturale di Carlo V e tale riconosciuto da Filippo II per espressa volontà del padre, diviene il comandante. Dopo estenuanti trattative durante le quali la Spagna conferma con i fatti il suo copione si stabilisce il concentramento a Messina per l’estate. Ma Famagosta nell’ampia baia orientale è agli estremi ed i Turchi possono spostare la loro forza navale nello Ionio per impedire a quella cristiana di provare a soccorrere direttamente Cipro: i loro migliori alleati sono gli Spagnoli ed il Doria che mai avrebbero accettato tale strategia, un eventuale urto con i Turchi doveva avvenire dopo la perdita di Cipro.






IL PAPA PIO E LE FLOTTE


Infatti nel Concistoro del 27 febbraio 1570, dopo l’ultimatum di Selim II giunto a Venezia l’11 dello stesso mese, alla proposta di Pio V di una crociata contro i Turchi, si oppone l’ambasciatore di Spagna, card. Granvela che giudica Venezia meritevole di una sconfitta e poi soccorsa chiedendo umilmente aiuto. Ma prevale l’opinione che si tratta di difendere tutta la cristianità e si cerca di coinvolgere tutti gli Stati europei: impossibile coinvolgere la Francia alleata dei Turchi o i principi luterani tedeschi che diffidano assai più del Papa cattolico che dei Turchi. Alla fine si concluse la lega Santa tra Spagna, Venezia, il Papa e minori altri Stati nel maggio 1570 con la promulgazione di un giubileo propiziatorio. Al rifiuto della Serenissima Sposa del mare di consegnare l’isola, i Turchi sbarcano a Cipro e ne cominciano la conquista massacrando gli abitanti. Per vedere la flotta cristiana operativa bisognerà aspettare l’autunno del 1571, quando già Cipro era stata conquistata con soddisfazione del Granvela che non per caso era nel frattempo diventato viceré a Napoli: i Turchi combattevano pure per lui umiliando Venezia. Si ricorda che gli stessi Turchi sbarcarono a Cipro nella baia di Kirenja nel 1974 in funzione antigreca per proteggere la loro minoranza sopravvissuta nei secoli e dopo convulse vicende interne all’isola la comunità loro oggi ne controlla un terzo a nord-est con 170.000 abitanti con una piccolissima parte musulmani, mentre il governo della parte greca dell’isola si reca dal Papa come gli imperatori bizantini a chiedere aiuto. Fa vedere le chiese trasformate in moschee per chiedere il veto vaticano alla Turchia in Europa se prima non riconosce il governo greco dell’isola. Tale governo fa finta di non sapere tutto questo a chi giova.
A settembre 1570 presero Nicosia e si presentarono alle mura della fortezza di Famagosta mandando in dono al comandante Bragadin la testa mozzata del Dandolo che difendeva la prima città. L’assedio si protrasse a fine luglio 1571 ed appunto il comportamento poco opportuno del veneziano vinto e prigioniero lo portò all’orrenda fine il 17 agosto.


ANSIA E PAURA

Tutti questi precedenti spiegano l’attesa e l’ansia nel 1571, quando non pareva vero ai Cristiani che tre stati sempre tra di loro diffidenti mettessero insieme tante risorse militari ed umane per andare contro i Turchi che, se pur annientavano il commercio di Venezia, minacciavano ogni giorno tutte le coste dei mari, comprese quelle spagnole, partendo dall’Africa e si approssimavano pericolosamente a Vienna e Praga. Affrontarli uniti per terra era complicato, mentre per mare logisticamente più semplice. La necessità di affrontare una volta per tutte l’armata nemica è sentita da tutti, ma le solite rivalità e gelosie ritarderanno fino al 1571 lo scontro di Lepanto. Non fu facile mettere insieme la forza navale necessaria e nessuno garantiva che non sarebbe rimasta una parata.


GASPARE TORALDO


In Calabria in questi anni compare sulla scena Gaspare Toraldo, barone di Badolato, che si vuole nato a Tropea nel 1540 e da una vittoria occasionale contro i Turchi nella marina ionica trasse coraggio e prestigio per inserirsi in altre imprese, compresa Lepanto. Sposò una Sanseverina ed ebbe tre figli. Perse in seguito la terra di Badolato ed in seguito un Francesco suo nipote morì ucciso durante la rivolta di Masaniello del 1648 dal popolo che lo vide tradire il mandato affidatogli. Fu autore di uno scritto cavalleresco sotto forma di dialogo al quale partecipa Bernardino Rota, che custode all’epoca del castello di Tropea, mai avrebbe immaginato vedere gli eredi del Toraldo demolire il suo castello nella seconda metà dell’Ottocento per dar luogo all’attuale palazzo Toraldo tra largo s. Michele e via Glorizio nell’orgia generale di impossessarsi delle aree fabbricabili dentro l’antica cerchia delle mura. Questo più avanti, perché certe cose non si debbono sapere, a qualcuno danno fastidio ed ha scelto la strada di nascondere i documenti. Per ora basti dire che negli atti del roboante convegno sui fratelli Vianeo tenutosi il 15-16 giugno 1947, è inclusa una nota a richiesta del prof. Arturo Manna pubblicata su VITA CALABRESE del 25-5-1947. In essa a pag. 9, secondo capoverso, si legge: -……..i fratelli Vianeo, nella cerchia delle torri e delle sue mura merlate, stoltamente demolite in epoca non lontana,….- Sono così ricordati gli scempi a solo scopo di lucro fatti da coloro che si vantavano discendere da Ercole se non da Giove, oltre che dal Toraldo in esame, da altri indicato come filibustiere venuto da Polignano.


I POSSEDIMENTI VENEZIANI

Venezia possedeva Cipro e Creta sulla stessa linea dall’Egeo alla Siria, e le isole ad occidente della Grecia. Tali posizioni strategiche sono sentite come spine nel fianco dai Turchi, come possibile punto di attacco ai loro territori, anche se Venezia ha interessi solo commerciali e non politici, i Turchi sono sospettosi e cominciano a reclamare proprio Cipro, l’isola più orientale ed importante per la Siria e l’Egitto. Tali possedimenti, uniti al controllo veneziano dell’ Adriatico davanti ai Balcani turchi, apparivano ad Istambul un abbraccio soffocante al suo impero.
Il papa Pio V coglie l’occasione per insistere per la formazione di una Lega di forze cristiane che affronti la flotta turca con l’intento di salvare Cipro. Per conto della Spagna il Cardinale Granvela cerca di ostacolare l’idea del papa, sperando di vedere Venezia rovinata secondo gli auspici di Madrid. Si ricorda che tale cardinale all’interno della Chiesa cattolica dopo il Concilio di Trento, da poco concluso, fu un vero fondamentalista forcaiolo e la sua guerra santa era contro i luterani che impiccava a vista con la forca che teneva sempre pronta anche quando era in viaggio con la diligenza. Fu anche presente con gli stessi metodi nelle Fiandre in rivolta. I suoi eredi nel terzo millennio non mancano tra i difensori dei valori dell’occidente romano e cristiano. Siamo nel momento in cui l’Austria, la Polonia e la Persia pagano un tributo annuo al sultano. Si trovò un difficile accordo per andare per mare contro i Turchi, ma non tutti con la stessa convinzione. L’intervento avrebbe dovuto essere rapido per salvare Cipro, l’isola del rame, come era avvenuto per Malta.

LA NACA

Fatti i costosi preparativi delle navi e del loro armamento, munizioni, viveri, equipaggi, un primo raduno della squadra italiana del Papa e minori consociati si fermò a Napoli nel luglio del 1571, assente ed in ritardo deliberato la flotta spagnola e genovese. Una campagna navale nel Mediterraneo orientale avrebbe dovuto iniziare almeno oltre un mese prima, Venezia per esperienza sapeva che la corte spagnola ed la sua eminenza grigia ed anima nera del card. Granvela giocavano per mandare avanti la flotta dei Dogi nella fondata speranza di scontrarsi da sola con quella turca ed essere affondata. Mentre in Europa si discuteva, Cipro, novella Sagunto, bruciava con soddisfazione della ferocia turca e dell’ipocrisia di Madrid. Marcantonio Colonna comandava la flotta pontificia e per ordine del papa il 16 luglio partì per Messina. Nel dargli il comando il pontefice Pio V gli aveva fatto giurare, pena la scomunica, che si sarebbe battuto fino alla vittoria o alla morte. Nella città dello stretto si attendeva la flotta spagnola al comando di Don Giovanni d’Austria, anche se la flotta genovese-spagnola era di fatto al comando di Gianandrea Doria nipote di quell’Andrea Doria che se per i Genovesi è una bandiera, per la Spagna fu una pedina e venne meno all’onore militare: anche oggi dietro l’apparenza della retorica e delle fanfare c’è dell’inconfessabile. Egli per ordine di Carlo V aveva di fronte ai Turchi spesso deluso i Veneziani per il suo comportamento equivoco come era avvenuto nello scontro della Prevesa di fronte al golfo di Arta. Forse in lui non era spenta la rivalità tra le due repubbliche dopo l’assorbimento della lanterna del porto genovese nell’orbita spagnola. La necessità di almeno controllare la tremenda guerra di corsa magrebina e turca era valida scusa perhé i Vicere, sollecitati dal Gran Consiglio d’Italia istituito a Madrid, imponessero sempre nuovi balzelli che affliggevano la Calabria più delle incursioni piratesche. Basta notare con quale sistema fiscale a carico dei centri costieri veniva finanziata la costruzione, manutenzione e servizio delle torri d’avviso in alto e di guardia in basso.

ARRIVANO LE FLOTTE

Dall’Adriatico era arrivato nel mar Ionico la flotta di Venezia al comando di Sebastiano Venier, comandante anziano ma fermo e deciso e secondo gli ordini del Senato della Serenissima, attento e guardingo alle mosse, prima che dei Turchi, della stessa Spagna.. Le due flotte costeggiavano verso scirocco i due mari della Calabria per unirsi a Messina. Colonna fece l’acquata mercoledì alla marina di Belvedere. Le navi singole ricorrevano a fontane presso i porti dove c’erano i fornitori di tali servizi come a Tropea con l’acqua di una fontana dalla costa del Carmine ora prosciugata ma leggibile ancora nella vasca che ne raccoglieva l’acqua: Una flotta doveva accostare ad un robusto e pulito corso d’acqua anche per la rapidità richiesta dal rifornimento per ragioni di sicurezza ed economia di percorso. Non risulta dalle fonti che un corso d’acqua sia stato avvelenato o inquinato contro una flotta nemica ricorrendo alla guerra chimica.

LE ACQUE PETROSE DI BELVEDERE

A Belvedere si dovette forse ricorrere al torrente Soleo che sotto la protezione del S. Basile in esso confluente doveva pur avere sorgenti ed acqua pulita o depurata. Le sorgenti della Petrosa offrivano acqua limpida ed abbondante: la stessa che oggi è convogliata nell’acquedotto della zona. Le navi singole di trasporto per paura effettuavano all’epoca una guardinga navigazione di cabotaggio durante il giorno ed a sera si fermavano presso qualche insenatura che offrisse riparo in rapporto ai venti di stagione. Esse potevano essere assalite dai pirati turchi o barbareschi, ma anche da naviglio indigeno che recitava la parte di straniero. L’equipaggio non poteva difendersi e l’unica salvezza era dirigersi virando alla costa e salvarsi toccando terra o a nuoto. Ma anche le flotte come quelle di Colonna e dopo del Doria e Don Giovanni che almeno in quel momento sul Tirreno non temevano nessuno, da Napoli a Messina pur allontanandosi alquanto dalla costa fin oltre il Sele, si accostavano fino a prudente cabotaggio, col solo timore di secche affioranti, quando si intravedeva la Calabria Citra dopo il Lao. Si sapeva dell’assenza di scogli affioranti tranne il Vadaro di Capo Vaticano solo di notte allora pericoloso, ma ben noto ai piloti di questo mare. Fino a questo momento partendo da Barcellona (Barcino, porto cartaginese poi romano e capitale dei Visigoti travolti all’inizio dell’VIII° secolo in appena dieci anni dagli Arabi) essi avevano costeggiato l’Iberia Tarraconensis, la Gallia Narbonensis passando davanti a Marsiglia e Tolone dove Francesco I aveva accolto l’armata di Barbarossa in funzione antispagnola.Lungo la Liguria (IX regio) a Genova si unì il Doria e costeggiando l’Etruria (VII regio) ed il Latium et Campania ( I regio), sollecitati a lasciare Napoli per Messina costeggiarono dopo il Sele tutta la Lucania et Brutium ( III regio) . Non sappiamo se accostarono per intravedere i templi di Paestum- Posidonia e l’affresco del tuffatore che traghetta le anime ed ora simbolo balneare di un centro balneare veneto, ma le flotte portavano a bordo gli esponenti degli ordini religiosi alcuni in odore di santità ed indovini alla Calcante.

VATICINIO DI GRANDEZZA CIVILE

Passando davanti alle coste calabresi essi fecero il lieto annunczio del loro sviluppo futuro da parte dei pirati indigeni venturi dall’interno che recheranno più danno di quelli contro i quali si navigava. In particolare dovettero fare una sosta davanti alle torri di Praia a Mare per un saluto e per vaticinare allà città lo splendido tempio che –tertio millennio ineunte- sarebbe stato calato dagli dei sulla spiaggia della loro città per il bene comune del turismo, in mancanza di un novello taumaturgico santo che attirasse milioni di fedeli interessanti per il Bit della Santità.
Tale vicinanza alla costa permetteva agli abitanti delle colline e monti retrostanti di osservare centinaia di navi con le vele al vento e per ragioni tecniche disposte in lunga fila. La notizia che, per grazia di Dio, il pontefice sempre santo mandava una grande flotta a lottare contro il turco infedele era stata divulgata anche per raccogliere aiuti di ogni genere utili all’impresa. Da detto fiume Silarus a Reggio, finita la piana, l’orografia della costa permette di mirare il mare dall’alto ed in lontananza specie se leggera spira la tramontana che favorisce la poppa verso sud o lo scirocco verso nord. Pericolosi o fastidiosi come risulta dalla letteratura già ricordata erano il libeccio di sud-ovest ed il maestrale di nord-ovest, invece favorevoli sulla costa jonica. Al passaggio delle flotte si accesero tante speranze di trionfo per la fede di Cristo, sempre ricordando che a quella data la Calabria non superava i 300.000 abitanti la cui condizione vedremo fra poco. Per un tratto di costa però i crociati della prima e seconda flotta furono visti con fondato sospetto e terrore dalle colline che si alzano subito dopo l’esile striscia di terra di recente, anzi fresca formazione alluvionale e che ora il mare-unico vindice- di tanti scempi sta mangiando con strada e ferrovia. . Almeno da Cetraro a Paola le vele seminarono spavento e sospetto che dirigessero le prue alla costa non per l’acquata ma per completare la strage dei Valdesi operata dieci anni prima. Fu una minicrociata con centinaia di scannati in conformità allo spirito da controriforma del concilio di Trento non ancora concluso, voluta e sollecitata da Pio IV, diretto predecessore del Pio V che si adoperò per la lega cristiana che sta navigando nel Mare Nostrum con la raccomandazione esplicita di ben affondare la spada nel sangue degli infedeli.

SPETTACOLO E SPERANZA E TERRORE GALLEGGIANTI

Le popolazioni insediate da tempo sul costone ovest della catena costiera quardavano la flotta e speravano che avrebbe evitato con la vittoria le razzie dei pirati, ma non i Valdesi con le carni lacerate e sanguinanti per la strage di appena dieci anni prima operata per diretto mandato del Papa in difesa della fede cristiana.
La letteratura esistente ed incontestata ci chiarisce i tempi ed i modi di questo insediamento valdese in Calabria agli inizi del 1300, il suo sviluppo laborioso e pacifico, fino al suo massacro da parte delle autorità civili e religiose sotto l’impulso della lotta ai luterani che gli stessi Valdesi avevano da secoli preceduto. Contro di loro si era, dieci anni prima, abbattuta in forma mirata un’intera crociata: avevano il solo torto di aver scelto come stile di vita il dettato evangelico della sobrietà che faceva rilevare il lusso e la lussuria di tanti corti ad ogni livello dei poteri religioso e secolare. Furono sterminati con immondi massacri in Provenza dalla settima crociata che li disperse. La loro recente adesione alla riforma li rendeva capaci di proselitismo e la Sede Santa ritenne con Pio IV papa e nepotismo cardinalizio con annesse vergognose prebende trionfante, di spegnere quel focolaio di eresia prima che provocasse un incendio: parva saepe favilla magnum excitavit incendium. E da quelle parti boschi cedui ce ne erano tanti. Ma non si ricorse al fuoco, quanto al coltello affilato del boia.

GUARDIA PIEMONTESE


Appena si profilò tale pericolo si passò alla repressione spietata, qui soltanto ricordata per dire che nei modi raffinati di tortura e morte eguagliò e superò quella operata dai turchi dopo la presa di Famagosta e Nicosia nella Cipro che la nostra flotta si prepara a vendicare. Tale risultato orrendo, si tralasciano qui i particolari orripilanti riferiti nella letteratura anche attuale dei discendenti dei sopravvisuti, fu conseguito nella prima decade di luglio 1561 dalla combinazione sinergica ( che bella parola sulla bocca dei nostri bavosi cantori attuali) delle forze militari del governatore di Calabria Citra con la sovrintendenza degli arcivescovi calabresi, sotto la consulenza dei nascenti Gesuiti che fungevano da polizia scientifica teologica, ma chiudevano gli occhi sulla vera causa della prostrazione materiale e morale di una Calabria la cui popolazione aveva perso il senso della vita e viveva in uno stato selvaggio, al punto che lo stesso gesuita Bobadilla dopo averla a lungo percorsa si rese conto che non c’era bisogno di andare in India per portare la parola del Vangelo, era più urgente in Calabria da lui definita India di quaggiù. Solo che il richiamo alla parola e vita di Cristo come modello di vita andava portata prima di tutto tra le ingorde gerarchie ecclesiastiche delle commende e tra le famiglie dei reges feudatari e reguli, dalle quali sempre quelle provenivano perché il mal tolto ai cafoni restasse sempre in famiglia. I risparmiati di Guardia furono costretti ad abiurare, subirono la confisca dei beni per opere di bene, e messi sotto sorveglianza religiosa col pericolo che venissero in ogni momento arrestati e messi sul rogo come avvenuto per alcuni di loro. Terrorizzati ed assenti dalla vita come ombre vaganti nei boschi della alta catena costiera guardavano quelle navi da cattolici coatti, sapevano che don Giovanni aveva condotto una spietata guerra nel sud della Spagna contro i Moriscos che costretti a dirsi cristiani dopo la reconquista, erano rimasti in privato islamici, al pari di loro che valdesi erano, davanti al loro focolare, pur dopo l’abiura.
E mentre i Valdesi ansiosi la vedevano sfilare verso sud, prima la flotta del Colonna proseguì con cautela fermandosi mattina di giovedì nella rada di Tropea, da dove si accertò, tramite sua sorella Gerolama moglie di Camillo Pignatelli duca di Monteleone, che l’armata che costeggiava sullo Jonio verso scirocco la Calabria dirigendosi verso Messina, era quella di Venezia. Rassicurato lasciò Tropea e la sera di giorno 20 entrò nel porto di Messina in attesa delle altre flotte di Spagna e Genova. La flotta di S. Marco mosse da Capo Stilo la mattina del 23 luglio ed al suo arrivo Colonna fece uscire la sua dal porto per i convenevoli saluti d’uso, rientrando insieme nel porto in gran parata. Rituali per caricare il morale degli equipaggi e dei comandanti. Due galee veneziane fecero da collegamento tra le due flotte: andarono incontro al Colonna all’altezza di Capo Vaticano e poi tornarono dal Veniero col quale rientrarono a Messina. Questi, per precedenti infortuni, ha bisogno di uomini e viveri che cerca di procurarsi venendo con la flotta a Tropea, che così conobbe il maggiore affollamento del porto nella sua storia marinara nello spazio di due settimane. E’ facile immaginare lo spettacolo che si offerse ai Tropeani tra luglio ed agosto del 1571 dall’angolo nord-est del collegio dei Gesuiti ( ancora non esistente) alla Munizione passando per la Ripicella sotto i palazzi Collareto e Fazzari, tradizionale, ed oggi precluso, affaccio orientale di Tropea sul porto e verso Parghelia.

IL VENIERO A TROPEA

La rinomanza della spedizione predicata come decisiva crociata contro gli infedeli che infestavano la Calabria aveva suscitato entusiasmi sinceri ma anche speranza di guadagno in alcuni che si misero ad arruolare drappelli numerosi di soldati per offrirli a condizione al Veniero che ne faceva richiesta. La flotta veneziana era scarsa di equipaggio ed arruolava volontari. Tra gli improvvisati capitani ci sono Prospero Colonna e Gasparo Toraldo già sperimentato contro i Turchi. Così relaziona la sua esperienza infelice a Tropea nell’agosto del 1571 Veniero:- essendomi detto che a Tropea, haverei soldati, et vini, et delli marinari, et peotti che se ben lì non era porto, era di està, andai; de vini ne trovassimo un poco, de soldati venne uno, che si faceva Capitanio et mi offerse dugento fanti ma chel volea la puppa, et il pizzuolo della galee, et che un Signor Gasparo Toralta lì in Calabria me ne dava mille dugento, ma che bisognava chel facessi Colonnello. Io ancorché mi pareva non haver autorità di far Colonnelli pur lo feci, et a lui, et al Signor Prospero Colonna, che venne dapoi, et ad altri ho dato molti denari, et non ho avuto la mità delli soldati-. Il Chiapparo ritiene che il Capitanio di cui parla il Veniero sia Stefano Suriano o Soriano di Tropea, sulla scia di F. Toraldo che lo precisa ne –I Calabresi a Lepanto – ricordando che tal famiglia quattro anni prima era stata numerata nel Sedile di Tropea quando alla stessa nel 1567 erano stati concessi i primi Capitoli.
L’escursione a Tropea fu causa di sventure per le navi di Venezia perché i piloti veneziani non erano esperti del mare a nord del faro di Messina. La sera del 7 agosto una burrasca seguita da tempesta sorprese la flotta che aveva le ciurma a terra e non potè prontamente manovrare per salvarsi. Agostino Barbarigo, riorganizzatore dell’armata veneziana ed ora al seguito del Veniero, si diresse al largo arrivando a Milazzo con molti danni che riparò a Messina. Il comandante Veniero non potè fare la stessa manovra, diverse galere si fracassarono e di esse solo si recuperarono parti dell’armamento, mentre i forzati ai remi approfittarono per fuggire. Lo stesso comandante rischiò la vita: la sua nave fu spinta – alla volta di un ricetto di mare di piccol bocca chiamato dalle genti la grotta di Tropea, et la sua perdita, insieme con la morte di quanti homeni vi stavano sopra, era di maniera vicina, che ogni uno supplicava il generale, che, o col copano, o per altro modo procacciasse la sua propria salute, e mentre egli al pubblico interesse la vita sua posponendo stava solamente intento allo scampo della sua galea, et rifiutava ogni partito di salvezza di sé medesimo, Girolamo Contarini, giovane veneziano (uno dei due nobili di galea) nipote di lui, pigliato uno Agnusdei di cera benedetto dal Papa, et detta la orazione dominicale, et la salutazione angelica, non appena lo ebbe gittato in mare, che la galera prestamente girandosi, fu dal vento,con la puppa avanti, senza nuovo scontro sentire, condotta nella grotta, da cui quando fu poi ella per essere cavata bisognò per cagione di quella stretta uscita levarle tutti i remi, i quali nello entrarvi stettero sempre fermi ne i propri luoghi senza patirne offesa in alcuna lor parte.- Escludendo che quel –ricetto di mare di picciol bocca- sia l’anfratto sotto l’Isola, esso si identifica con la grande grotta -sotto i Gesuiti- che verranno dopo ed all’epoca raggiunta dal mare, poi coperta dalla sabbia ed oggi sotto e dietro gli archi di cemento proprio nella curva di fronte all’ingresso del lido S. Leonardo. I miracoli cominciano ad operarsi a partire da Tropea, buon viatico.

D’altra parte P. Toraldo ci ricorda che – All’appello del Papa Pio V, tortonese, seguì l’apostolica propaganda degli ordini religiosi in particolar modo di quello serafico. In esso appunto dobbiamo ricercare coloro che spinsero Tropea a dare sì largo contributo alle armate cristiane-. In quel momento a Tropea i Francescani erano presenti con i Conventuali dove è il liceo scientifico, i Cappuccini ancora a Vicce dove resistono le opere murarie ed i Riformati all’Annunziata dove erano arrivati abbandonando il dirupato convento nell’alta valle del torrente la Grazia. Ad essi si aggiungeva l’ordine dei Minimi di S. Francesco di Paola da poco insediato ad oriente della città, quando la strada che vi conduce si prolungava verso il sottostante mare con un sentiero ora eliminato e portava ancora al convento di Santa Maria della Grazia, visibile chiaramente in una stampa di fine Ottocento.
Tanti condannati alla galera o a morte furono imbarcati d’ufficio anche perché non costavano niente.
Il Veniero lasciò Tropea molto rattristato per i danni subiti, anche se in parte trovò con difficoltà quello che cercava. Gaspare Toraldo, barone di Badolato, si imbarcò sulla nave Pasqualiga con i suoi arruolati che vengono indicati in milleduecento, si aggiungevano quelli raccolti da Prospero Colonna e Soriano e quelli imbarcati su altre navi, facendo salire il numero dei Calabresi a diverse migliaia. Gli storici o meglio cronisti -pro domo sua- di questi fatti precisano che la nave del Toraldo – Non doveva essere quella che alzava per insegna un passero, sopracomito Luigi Pasgualigo, e posta nel centro dello schieramento dell’Armata, ma quella dell’ala destra agli ordini di un altro Pasgualigo, Antonio, che recava per insegna una nave in mare, ……..poiché egli si trovò a contendere proprio con Occhialì che era il capo dell’ala sinistra turca.
P. Toraldo ( Orme Francescane) aggiunge che – Un tropeano, Gaspare Toraldo, sacrificando alla causa santa tutto il suo avere per approntare a sue spese tre galere, ottenne da Dio la grazia d’essere il primo a mettere il piede su una nave turca e piantarvi la bandiera della Chiesa-. Si tralasciano qui i nomi degli altri calabresi illustri che svolsero opera pari a quella del Toraldo. Ogni paese si cerhi o inventi i suoi.

GLI ORDINI RELIGIOSI


Gli ordini religiosi non si limitarono a sollecitare preghiere per la santa crociata ed a promuovere processioni e magari a raccogliere fondi. Alcuni fra loro videro confratelli imbarcarsi per proseguire più da presso le preghiere e la benedizione ai combattenti: la crociata era una guerra santa, visto che questa è tornata tragicamente di moda nell’attuale terrorismo che si richiama all’Islam contro l’Occidente Infedele. – la nostra Confraternita non solo attese a pregare processionalmente a seconda degli inviti del S. Pontefice per la buona riuscita del santo proposito, ma non pochi dei suoi Confratelli accorsero sotto la bandiera del capitano D. Gaspare Toraldo giovine barone di Badolato sul Jonio, e fecero parte con gli altri calabresi degli armati della Santa Lega a combattere per la religione e per la civiltà, onde la mercè della vergine SS. del Rosario si ottenne in Lepanto il glorioso trionfo-. Parole di chi scrisse la storia della Confraternita del Rosario di Catanzaro.

LA MENSA VESCOVILE
Certamente il vescovo di Tropea ( guai a dire di Tropea ed Amantea) avrà pure lui benedetto e celebrata messa per la flotta pontificia condotta dal navarco Colonna.
In queste note il vero obiettivo è la ruberia continuata ed aggrvata del pubblico denaro che la nostra classe cosiddetta politica perpetua legalmente estendendola agli affiliati di ogni rango. La corruzione all’epoca era un cancro, come oggi, sotto i paesi della Croce e della Mezzaluna, qui ancora più marcata. Di fronte ad ogni pubblico edificio, una forca risolverebbe il problema momentaneamente come dimostra la storia anche delle rivoluzioni in Europa. Una maniera di essere feudatari-parassiti è quella della trasmissione ereditaria delle arti e mestieri ben pretendati che sempre si aggiorna, come abbiamo visto. Da Capialbi sappiamo che nel 1566 divenne Vescovo di Tropea Felice de Rubeis pugliese di Troja, avvocato ed ispettore del fisco per conto di Filippo II. Rimasto vedovo, vestì gli abiti ecclesiastici ed il sovrano subito, (in forza del regio patronato sulla chiesa del viceregno mutilato, la legatio apostolica in Sicilia è altra cosa) lo aveva candidato alla cattedra di Potenza segnalandolo a Pio IV grande nepotista ed intrallazzatore di prebende come oggi certi nostri politici che in niente differiscono dai peggiori papi, in quanto ce ne furono pure alcuni degni. Ci troviamo di fronte ad una successione continua di papi-Pio- Il IV Pio prima per moralismo fece giustiziare i fratelli Giovanni e Carlo Carafa nipoti beneficati da Paolo IV Carafa che lo aveva preceduto. Ma la moralizzazione servia a sfoltire i ranghi per i suoi parenti che numerosi vennero o nominati cardinali o latamente pretendati e commendati. Il vescovo de Rubeis era ammalato, non prese mai possesso fisico della sua sede, anche se i ricchi introiti della mensa vescovile gli pervenivano regolarmente ad ingrassare i suoi nipoti che riconoscenti l’anno dopo la morte gli dedicarono un epitaffio che conclude: Nepotes- avo- benemerenti- posuere-. Il minimo che potevano fare per tutti i tesori che involati da Tropea passarono nelle loro tasche.

PREBENDE E COMMENDE


Siamo in un periodo durante il quale la immonda pratica delle prebende e commende a favore di stranieri, laici ed ecclesiastici, spogliò la Calabria di tutto. Così finì Sant’Angelo di Drapia. Fra poco un Borromeo di Milano potrà mettere impunito le mani sugli antichissimi archivi religiosi della Calabria, da corsaro saccheggiando preziosi codici miniati: da essi prese origine la oggi - Veneranda Biblioteca Ambrosiana- dove lavorò a lungo il vescovo tropeano Agostino Saba. Il nostro vescovo morì nel 1568 ed il successore non fu subito nominato anche se gli aspiranti raccomandati non mancavano. Per fortuna questa pratica almeno oggi non esiste. Nel frattempo a Pio IV era successo Pio V che era stato -grande inquisitore- e continuò ad applicare le norme del Concilio Tridentino che era stato interrotto nel 1547 e riaperto ai primi del 1562, fu concluso l’anno dopo. Egli fu un religioso austero ed impose che ogni vescovo rispettasse l’obbligo di residenza, possibile se non si davano loro dalla Curia stessa altri incarichi anche all’estero, nel qual caso la sede vescovile era chiaramente un premio anche in denaro per le capacità proprie.
Quando moriva un vescovo o veniva trasferito nella vacatio poteva reggere la sede un Vicario capitolare, se eletto dal capitolo, un Vicario Apostolico se inviato dalla Curia romana: dipendeva dalla situazione del momento e la scelta poteva essere anche determinata dalla volontà di favorire qualcuno anche rinviando la nomina del vescovo. L’esempio odierno di commissari provvisori in enti pubblici poi diventati eterni, non bisogna cercarli lontano. Anche quando hanno avuto breve durata si chiede se non sia un fatto…..scandaloso i’onerario di decine di milioni di euro per due o tre anni. Il loro onorario diventa un onerario per i contribuenti che vedono in ciò una rapina. .

IL COMMISSARIO

- Dopo la morte del De Rubeis un Commissario del Nunzio Apostolico aveva posto le mai su i frutti della mensa Tropeana, ed aveva financo introitato ducati centocinquanta; per cui il Viceré, e il Consiglio Collaterale ordinarono alla Regia Udienza di Calabria, che ricuperasse tal somma, e non facesse più ingerire il detto Commissario nell’amministrazione della mensa.
Il capitolo Tropeano scelse nella vacanza della sede per Vicario Capitolare l’istesso decano Annibale Barone. ( Capialbi)
Meno male che quando Veniero venne a Tropea in cerca di uomini e viveri, era in sede il nuovo vescovo de Rusticis, quel Commissario avrebbe venduto schiavi al veneziano i membri delle famiglie dei vassalli dati in proprietà alla chiesa tropeana alla rinascita con i Normanni, come allora si usava.

A MESSINA

Al concentramento a Messina mancava il Comandante generale D. Giovanni d’Austria, naturale di Carlo V, nominato dal fratello Filippo II che nel congedarsi avrà raccomandato se non proprio di evitare la battaglia non a lui, ma ai potenti consiglieri postigli accanto, almeno di procurare la distruzione della flotta veneziana, pensiamo col nefasto tacito augurio che il fratellastro, non potendo evitare lo scontro, si coprisse si di gloria, ma cadendo in battaglia. Tante mosse danno fondamento al sospetto. Don Giovanni partì da Barcellona e passando per Genova unito al Doria giunse a Napoli come se fosse in crociera turistica, senza fretta tra balli, danze e dame.. Qui fu accolto con grandi festeggiamenti dal Granvela, nel frattempo divenuto viceré di Napoli, e si intratteneva in feste e piaceri e solo il sollecito del Papa, che in questo frangente da gallo ben conosceva i suoi polli, lo indusse a partire. Prima prese la benedizione del certosino frate Giovanni Mazza da Monteleone, in odore di santità, che già era stato ossequiato da suo padre Carlo V al ritorno da Tunisi trentasei anni fa.


RE IN EUROPA E SULTANI IN ORIENTE



Abbiamo nominato l’anima nera del Granvela ed il giovane e ribollente don Giovanni. Lasciando il primo, qualche nota biografica sul secondo in rapporto alla vita privata dei cattolicissimi re di Spagna, e dei sultani difensori di Allah che erano anche califfi e quindi a capo di tutto l’Islam di osservanza sunnita.
Ferdinando d’Aragona ( il cattolico) fu il preferito sposo di Isabella di Castiglia in circostanze avventurose, ( matrimonio clandestino ed in bolletta con denaro in prestito e con il rischio di essere catturati), tale unione produsse una grande Spagna protesa verso il Mediterraneo, mentre se la regina avesse scelto il vecchio re del Portogallo la Castiglia si sarebbe data in anticipo alla cura dell’impero oltremare lusitano formatosi prima di quello spagnolo. La preoccupazione dei due regni uniti di Aragona -Catalogna- Valencia e Castiglia- ( rimasti con i propri ordinamenti interni fino alle tensioni recenti) fu quella di liquidare l’ultimo lembo di dominio islamico nel sud conquistando Granada, e questo avvenne con Santa Fè, citta lì fondata con valenza militare e religiosa.
Ferdinando, cui il papa per la sua lotta contro gli infedeli conferì l’appellativo di –Cattolico-, ebbe un figlio fuori dal matrimonio o naturale, bastardo si diceva con significato che non era sempre dispregiativo. Gli diede il nome Alfonso che rinnovava l’omonimo aragonese che verso il 1442 aveva posto fine al Regno angioino di Napoli, dopo che oltre 150 anni prima sempre un re aragonese lo aveva – mutilato- togliendolgli la Sicilia a seguito della Guerra del Vespro, che non scoppiò per caso in quel momento. Di solito a tali figli si riservava formalmente la carriera ecclesiastica, non partendo dall’apprendistato seminarista, ma riservando ad essi le rendita di ricchi vescovati e prima della pubertà già il titolo di cardinale, fermo restando il nessun obbligo di conformare a tale stato la loro vita privata, caso già raro nell’ordinaria amministrazione.
Il nipote Carlo V come imperatore e Carlo I come re di Spagna, ben conosceva questa usanze e si trovò a doverle fronteggiare di persona anche se seppe usare molta discrezione per i figli extra o naturali come oggi si dice( perché quelli dal matrimonio non si producono anche in modo naturale? O forse ormai l’appellativo vale per entrambi di fronte alle nuove tecniche che avanzano fino alla partenogenesi maschile e femminile?) Un libro su – LA BATTAGLIA DI LEPANTO –di JACK BEEKHING è stato pubblicato nei – Tascabili Bompiani - nel 2000. Non aggiunge niente che non si sapesse, perché in effetti esso è una biografia allargata di Don Giovanni bambino ed adolescente nelle vicende della corte spagnola ed europee del secondo ‘500.

CARLO V

Carlo si sentiva investito dalla missione divina di combattere i Luterani nel nord della Germania e soprattutto i Turchi ad Est, oggi vocazioni simili vengono chiamate missioni storica del –nostro popolo nel mondo-. Con i secondi ebbe alterne vicende ma alla fine bilancio negativo: dopo la presa di Tunisi ed il trionfante viaggio via Napoli attraverso la Calabria, prese la batosta di Algeri che dissanguò la Spagna riuscendo a stento ad evitare di essere catturato o la morte. Rientrò con la coda tra le gambe a Madrid per leccarsi una grande piaga, senza giro trionfale nei suoi possedimenti. Con i primi tentò sempre un compromesso anche se ciò significava di fatto riconoscere lo sganciamento dalla sua autorità e dalla Chiesa di Roma dei Principi luterani. Alla vigilia della battaglia di Muhlberg ( ritratto di Tiziano che in mancanza di Hegel lo ritrae fiero, feroce, corrusco, come lo spirito del mondo a cavallo) si portò nella città fortezza di Ratisbona in vista dello scontro armato con gli stessi guidati dal principe elettore di Sassonia. La città si trova sul corso più a nord del Danubio alla confluenza del Regen ( Regensburg) quel Danubio che fra poco sarà raggiunto da Solimano fino a Budapest con l’Ungheria, e quardando a Vienna lo stesso fiume poteva diventare la via di penetrazione come lo era stato per la battaglia di Moacs. Con i Romani divenne sede della III legione nella Rezia. Divenne cristiana verso il VII secolo e città libera durante il medioevo. Nel 1541 proprio qui di fronte al famoso ponte di pietra a sedici archi sul Danubio risalente al XII secolo, l’imperatore aveva promosso un – pour parler- tra cattolici e luterani le cui conclusioni furono respinte da Lutero e dal Papa, L’anno seguente la città passò alla riforma che metteva in pericolo tutta la Baviera. Non restavano per Carlo che le armi contro i luterani mentre i Turchi accampavano minacciosi dove il Danubio piega a sud. da Buda a Belgrado. Seguirà la battaglia ricordata del 1547 presso il corso dell’Elba con la disfatta completa dei Luterani ed il Concilio di Trento aperto da due anni per la riforma morale della chiesa che mai avvenne e per riaffermare la dottrina difendendola col rogo.




DON GIOVANNI
viene al mondo, 24 aprile 1548.

Quando i potenti si fermano accorrono i postulanti di ogno rango a vario titolo offrendo in cambio ciascuno i propri servizi in rapporto alla propria possibilità e richiesta che può essere la più diversa. Alla sua tenda si presentò una signora Blomberg per chiedere una spinta alla vita per i suoi tre figli, come accade oggi per tanti genitori ansiosi di vedere i figli sistemati. Ed anche oggi può capitare con metodi che non si discostano tanto da quello qui riferito. In particolare gli presentò Barbara, ventidue anni ed aspetto seducente e comportamento senza equivoci alla disponibilità. Erano tutti in zona di guerra nel marzo del 1547 in prossimità della santa Pasqua: la madre con la figlia già da tempo – le strofe di taverna le cantavano a ninna nanna-. Allietò col canto la cena di Carlo e poi lo consolò durante la notte sollevandogli lo spirito abbattuto per i suoi malanni fisici e preoccupazioni politiche che gli davano i luterani vicini ed i turchi non tanto lontani. Il loro rapporto di parecchi mesi fu – uno scandalo al sole- per il carattere di lei ed nel frattempo ci fu (24 aprile 1547) Muhlberg sul lato destro dell’Elba attraversato con un’audacia della fanteria spagnola, a nord ovest di Dresda dove fu annientata da Carlo la Lega Smalcalda e l’elettore di Sassonia. Considerando la nascita del bambino ( 24 febbraio 1548) restò con lui anche dopo la battaglia e Giovanni fu concepito ( se figlio di Carlo) un mese dopo durante il riposo del guerriero che si preparava ora ad un confronto diplomatico con i luterani che lo vedrà sempre perdente su tutti i piani fino alla pace di Augusta che annullò Muhlberg e sancì alla fine la situazione di fatto, che fu il fallimento del suo antico programma imperiale oltreche della chiesa cattolica incapace di rigenerarsi all’interno nonostante le sferzate della varie-eresie- che attecchirono per sempre. Ma il bambino nacque con gli occhi azzurri ed i capelli biondi che non rimandano a Carlo V, conoscendo l’indole materna l’autore del ricordato libro solleva ironicamente dubbio sulla vera paternità che oggi il DNA potrebbe risolvere per sempre essendo entrambi sepolti all’Escorial e vicini. Non è certo il caso della donzella che incinta stava per diventare moglie di Garibaldi per attribuire a questo la paternità. Bisogna invece valutare per la storia delle religioni quale tra Muhlberg e Lepanto rappresenta maggiore fallimento e prova del vero significato dello scontro: difficile fare due livelli. Ai fini nostri la paternità di Giovanni non ha importanza perché all’epoca nessuno sollevò dubbi. Per inciso si ricorda che la precedente figlia naturale di Carlo sposò un Farnese e divenne Margherita di Parma e fu madre del soldato comandante Alessandro Farnese al servizio della Spagna. A Parma toccò il ruolo di consolazione per le donne europee con destino particolare, la madre del primo Borbone di Napoli e poi Maria Luisa d’Austria quando Napoleone fu confinato a Sant’Elena. Don Giovanni fu allevato in Spagna sotto falso nome e quando uscì dalla –clandestinità- si impegnò contro le ultime resistenze islamiche a Granata e contro gli ebrei considerati marranos.

IL CONCENTRAMENTO A MESSINA


Ora lo riprendiamo al comando della flotta di Spagna e Genova verso Messina dove l’attende impaziente il Colonna ed adirato il Venier. Si fermò pur esso a Belvedere Marittimo per imbarcare Cecco Pisani che sarà esperto marinaio,piloto, ricognitore nella navigazione verso il nemico nelle insidiose acque di fronte al golfo di Patrasso sia per natura che per le trappole che potevano apprestare i Turchi. In una specie di libretto non d’epoca ma recente addirittura c’è chi scrive che il merito di Lepanto è da attribuire proprio a lui. A noi bastano le fanfaronate dei nostri aedi tropeani. Si tenga ognuno i propri.
Passando la flotta davanti a Capo Vaticano arrivò a Messina il 23 agosto 1571, un mese dopo Veniero. Bisogna valutare cosa significava allora da tutti i punti di vista tenere una flotta con migliaia di imbarcati ferma in un porto nella calura estiva: spese enormi di derrate alimentari, pericolo serio di epidemie ed infezioni gravi, diserzioni, appesantimento degli scafi, e non ultimo essere spiati e contati dal nemico.
Il Veniero doveva certo controllare la sua collera e non dare scuse allo sfascio della spedizione, era in gioco la vita stessa di Venezia che dava ai comandanti ordini precisi prima della partenza, oltrepassandoli si dovevano più che giustificare. Si tenne un consulto militare sulla Capitana e vi partecipò il conte Bisballe di Briatico che allora era quella edificata in collina-costone del torrente Murria ed abbandonata dopo il 1783. Sappiamo dalla sua corrisponda privata che Don Giovanni non giudicò all’altezza del compito le navi di Venezia ritenendone tante fragili. Prefigurando uno scontro frontale a mezzaluna si studiò la tattica per non essere aggirati e circondati dai vascelli turchi. In base alle ipotesi di allineamento cercarono di prestabilire a chi toccavano i corni essendo scontato che la Real Capitana ( ora al Museo Marittimo a Barcellona) con Don Giovanni e le galeazze veneziane con lo stesso Venier si sarebbero disposte al centro per affrontare il comandante turco Alì Pascià. Si sapeva pure della insidiosa capacità tattica di Occhialì che non sarà smentita.
Intanto si erano persi ancora oltre venti giorni. Dopo i soliti riti religiosi la flotta si schierò per la partenza: -duecentotre galee, trecento vele, sei galeazze, cinquanta fregate e una trentina di navi con soldati e vettovaglie, fornite di milleottocento quindici cannoni, ventottomila soldati, dodicimila novecento venti marinai e quarantatremila cinquecento rematori: una flotta come mai si era vista altra, pronta ad affrontare quella allestita da turchi in maniera più imponente di ogni precedente. Famagosta era caduta, la flotta turca raggiunse lo Ionio. Le due flotte cominciarono a spiarsi con veloci imbarcazioni per scegliere ognuna la sua strategia. Don Giovanni ancora si trastulla in cerimonie: domenica 16 settembre tutta la flotta in giolito si staziona in mare di fronte a Messina per ascoltar messa celebrata a terra sulla costa siciliana di fronte alla sua nave, e nel salutare con salve il momento della Consacrazione alcuni cannoni dovevano essere armati se morirono una ventina di persone. Le navi sfilano al largo benedette dal Nunzio Pontificio Giulio Maria Odescalchi, non per niente era una guerra santa. Dalla opposte sponde una folla assisteva allo spettacolo con la Fata Morgana. Accostando a sinistra verso la fossa di S. Giovanni davanti a Pellaro, allora di fatto porto di Reggio, si avvicinano i sindaci della città con omaggi e rifornimenti alimentari. Reggio aveva subito e subirà ancora orrendi saccheggi turchi alla fine del secolo, da qui la sua trepidazione alla vista di quell’armata che faceva nascere la vana speranza di non vedere più all’orizzonte navi pirata. Le navi si dirigono in mare aperto, ma siamo oltre metà settembre. Le anime nere ispirate dal Granvela contano già sullo scioglimento dell’armata senza combattere. Una tempesta avrebbe fatto saltare tutto.


MITOLOGIA E VITA


La risalita al largo della costa calabra è lenta per il vento e la necessità di procedere con cautela spiando con Cecco Pisano la posizione di Alì Pascià, comandante turco, che con agili imbarcazioni pur esso spiava per evitare la flotta nemica o sorprenderla nel tratto di mare a lui più favorevole. Cosa lasciavano a sinistra in Calabria i crociati? Si naviga intorno alle disastrate foci delle fiumare che si dipartono dall’Aspromonte ed allargandosi come i raggi dal centro arrivano al mare, le navi passano davanti a Melito Porto Salvo dove poi sbarcò Garibaldi con i suoi volontari di preminente origine lombarda – bergamasca . Proseguendo la risalita con navigazione di cabotaggio le navi sul lato sinistro potevano vedere sull’alto dei promontori le numerosi torri di guardia e d’avviso, qualcuna caserma con stazionamento fisso di soldati e cavalli, costruite ed in costruzione. Queste avvertite sulla natura delle centinaia di legni grandi e piccoli che sfilavano sotto di loro come in rassegna militare, non si davano a fare fumo o fuoco per allarmare popolo e presidi militari contro i pirati. Ma tali torri abbandonate stanno andando quasi tutte in rovina, anzi alcune sono state deliberatamente demolite perché imbrattavano la città ( come il castello di Tropea o la torre nel centro di Siderno ) o per destinare ad altri usi la loro pietra: nella Calabria ricca di storia e monumenti ci possiamo permettere pure questo. Più avanti si trovò la flotta davanti a Capo Bruzzano – Zeffirio: all’inizio del 1900 la strada oggi chiamata 106 dopo Brancaleone Marina si inoltrava verso l’interno per la difficoltà di superare la costa che si alza ripida e direttamente dal mare come da noi tra Coccorino e Joppolo fa il Poro. La ferrovia di fine 1800, posata prima di quella tirrenica, seguì la costa non potendo superare salite e tornanti. Questi invece venivano proposti dal Comitato Ferroviario Monteleonese in quegli stessi anni, sorto per chiedere che la ferrovia Battipaglia-Reggio C. non passasse per Tropea- Capo Vaticano- Nicotera, ma attraverso un tortuoso transito lungo il Mesima superasse il Poro arrivando all’Angitola, non essendoci all’epoca la tecnica e le risorse per il tracciato recente Eccellente-Rosarno. Sullo Ionio in seguito anche la strada fu tracciata lungo la costa e da qui è possibile scorgere sul bordo di Capo Bruzzano la torre di guardia che vide sfilare la nostra flotta. Sfilando un po’ al largo ed ancora esaltati per le cerimonie su entrambi i lati dello Stretto, i crociati risalivano lo Ionio lasciando a sinistra la foce dei ripidi torrenti a precipizio dall’Aspromonte e le loro marine abbandonate, in preda alla malaria e pirateria. In alto sui monti a calanche si vedevano i piccoli paesi collegati da tratturi solo somabili come quello che ancora si può leggere sopra la costiera tra Coccorino e Joppolo. Avvenivano forse saluti con fumo dalle torri costiere raramente armate e la flotta che pareva dir loro di prepararsi al riposo perché il turco sarebbe stato eliminato da quelle marine. Il promontorio di Bruzzano è di una rara bellezza e conformazione e la sua altezza mostra ad oriente lo Ionio splendente e disteso sotto il sole che trovandosi da sud ovest permette di fissare con sopportabili abbagli il luccichio fascinoso delle sue acque che ne riflettono la luce. La sua punta a crinale verso la torre è quella della schiena di un cavallo oppure di un asino per ricordare il nobile animale che qui per secoli e fino alla metà del 1900 è stato per l’uomo di grande aiuto prima di moto ed ape. Con l’auto ad esso si può accedere da sud attraverso una pericolosa strada sterrata e da nord con una di cantiere agibile anche da automezzi pesanti.
Noi non sappiamo se sulle navi in transito ci fosse qualche cultore della Magna Magna Grecia e di quello che da Capo Zefiro all’attuale Locri e Gerace c’è in superficie o da scavare. Ma certo, se l’eventuale cultore crociato fosse stato uno degli zelanti e ipocriti funzionari spagnoli messo alle costole di don Giovanni per distrarlo dalla scopo ufficiale dell’armata, arrivato a capo Bruzzano avrebbe potuto con ragione fermarla per fare una visita ai grandiosi resti magno greci che si trovano sul crinale dietro la torre ed alla dea Diana cui furono dedicati per i suoi sacri lavacri con le ninfe che solo Giove e gli dei dall’alto potevano da guardoni scrutare ignude. Ma questi che fra poco vedremo riuniti per prendere atto che mai gli uomini ascolteranno gli insegnamenti di qualsiasi divinità, compresi i loro principali sacerdoti, li aspettavano più avanti per non distrarsi dalle loro incombenze.
Io invece ebbi la fortuna, non – in sogno di una notte di mezza estate- ma in un chiaro ed afoso meriggio di matura primavera, di imbattermi nella visione di tali grandiosi resti architettonici a tutti sconosciuti e forse a me rivelati per convincermi di che cosa è capace l’uomo quando è guidato dalle muse dell’arte per onorare gli dei. Arrivando verso la torre da sud lungo un tratturo-crinale pericoloso, mi fermai a terra con la schiena ad un albero bisognoso di fresco e di riposo. Ero tentato dal sonno, fui svegliato dalla visione a duecento metri di una megalitica struttura dalle cui fondamenta si alzava una selva di pilastri e colonne che mi abbagliavano, e credevo che fosse un miraggio sapendo di trovarmi nella Locride ozolia calabrese. Gli occhi increduli si chiudevano aiutandomi nello sforzo di ricordare se mai fonte letteraria da me conosciuta avesse posto in quel punto un così splendente santuario. Rimproverandomi per l’ignoranza, per un momento mi vinse il sonno che mi piegò il capo sul petto con gli occhi serrati, sollevandosi di colpo come accade in macchina colti dal brivido del pericolo, mi accorsi che dentro i quadrati e rettangoli formati dalle fondazioni scoperte, c’erano tanti piccoli laghetti anch’essi - al sole splendenti come smeraldi-, al posto di scogli mancanti nel mare sottostante. Tra lieve veglia e colpi pesanti di sonno non separavo più la realtà non dalla fantasia, ma dai miti greci cominciati appena a conoscere nel Liceo al quale dovremo tornare. Mi apparve nel sonno Diana al bagno con le ninfe come tanti pittori l’hanno immaginata e ritratta e tutti quei pilastri e colonne mi apparivano alberi con le chiome ombrose. Con sforzo aprii gli occhi e vidi una figura ricurva con bastone che si avvicinava all’acqua e quasi forse gli gridai di allontanarsi per evitare di essere sbranato dai cani come Atteone. Tutto tornava e nel delirio pensai che si trattasse di scavi in corso non ancora illustrati alla stampa dopo anni come quelli di Tropea, e che i Romani avessero aggiunto alle colonne greche i loro pilastri riprendendo il santuario per i loro dei come poi i cristiani per i propri. Veramente nel sonno per cinque minuti, fui quasi svegliato dal muggito di un toro che saliva alla radura da un anfratto ombroso e si avviava a bere in quei laghetti. Feci uno sforzo per la stanchezza, e per i decenni trascorsi dalla lettura di qualche passo di Tucidide, per localizzare dove nella Grecia classica si trovasse la Locride Ozòlia, perché mi trovavo proprio sul promontorio Zefirio e la Locri Epizefiro fu colonia dei Locresi Ozòlii, ad est proprio di Lepanto che fu loro sottratta dagli Ateniesi che la posseggono e la usano come base navale di interdizione alla flotta della dorica Corinto, durante la guerra del Peloponneso. Potevo continuare a dormire con momenti di debole veglia: tutto ancora tornava, nessuna meraviglia nella terra che prima trasse il nome Italia da Italus o Vitellus. Erano bestie belle e direi atletiche. Come ricordo subliminale mi passò davanti il rebus – I vitelli dei romani sono belli- sfuggendomi che è costruzione latina per ingannare gli studenti. Invece la collina col toro mi fece ricordare con certezza che nell’Antigone uno dei primi interventi pesanti del coro ricorda all’anfiteatro quanto può l’uomo, anche sottomettere ed addomesticare il toro montagnolo ( ou’reiòn t’ a’kmeta tauron ) ma non controllare il proprio cuore di fronte agli affetti familiari che richiamano ed obbligano, pena empietà e sacrilegio, con legge non scritta ma superiore a quella scritta, a compiere le conseguenti azioni che gli dei comandano: Antigone non poteva rassegnarsi a lasciare insepolto il fratello Polinice pur sapendo la condanna di Creonte che dalla sciagura della sua famiglia era stato fatto re di Tebe e lei lo chiama soltanto stratega, non riconoscendolo basileus. Emòne, figlio di Creonte, di lei innamorato con vincolo non ancora di fatto, ma di cuore al completo, non vuole sopravvivere alla stessa e paga con la vita sulla tomba dell’amata la disobbedienza a Creonte che cerca di pugnalare, nella duplice veste di padre e titolare della legge che in nome dello stato tebano ritiene far rispettare, duplicando Antigone. Lo scontro tra padre e figlio inascoltato sull’ossessione ed abuso del potere è la vera novità dell’Antigone, la cui fine rientra in una visione classica e ciclica del trittico tragico greco. Ascoltino i nostri governanti grandi e piccoli, che ogni giorno compiono sacrilegi, l’anticipo del coro - Lume della mente, mani artefici senza limiti: ecco l’uomo. Pure scivola nel vizio. Tende a virtù se attua codici terreni e retti patti di divinità. Allora è colonna dello Stato: stato non ha chi è intriso d’arroganza, d’immoralità. Non voglio tra le mie pareti, non voglio nella mia amicizia chi tanto osa.- Ant. 366-375. Se non l’hanno ascoltato si ricordino della conclusione – Ragionevolezza è base, base prima di buona vita. E’ obbligo evitare sacrilegio. Altera lingua di sfrontati paga prezzo di altissima rovina. Poi riconosce- nell’età vecchia- la ragione- Ant. 1348-1353. Trad. di Ezio Savino, Garzanti. -

Creonte assume consapevolezza che di ogni colpa si paga il fio e si prepara ad accettarlo: lui non può fare ciò che anche a Giove è vietato, fermare le Erinni ed il Fato che lo aveva portato al trono di Tebe con la distruzione violenta, da lui assecondata, dei discendenti di Laio. La tragedia greca è rimasta insuperata perché ha ragione Tucidide Ateniese quando afferma che l’uomo non cambia più nei secoli e quindi quello che dice varrà anche per il futuro: la vita non è il trionfo nella gara di un giorno. Aristotile affermerà che –la tragedia per mezzo del terrore e della paura libera l’uomo da queste passioni- ma non mi è chiaro se lo induce a non aver timore delle conseguenze stesse o non ingenerarle negli altri per vizio proprio. Potrebbe spiegarlo Alessandro figlio di Filippo,che da lui istruito mise insieme tutte le forze militari e culturali della Grecia e travolse fino all’Indo quella potenza Meda-Persiana che da un secolo come un macigno minacciava la Grecia più che la spapa di Damocle, facendo intendere a tutti gli scrittori, artisti e filosofi, sacerdoti della Grecia che la vera tragedia di questa nei suoi millenni fu proprio la passione per una piccola patria –città nonostante l’affinità completa di lingua e religione. Le conseguenze, ripetute in Sicilia e Magna Grecia, non insegnarono niente per lunghi secoli all’Europa greco latina e cristiana fino alle orrende tragedie tra gli Stati ed al loro interno con il loro culmine nel ventesimo secolo. Ecce homo di Giove, Javé, Cristo e Maometto.
Tra un colpo di sonno e l’altro credevo si stesse preparando la scenografia per rappresentare il pensiero del coro che in questa opera ha parte di rilievo insolito proprio per quel contrasto. La tragedia riprende – I sette contro Tebe- di Eschilo, perché ad una delle sette porte della città si uccisero Eteolcle e Polinice, figli incestuosi di E’dipo e Giocasta, il primo non voleva cedere il trono di Tebe al fratello secondo i patti e Creonte ne era lo stratega, come lo chiama con disprezzo Antigone. Le porte in un lampo mi ricordarono quelle distrutte di Tropea non dagli assedianti ma dai sindaci demolitori, lo stesso nome della nostra città mi ricordò che all’inizio dell’opera il coro occupa completamente l’orchestra e nel raccontare la tragedia di Tebe che deve difendersi dalla spedizione argiva di Polinice parla di – e’ptà lokagoì gàr eph’éptà pùlais- takthéntes ìsoi pròs ‘isous èlipon – Zenì TROPAIO pànkalca téle,-: Sette capi contro sette porte: duelli in equilibrio, e al dio della disfatta lasciarono regali di metallo pieno-. Questa la traduzione libera, discutibile e sfasata di un testo della Garzanti, ma non rende giustizia al significato sofocleo che accende la tragedia: Sette capi, (condotti da Argo e disposti da Polinice che rivendicava i suoi diritti su Tebe: succedere al fratello Eteocle, che teneva come stratega lo zio Creonte fratello di Giocasta, dopo un anno di regno con una procedura presente in altri miti greci come ??) disposti contro le sette porte, (difese da sette capi tebani a loro volta disposti da Creonte che approfitta della strategìa per mettere i fratelli alla stessa porta nella speranza esaudita di eliminarsi a vicenda e divenire per diritto ereditario re) gli uni contro gli altri , lasciarono a Giove TROPAIO offerte di metallo prezioso-
Quest’ultimo è costituito dalle armature di bronzo e rame portate dagli Argivi di Polinice che aveva sposato Argia, figlia di Adrasto, re di Argo. Il popolo di Tebe cadmea ed i suoi capi, in primo luogo Creonte ormai re della città, abitata da quelli nati dai denti del serpente disseminati da Cadmo, può usare quelle armi, almeno il dieci per cento, per erigere un TROPHEUM a Giove Tropaio, (da trepo e non trefo), Versorius, che col suo favore mette in fuga il nemico facendolo girare indietro, volgere le spalle abbandonando le armi che il vincitore in parte appende al trofeo stesso per grazia ricevuta. Il trofeo poteva avere la semplice forma di due pali incrociati o essere qualcosa di molto elaborato come quello di Augusto dopo Azio e qui ricordato. In quello stato di confusione per la stanchezza che si convertiva in colpi di sonno, i ricordi delle letture anche dopo cinquanta anni erano come secchi di acqua fresca dopo un’insolazione. Mi ricordai del nome – Tropea- già discusso in un capitolo precedente, di come ancora si invoca e si rigrazia Dio Allah per affrontare il nemico, -Dio lo vuole!- che cosa ? la strage degli innocenti?, Allah è con noi, con chi? con coloro che rapinano ed uccidono in nome della fede del profeta? Nelle due versioni a nord ed a sud del Mediterraneo in che cosa è diversa la divinità da Giove tropaios-versorius? In niente nei fatti, la decima dei trofei e la decima della rendita per i templi veniva chiesta ancora, a mia memoria, fino a poco tempo fa nel nostro mai abolito Regno delle due Sicilie, da alcuni proprietari di Tropea, forse in ricordo del loro Tropaios.
Ma nei –Sette contro Tebe- di Eschilo all’ultima porta non ci fu vincitore, i fratelli cadono entrambi, ad Eteocle onori solenni di stato, per Polinice divieto assoluto di sepoltura come traditore della patria ed equiparazione in tale infamia con lapidazione popolare per chi lo avesse seppellito. Antigone si appella alla legge degli affetti familiari che viene prima delle leggi positive e da sepoltura al fratello, Creonte la fa seppellire viva e sotto l’apparenza di far rispettare la legge elimina colei che proprio da suo figlio Emone, poteva far nascere un futuro pretendente al suo trono. Continua a fare il cinico ma è costretto a prendere atto dei suoi deliberati orrori dal figlio in uno scontro verbale prima e dalla decisione dello stesso di morire con Antigone, tentando di macchiarsi di parricidio, quando il padre si reca nella tomba-grotta di Antigone per cercare disperato di dissuaderlo dal morire con la stessa.

Sbattevo la testa per liberarmi da tali pesanti pensieri, ma subito apparve una giovenca e dietro ad essa un altro torello più agile che la seguiva annusandola con tentativi non respinti di salto per accoppiarsi, vanificati dalla natura accidentata del terreno. Ancora prevalse contro la mia volontà l’Antigone e mi ricordai che in essa Sofocle fa il Nome Italia. Eravamo a metà maggio che sveglia i sensi della vita e della riproduzione anche alle giovenche come sapevo bene. Seguiti subito da una piccola mandria, si vennero a trovare in un piccolo spiazzo piano al termine dell’erta, la giovenca lo scelse come alcova a cielo aperto, e rapita dal normale e naturale istinto del suo stato di estro, fu essa prima a montare sul maschio con inversione di posizione che natura ha predisposto a meglio preparare tante specie alla ricezione del seme anche con ulteriore eccitamento del maschio. Questo poi con precisione naturale trafisse lei immobile, che si offriva abbassando la schiena e scansando la coda, al primo salto con la rapidità di un’agile antilope. Accusato il colpo inarcò la schiena e si allontanò verso l’acqua dove riposava il vecchio con bastone. Nel mio stato di veglia e sogno nel sonno, quella normale scena mi ricordò che ormai nelle stalle le giovenche sono private di tanta naturale effusione con l’inseminazione artificiale. Mi domandai se anche l’umanità si avvia a selezionare ed introdurre, anche nei casi non necessari, nelle femmine il seme come alle giovenche in stalla ed a tale idea i brividi mi riportarono allo stato di quasi veglia. La mitologia e la vita si mescolarono nella memoria. La scena naturale mi fece tornare ai ricordi fissati nella memoria cinquanta anni fa, quando c’erano due mucche nella stalla a volte attaccata alla casa ( pagghjarola) di ogni famiglia contadina, tenute per l’aratro e per il latte. Di solito verso maggio venivano portate alla stazione di monta taurina e divenuto più che adolescente mi toccava condurle una alla volta con reiterate avvisi di attenzione e prudenza. La bestia in calore poteva saltarmi addosso: sempre mandarla avanti e col bastone in mano. Abbiamo già visto cosa combinavano gli asini che con i sacchi andavano ai mulini. Appressandosi al luogo del toro la mucca sentiva l’odore del maschio e si agitava a tal punto che poteva sfuggire di mano e di corsa presentarsi alla sua stalla reclamando la prestazione: il conduttore per precauzione lo teneva chiuso e lo conduceva per lo scopo all’aperto, ben legato con fermaglio al naso e fornito di bastone . Qui poteva ripetersi la scena del reciproco salto sopra descritta o anche la necessità di legare la giovenca specie se alla sua prima esperienza, nel qual caso si affidava il compito di ingravidarla ad un torello di minore stazza ma pari irruenza ed una sola volta che la lasciava insoddisfatta. Se poi l’altezza al garrese della femmina ostacolava l’accoppiamento, veniva sistemata nella – travaglia- ed una fossa sotto i suoi piedi posteriori abbassava la meta e facilitava il salto e la sua proficuità: la prestazione si pagava ed il conduttore non voleva si dicesse che i suoi riproduttori andavano a vuoto.Tutto questo per dire che l’accoppiamento non era tecnicamente libero e la preoccupazione del patrone del toro era che questi non facesse salti inutili per agitazione delle partner che in quel mese erano diverse al giorno. Per un proficuo esito tecnico e fecondatore, mentre lui avvicinava alla femmina il maschio annaspante, l’anziana moglie accarezzava quella accanto alla coda ed al momento decisivo con rapido intervento di mano proteggeva e guidava il ben proteso nervo del toro verso la penetrazione con unica violenta percussione secondo natura. Se l’operazione veniva giudicata perfetta, il toro subito, appena ricompostosi a terra veniva portato via per evitare che la femmina sfogasse la sua voglia di pur essa cavalcarlo anche se già lo aveva fatto: avrebbe pregiudicato l’attecchimento del seme in lei appena deposto. Nel dubbio lo si faceva saltare una seconda volta dopo averlo rapidamente rifocillato con una – biavata- di crusca e fave tenute a mollo. Al suo calore si assommava quello della stagione ed allora era uso portare dopo il coito la femmina alla fiumara per raffreddarla o bagnarla a profusione. Almeno per i bovini non mi è parso vero che - post coitum omne animal triste -. Il non attecchimento dell’innesto biologico avrebbe richiesto un altro incontro al vertice col toro oltre che far cadere il parto in tempi non opportuni per il latte e per il lavoro, senza contare il pagamento della prestazione che spesso veniva ritardata al conduttore. Ed allora si poteva assistere che lo stesso si trasformasse in banditore ( più avanti si parlerà del Dondularu e di Gloria banditori in Tropea mentre il pilota che ha mosso queste note sta lasciando via Lepanto per confluire in Via Vianeo lasciando a destra largo Calzerano) e girando per il paese di Brattirò di Drapia ricordava a voce alta che il toro di Cireneo reclamava la giusta mercede per la sua fatica : le mucche stavano per partorire, non c’erano dubbi sulla sua effige prestazione. Scene d’altri tempi, ormai i tori fornicano- in falsa vacca-. Forse un giorno si arriverà ad invertire con queste pratiche i rapporti di prossenèta tra uomini e donne. Pensieri in libertà vagano. Il sole era accecante, anche se non era quello mattutino del coro dell’Antigone, ma dovevo raggiungere la punta estrema di capo Bruzzano per le foto alla torre, e mi diressi a piedi per paura di spaventare la piccola mandria sacra a qualcuno e subire la sorte di chi per fame mangiò in Egitto i buoi sacri a Giove ( siamo in Magna Magna Grecia). Raggiunsi la selva di pilastri e colonne in cemento armato e le valutai in un centinaio. Mentre mi avvicinavo ad Atteone che lasciava abbeverare i vitelli nell’acqua di Diana temevo per entrambi di essere trasformati in cervo, mi tranquillizzava un po’ l’assenza di cani. Salutandolo non si volse e parandomi davanti mi accorsi che era sordomuto e conduceva la mandria per conto di altri, facendo la spola tra la marina ed il monte attraverso la boscaglia. Alla richiesta di fotografarlo tra colonne e vitelli oppose un netto rifiuto quasi accennando per necessità di difesa al bastone, di fronte alla mia chiara rinuncia si calmò e si lasciò avvicinare. Accarezzai un piccolo vitello come segno di stima per lui e con segni di mano roteante gli chiesi ragione dell’ambiente. Guardò con lunga e studiata circospezione intorno per assicurarsi che nessuno fosse all’orizzonte ed incrociò le mani sopra i polsi per significarmi che era stato tutto sequestrato e poi allargandole mi comunicò che tutto era finito e fermo. I vitelli dissetati si avviavano verso la boscaglia in discesa lato sud, quello protagonista della nostra scena insidiava un’altra giovenca non ancora pronta, ed il vecchio mandriano che non aveva nulla di Caco, né io ero Ercole, ritenne con essi allontanarsi da chi poteva procurargli qualche guaio. Mi diressi all’estremità di Capo Bruzzano che cade a precipizio sul mare e mi trovai di fronte alla distesa splendente dello Ionio di fronte alla quale rinunciai ad ogni recriminazione. Un luogo olimpico che incontaminato avrebbe avuto un infinito valore anche economico solo per la visione che offre. Non so come andrà a finire la faccenda, ma ormai l’omaggio alla Magna Magna Grecia è stato fatto.
Per me battezzai il luogo Capo Splendente, anzi – tò àkron lampròn- e mi proposi di non più ritornare e cercando l’auto intravidi la strada stretta ma solida che portava al capo dal lato nord, capii che era servita prima per l’enorme sterramento e poi per portare su migliaia di tonnellate di ferro e cemento. Nell’ultimo intervento lungo del coro non ascoltato da Creonte c’è un canto di gioia per Bacco-Dioniso nato da Giove e Semele figlia di Cadmo fondatore di Tebe, celebrato in varie forme in tutte le regioni di cultura greca: la prima località (chora con senso geografico, mentre thema significherà distretto militare amministrativo del catapano e simile) ricordata è propriamente quella che era sotto i miei occhi increduli in quel momento: klutàn òs àmphépeis Italìan
( 1117-8). Tu, o Bacco, che ami e proteggi la magnifica, splendida Italia. Veramente magnifica e splendida ormai in pochissimi posti se non verranno fermati i pirati del territorio che agiscono con tutti i crismi della legalità: pirateria di corsari con regolare licenza di corsa.


Per necessità dovevo percorrerla scendendo sul lato nord della SS 106 e mi avviai all’albero sotto il quale ebbi necessità di poco ancora raccogliermi incredulo in silenzio. Mi venne in mente per diverse analogie la scena finale del film di Bartolucci- Io ballo da sola-, giacqui con i miei pensieri come ognuno ha i propri. Le mie riflessioni mi convinsero che da secoli il potere comunque costituito governa gli uomini ed il territorio del quale si sottolinea l’importanza, con l’ipocrisia e la violenza anche quando per legge è tutto a posto, specie quando questa rende a posteriori lecito ciò che era stato –libito-. Decisi che dovevo sforzarmi a tutti i costi a ballare da solo, consapevole del trattamento riservato in questo nostro bello calabro reame a chi ricorda alle istituzioni civili e religiose come da secoli niente cambia e chi in varia forma al loro interno solo lo fa notare viene eliminato e non solo civilmente. Salvo poi rivendicarne dopo secoli i principi e l’eredità di intenti solo a parole, non per caso il programma di marcia di quel giorno era fino a Stilo, per omaggio a Campanella che al passaggio della santa flotta aveva compiuto tre anni. In rapporto a Tropea di lui ci occuperemo nella storia delle dominazioni che per secoli si alternarono sulla Calabria. Ma, arrivato a Giosa Marina, attraverso il Limina intrapresi il ritorno. Ma scendendo lungo la strada di cantiere notata mi domandavo come quell’opera, se veramente abusiva, abbia potuto essere realizzata non trattandosi di una piccola capanna per osservare il volo degli uccelli. Mesi di lavoro per lo sbancamento, migliaia di metri cubi di cemento trascinati lassù. Sulle coste calabre fanno la spola, in servizio ordinario e straordinario, gli elicotteri delle varie polizie di Stato e nessuno, a parte tutte le autorità amministrative locali, si accorgeva di quanto avveniva? Misteri della fede. Non che gli altri scempi che hanno avuto tutte le autorizzazioni ed anche i soldi pubblici siano meno orrendi, anzi andrebbero indagati i responsabili a vario titolo che reggono le sorti della Calabria. A volte avviene ma quasi sempre solo per far perdere tempo a magistrati, forze di polizia e denaro pubblico: la mania della procedura aiuta sempre il reo.












L’ACQUATA


La diffidenza di Veniero cresceva ogni giorno: alla sosta di D. Giovanni a Crotone per l’acquata probabilmente alla foce dell’Esaro, osservò che se ad essa si fosse ricorso così spesso sarebbe stato inutile continuare. Le flotte sapevano dove lungo le coste si poteva compiere il rifornimento dell’acqua che non doveva essere inquinata e di facile accesso. Era un’operazione anche pericolosa se da fiumi in mari nemici ed avveniva staccando piccole barche che facevano la spola con le botti tra la foce di un fiume e le varie navi. Tale operazione veniva contrastata dalle genti del posto per costringere i pirati ad allontanarsi dal luogo, non risultano casi di avvelenamento di corsi d’acqua (guerra chimica) per rovinare gli equipaggi e certamente i comandanti sapevano il pericolo ed usavano precauzioni.
Il mare doveva essere calmo e le navi si posizionavano per contrastare eventuali attacchi da terra agli acquaiuoli che spesso ci rimettevano la vita per riempire le loro botti. Dalla costa i legni pirati venivano seguiti dalle torri di avviso e spesso da un drappello di armati a piedi e cavallo che impedivano o scoraggiavano lo sbarco e l’acquata, sempre che si trattasse di piccole flottiglie pirata. Quando si muoveva per la campagna di primavera estate l’intera flotta turca unita a quelle dei capi pirata barbareschi magrebini non c’era niente da fare: sbarcavano e predavano a loro piacimento. Non nel nostro caso, trovandosi D. Giovanni in terra propria della Spagna cui apparteneva il Vicereame di Napoli non aveva nulla da temere, anzi ne approfittavano i consiglieri per perdere tempo sperando di evitare lo scontro. L’acqua dei robusti torrenti all’epoca era sempre potabile fino alla foce compresa quella del disastrato e disastroso Esaro o del Neto che come altrove detto dovettero essere porti-canale della Kroton greca. Noi siamo tra Megale Ellas e ed Epiro-Acarnania-Etolia- Eolia a nord ed Arcadia- Acaia- Eolide a sud del luogo della battaglia rispetto al golfo (kolpos) di Patrasso : ed è difficile per me sottrarsi ai ricordi ordinati nei files della memoria remota quando stordito dalla puzza del lume a petrolio frequentavo il liceo classico nel palazzo Giffone dove conobbi non per caso dalla bidella donn’Angela (durante lo studio dell’Antigone sofoclea) la tragedia della fanciulla che il nostro pilota vide sul balcone la mattina della sua passeggiata e la trovai analoga a quella di Antigone come vedremo più avanti nel riassumere come stereotipo la tragedia greca di quella famiglia. L’andamento della composita flotta cristiana con ritardi e ricongiungimenti fino alla mattina dello scontro inevitabile a sud ovest di Lepanto, sembrava la spedizione senza fine e con probabile meta degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro di cui allora non compresi il significato chiuso nel mito. Il vello era un manto lanoso di un ariete che aveva assunto un valore simbolico e Giasone- Eracle parte alla sua conquista verso la Colchide ai piedi del Caucaso sul mar Nero orientale, ottenendolo più con le arti amorose verso Medea che con la lotta. Il viaggio rappresenta la penetrazione dei Greci in tale mare intorno al Mille a. C. alla ricerca anche dell’oro, sempre col timore di essere bloccati nel Bosforo dalle navi troiane per rapina o pagamento di pedaggio. Non per caso il viaggio degli Argonauti è la prima spedizione corale della grecia mitica e quella di Troia ci porta già di fatto nella storia. I pastori montanari dei ripidi torrenti auriferi del Caucaso fissavano lungo la corrente la pelle-vello lanosa dei montoni che riusciva ad intercettare le miche d’oro che l’acqua trasportava. La nave Argo aveva il suo pilota: il primo fu Tifi figlio di Nettuno e morendo il suo posto fu preso da Ancèo affiancato da Echiòne dotato di cognizioni nautiche ed astronomiche. Svolsero il ruolo del nostro Cecco Pisani.
Certamente essi furono utili alla navigazione pur senza poter contrastare le disavventure del ritorno, ma Apollonio Rodio che nel catalogo degli imbarcati sulla Argo dà a tutti il titolo di eroe, non arriva a dire che ebbero un ruolo-determinante- nell’impresa o che fu loro il merito -principale- nella conquista del vello, come appunto arriva ad affermare l’estensore dell’ opuscolo che comprende note su Belvedere: la retorica è endemica in questa regione. Anche gli Argonauti dovevano rifornirsi di acqua lungo le coste con qualche incidente durante tale operazione. Il giovane argonauta Ila, prediletto ad Ercole, sceso dalla nave per l’acquata alla foce di un limpido ruscello nella Mesia fu notato e sequestrato dalle ninfe del luogo che lo tennero per se e vane furono le ricerche di Ercole che per trovarlo abbandonò la spedizione. Non sappiamo che a sua difesa fu invocato il reato di …uso di gruppo. L’eroe-dio che dovette compiere le dodici tremende fatiche forse non ebbe il tempo e la mente serena per comprendere che la vita poteva offrire anche altro o ben altro che muovere un remo fatto da un intero albero. Anche quando Ila avesse sentito le sue grida di invocazione, le grazie delle ninfe che in branco lo tenevano per loro diletto lo avrebbero reso sordo: addio alle armi. Noi non sappiamo se anche qualche acqaiuolo alle foci del Neto trovò qualche ninfa calabrisella e furono reciprocamente disposti ad assecondarsi, ma non disertando per essa, anzi portandola via sulla nave, stanca della vita misera nel suo borgo e sotto la pressione del don Rodrigo locale. Le cronache riportano vari episodi di tali violenze su povere ragazze indifese e per tali reiterati crimini un barone calabrese fu decollato a Napoli. Forse qualcuna delle nostre ninfe calabriselle che si era recata verso la foce del fiume per lavare nella speranza di darsi prigioniera al turco, pur di sottrarsi alla miseria e violenza sempre incombente sulla sua famiglia e su di lei dal feudatario e dai suoi bravi, rimase delusa quando vide che non erano turchi gli sbarcati dal mare. In tale stato speravano sempre che qualcuno gli dicesse:

SI VOI MU TINDI VENITINDI
CA LU PAISI MIU NUN E’ LUNTANU
AVUNDI TI PORTU JEU C’E’ L’UGUAGLIANZA
NUN C’E’ NE’ SERVITU’ NE’ PATRUNANZA.
Era la sola canzoncina non religiosa che a volte intonava la mamma ( ricordo consentito) per addormentare i miei piccoli fratelli. Essa mi ricorda il lungo e faticoso viaggio che fece Lincoln quando durante un’alluvione andò a trovare una vedova per chiederle di sposarlo: questa vedendolo dal balcone in condizioni disastrate più per compassione lo invitò a salire in casa. E questo mi ricorda cosa diceva la calabresella allo spasimante che aveva percorso impervi tratturi per andare a trovarla: :

TANTU CHI MI PARI PIATUSU
MO MBRAZZA TI PIGGHJU
E TI PORTU SUSU.

Ma nelle marine calabresi era veramente difficile all’epoca vedere una giovane donna, per la pirateria e per la malaria che stava risalendo la valle dei fiumi e spingendo il genere umano sempre più alto dove non arriva la zanzara.
La Calabresella cantata come falso folklore è solo una finzione ridicola da parte di falsi aedi.

Donna CANFORA
OGIGIA

Ma esse non avevano nulla da temere da tale eventualità, anche catturate il loro destino non sarebbe stato peggiore di quello nel loro paese e quindi si parla di fanciulle che spontaneamente si fecero catturare. Da noi invece circola l’abusata storia di donna Canfora rapita sulla spiaggia e dell’amore del marito per liberarla: ci troviamo di fronte ad uno stereotipo rivendicato da molti lungo le coste calabre, come l’arrivo di una effigie di Madonna che ferma la barca perché in quel punto vuole scendere si ripete sulle coste a distanza ravvicinata e nei secoli ai fedeli ignari fu presentato come fatto serio e documentato, a Tropea in particolare. Argomento da bavosi cantori che non notano altro quando da inviati in queste zone danno sfogo alla loro piaggeria. Comunque l’acquata fu fatta in quella zona, oggi dichiarata parco tutelato alla foce del Neto il cui corso segnava il confine tra la Calabria Citra ed Ultra. Fatta l’acquata la flotta volse le prue di centinaia di navi di varia dimensione e tipologia alle Calabrie, olim Brutium, olim Magna Graecia, olim Italìa, olim Enotria, olim Ausonia, olim Esperia, nunc Magna Magna Neo-Feudale nelle mani rapinatrici di Reges e Reguli. Ma fiera che le sue acque e coste sono state navigate ed ammirate da Enea ed Ulisse e qualche altro ad essi collegato. Infatti la flotta cercando la Grecia intorno al golfo di Patrasso che porta a Lepanto e Corinto, passò sopra le secche di Capo Rizzuto che sono rilievi dal fondo del mare pur rimanendo subacquee. Forse esse sono ciò che rimane dell’arcipelago ( Tiris, Dioscuride, Ogigia, Eranusa, Moelessa ) ancora affiorante e rilevato da Plinio il Vecchio quando su incarico di Agrippa fece una ricognizione delle coste e mari d’Italia. Sapevamo ( l’isola di ) Ogigia presso le Colonne d’Ercole che Ulisse violò – vecchio e stanco-. Tante altre isolette vengono rivendicate nel Mediterraneo come Ogigia con Ulisse per dare aureola di mito al luogo che intanto viene sfregiato. Tropea non ha bisogno di inventarsele, i due antemuralia dal lato del vento aquilonario sono perfette al caso. Su una di esse ha potuto sostare in braccio a Calipso la cui beltà si può leggere nel profilo delle bruzie nepoti. Meno male che passando sopra tali secche non venne mente agli spagnoli di fare una sosta durante la notte mandando le àncore alla fonda. Tirandole a bordo al mattino avrebbero potuto notare la presenza del corallo e proporre di dare un altro scopo alla crociata dedicandosi alla pesca di tale ricchezza magari facendo arrivare dalla Spagna la lana necessaria per armare l’ingegno. Tanto era successo ad una nave che ignara calò l’ancora per la notte sopra la secca al largo di Capo Vaticano. Certamente il Venier li avrebbe presi a cannonate.

LA FOCE DEL NETO -EUROPARADISO



E mentre la flotta si avvia di fronte a quelle coste dove Enea trovò umiliata Andromaca, noi non dobbiamo dimenticare le –magnifiche sorti e progressive – che attendono la costa a nord di Pitagora. Essa non procede come la nave Argo-Veloce , ma lentamente e ci da il tempo per qualche divagazione sempre lecita purchè non si esca dalla Magna Magna. Non sappiamo se il nostro turista per il quale stiamo parlando si trova ancora in via Lepanto Giove aveva deciso di costruirsi alla foce del Neto che dissetò i Crociati una villaggio residenza faraonico utile alle sue scappatelle, bello quanto il Paradiso olimpico e per distinguerlo da quello etiope lo chiamò Euro Paradiso, tutto in stile Magno Greco affidando l’opera a re Mida. Mai none più azzeccato, meglio se diventa Paradiso di Euro: buona parte dei dodici miliardi dei fondi strutturali europei che hanno sfibbrato la Giunta Regionale. Con quali criteri assegnarli? Per quali progetti? A chi affidare la valutazione ed approvazione degli stessi? Le Quote per partito, per provincia, per gli eccellenti di ‘ndrangheta e massoneria con prestanomi? Sembra trattarsi di una società israelita che vuole investire nel mega villaggio turistico – Euro Paradiso-, capitali propri, e gli investitori promettono una panacea economica per tutta la zona. Il virtual mostrato ci riporta ad Olimpia o Delfi ricostruite. Con questo ragionamento si possono cementificare tutti i parchi nazionali facendo scomparire piante ed animali rari in nome di sua maestà il fondo europeo . Il suo rappresentante dichiara di disporre di capitali propri, ma poi precisa che - potendo accedere ai fondi europei - perché rinunciare? Nasce il dubbio che soltanto a quei miliardi di euro si mira sapendo già come arrivarci e chiedendone buona parte per la grandezza dell’opera prospettata. Non è la prima volta che tali iniziative sono servite in Calabria ad arraffare e scappare senza trovare colpevoli che spesso sono assolti per prescrizione e così giustizia è fatta senza sentenza. Non c’è in tale progetto nessuna garanzia circa la vera destinazione dei milioni di metri cubi richiesti e l’ambiente ne sarebbe devastato: la prossima flotta contro gli infedeli non potrà fare l’acquata ed una invasione degli islamici guidata da Occhialì chi potrà fermarla?
Oppure se gli equipaggi vorranno scendere in tale paradiso in cerca delle huri cristiane per un periodo di svago e riposo come ci salveranno dagli infedeli che avanzano e mettono in pericolo la nostra libertà. Sorge il sospetto che dietro la difesa ad oltranza di tale progetto ci sia appunto la volontà di intercettare una grossa fetta dei dodici miliardi di euro dei fondi strutturali europei per la Calabria, lasciando all’asciutto le richieste di progetti assai più piccoli, anche di operatori onesti che superano di gran lunga i truffatori. La cronaca ordinaria ci fornisce molti esempi di vergognosa erogazione di tali fondi su basi fittizie da parte di incompetenti o amici da parte di amici che ben dovevano sapere e verificare. L’incidente di finanziare farabuttelli può capitare, ma ogni giorno scoppia uno scandalo lionario con questi fondi europei.

SIGNOR PRESIDENTE!

Signor Presidente della Regione Calabria stia attento ai Fondi Strutturali mentre la sua flotta naviga in continua tempesta!!! Quando finiranno le cronache di assessori e responsabili nella gestione delicata di tali fondi, accusati di corruzione, concussione, associazione a delinquere? Fermo restando il corso della giustizia, per tutto quello qui contenuto, che non completa quasi mai la sua corsa per prescrizione o condono. Che interesse ha un sistema di magna magna in metastasi a reclamare una giustizia rapida ed indipendente dai poteri che occulti non sono? Non si capisce più in quale parte del corpo civile nasce il male e quali parti subiscono la metastasi e quali sono centri propulsori. Sa Ella a quante traversìe è sottoposto chi si rivolge alla nostra bella regione per la pratica di un minuscolo contributo che gli rimane, quando lo ottiene, sparso per la strada da casa agli uffici, dove la pratica non si trova, il responsabile è assente convocato dal suo capo a volte connivente, o i fondi sono terminati, ma non per tutti???. La correttezza della pubblica amministrazione è la misura che qualifica una Istituzione grande e piccola. Dopo il 1866 alcuni comuni del Veneto si ribellarono di fronte alla voracità e corruttela dei Piemontesi, invocando il ritorno dell’Austria. Questa resse per secoli il suo impero sulla assoluta correttezza ed incorruttibilità dei suoi funzionari civili e militari, ferma restando l’oppressione dei popoli soggetti come per ogni impero. Funzionari tali non perché austriaci, ma perché al minimo traviamento subivano pene esemplari, da monito tremendo per gli altri. Ricordi Ella la punizione al medico militare ed all’ufficiale favorito per denaro nel film –Senso- di Visconti : immediata fucilazione per tradimento. Solo così si corregge l’uomo. Il dipendente pubblico corrotto o vessatore è un traditore dello Stato. A Lei non si chiede tanto, ma cerchi di fare della lotta serrata ai disonesti e conniventi in loschi affari il primo suo impegno: questo, e sarebbe tantissimo, il normale cittadino desidera e non sa più a quale parte politica rivolgersi, né da dove prende origine la metastasi che ogni giorno ci annuncia truffe e corruzioni. Sempre per omaggio alla Grecia si ricordi che le vipere non si distruggono nei campi a cielo aperto: sono pericolose e si nascondono nelle erbe e nei muri, ma schiacciando le loro uova nel nido ufficio dove qualche politico ad essi uguale li ha collocati e li protegge. Con tutto il rispetto per i tanti che questo discorso non sfiora, non posso aggiungere la maggior parte. O bisogna fare un partito dei senza partito? E se a volte un corretto cittadino perde la pazienza ed in questi uffici si fa giustizia da solo anche sparando è inutile poi parlare di perizia psichiatrica, questa va fatta alla istituzione che lo ha esasperato, e non si dica che poteva rivolgersi al giudice con i tempi e costi della nostra giustizia……..io non lo assolvo ma non lo condanno. Vista la lungaggine ed il costo della Giustizia, ricorrendo ad essa significa accettare o subire l’ingiustizia. Ricordi che i lupi interni ed esterni all’apparato delle Regioni, specie di quello che fu per nostra vergogna il glorioso Regno di Napoli e poi di nuovo delle Due Sicilie, vogliono scuru e nigghiata assai spesso comoda a chi con tali sistemi deve raccattare voti, tutti compresi.
Signor Presidente, Signor Governatore, non fallisca e sia tremendo in tale direzione se ancora lo vuole e lopuò, dimostri una delle virtù insite nel suo cognome e confermi : nomina sunt substanzia rerum. Non dia Ella l’impressione che il latino non Le piace a chi porta un nome greco. Oppure semplicemente, prenda quei soldi e li restituisca d’urgenza all’Europa, tanto senza cambiare radicalmente il metodo lì torneranno una volta assegnati con fiction operativa, come imboscamento privato. Vane speranze………


FILM SU OCCHIALI’

Questa è la terra natale di Occhialì sul quale si sta girando un film che non deve essere una fiction: l’augurio è che si realizzi un’opera di valida ricostruzione storica a partire dalle reali condizioni interne dei Calabresi tutti nel Cinquecento e che non si cada nella tentazione di mini-colossal scenografico favorito dalla tecnologia moderna o dai fondi pubblici. Ci vuole non un leit-motiv psicologico religioso ma storico sociale su quella terra che adesso si vuol violentare portando un Paradiso di soldi, se si vuol rendere un servizio alla verità storica. Il regista tenga presente che Occhialì diventato mussulmano non ebbe mai ripensamenti religiosi anche se non mancò di andare col pensiero ai suoi parenti rimasti su quella terra: ma questo è l’aspetto privato che non ha mai inquinato la sua dedizione e fedeltà assoluta all’Islam ed al Sultano in nome di Allah.








BARRIO-----------DE CALABRIAE UBERTATE ET FELICITATE
DE CALABRIAE PLANCTU


Siamo dopo il 20 settembre 1571 e finalmente (avrebbe detto Venier) le prore crociate puntano dritte a Patrasso e volgono le poppe alla Calabria Felix sulla quale i retori con pretesa di storici, ( antenati dei bavosi cantori) facevano scendere la manna dal cielo, per poi dire che cadeva dagli alberi, anzi no, bisognava incidere l’orniello come poi l’albero della gomma. A quale Calabria, con un dieci per cento di religiosi, volgevano le poppe i santi crociati ? .
Fonte insospettabile e certamente non eretica in quello spirito di controriforma a difesa dei privilegi immondi baronali ed ecclesiastici, lo chiarisce Gabriele Barrio di Francica che nel suo- DE SITU ET ANTIQUITATE CALABRIAE- specie di summa storico – geografica che ebbe il merito di essere la prima opera enciclopedica sulla Calabria.
Essa fu seguita da quella del Marafioti nel 1601 : CRONICHE ED ANTICHITA’ DELLA CALABRIA .
Bisognerà aspettare la fine del XX° secolo per la felice ed intelligente – STORIA DELLA CALABRIA- edita da Gangeni – Reggio Calabria- strumento per chiunque voglia avviarsi alla comprensione scientifica del nostro passato che sfocia nel presente. Opera favorita da tante ricerche nei testi e nel territorio da parte di esperti e studiosi nei secoli, impossibili all’epoca di Barrio e Marafioti, questo esalta la passione e la fatica che questi due giganti sostennero da soli.

Nel capitolo XXI – DE CALABRIAE UBERTATE ET FELICITATE- il Barrio esalta secondo tradizione i doni che la natura profuse alla Calabria e che forse in quel momento -sola Tropea - aveva, come abbiamo visto in altro capitolo.

Nel Cap. XXII dimostra di non chiudere gli occhi sulla condizione civile dei calabresi, derivante anche dall’uso distorto in termini di proprietà, cui da tempo era stato ridotto il felice territorio, perché deve pur dare una spiegazione al quadro drammatico che si appresta a presentarci sotto
-DE CALABRIAE PLANCTU-

Cum igitur Calabriae regio talis sit, ac longe compendiosa Regibus, ab omni onere etiam iuxto vacare deberet, et dignis honoribus honestari. Sed heu tempora!, non modo ordinariis exactionibus fatigatur, sed, injustis etiam ac gravibus estorsionibus vexatur. Quare multi etiam vineas exciderunt ob nimiam earum census aestimationem. Adde quod utraque regionis maritima plaga annis singulis a pyratis infestatur; unde oppida pagique crebro direptioni, sanguini et igni traduntur, segetes exuruntur, vinea olivetaque, ceteraequae arbores exciduntur; pecora ac pecudes, et- quod miserabilus et infelicius est- utriusque sexus ef omnis aetatis homines praedae dantur. Qua ex re oppida pagique civibus vacui sunt. Et latronibus infestata securitati det, tam magnam captivorum manun recenseat eosquue a barbarica servitute redimeat, et Christianae libertati reddat; sed sunt qui nulla belli necessitate singulis tribus lustris omnis sexus aetatis populos recenseant, et vel a pauperimis tributa exigant. Servius Tullius, sextus Romanorum rex cives infra numerum quinque millia aeris habentes sine censu reliquit, quasi tenues ed impotentes. Senatus Porsennae tempore, et sempre in magna necessitate, plebem a tributo liberavit, decrevitque ut divites cinferrent, qui onere ferendo essent, pauperes satis stipendii pendere, si liberos educerent. Adde quod regio ipsa monstris etiam, regulis inquan et tyrannis abundat, qui eam expilant et deglubunt, ac veluti alteri Campani Lestrigones ob inexplebilem sitim et inexaustam avaritiam mortalium labores depascunt in dies; et silvas, pascus, agros, pabula, fulmina, aucupia, venationes, omnia enim populorum jura sibi usurpant. Quare populos sibi subiectos, quod eos longe vexen, vexallos hoc et vexatos appellant. Quod Romani modestiae causa non subjectos appellant, sed socios. Mercaturam insuper vilem rem ingenuis hominum indignam eorum plerique exercent. Apud Romanos in tanto Imperio nequaquam tot famelicae et insaziabiles Arpyae erant mortalium labores depascentes. Verum eninvero multae clarae urbes molestimae excusere e cervice bipennes, qod durae servitutis jugum ferre non valerent. i






Se ne dà qui il testo nella versione italiana del prof. Augusto PLACANICA, ( tratta dalla stessa opera chiedendo perdono all’editore per l’abuso), che ha speso la sua vita per chiarire le vicende tragiche di trenta secoli di nostra storia, dando una frustata a più di un retore e bavoso cantore antico e moderno di questa terra piena si di storia, ma storia di oppressione, corruzione e violenza. Non per caso un mio amico diceva: da qui passarono i bizantini ………..

IL PIANTO DELLA CALABRIA


Essendo dunque questa, e siffatta, la regione calabrese, e ben ricca di sovrani feudali, ben a ragione dovrebbe andare esente da ogni peso e godere di confacenti onori. E invece- o tempi maligni- non solo essa è travagliata dalle ordinarie esazioni fiscali, ma è vessata da ingiusti e pesanti gravami. Per la qual cosa molti si sono spinti a tagliare le vigne per l’eccessiva stima che si faceva del loro provento. Aggiungi poi che tanto l’una che l’altra spiaggia della regione ogni anno sono state infestate dai pirati; per cui città e villaggi vengono spesso dati in mano al saccheggio, al massacro ed all’incendio; si bruciano le messi, si tagliano i vigneti, gli oliveti ed ogni sorta di alberi; e bestie innumerevoli e pecore e- cosa tanto più miseranda e lacrimevole- esseri umani d’ogni età e sesso vengono offerti in preda. Perciò città e casali sono ormai privi di abitanti, e i campi sono diventati, in più luoghi, avviliti ed incolti. Non c’è alcuno che tuteli i mari, che dia sicurezza alle strade infestate da ladri e grassatori, e che prenda esatto conto di coloro che sono stati fatti schiavi dai turchi e li redima dalla servitù presso gli infedeli, restituendoli alla libertà del popolo cristiano. Ma ci sono, invece, coloro che, senza necessità alcuna, ogni quindici anni vogliono prendere esatto conto della gente d’ogni sesso e d’ogni età, e che pretendono il tributo finanche dai più poveri. Ciò non si sarebbe mai e poi mai verificato presso gli antichi romani, giacché ogni anno si veniva a pagare un sol denaro per testa. Servio Tullio, sesto Re di Roma, individuò persone che lasciò esenti da ogni gravame fiscale, avendo esse meno di cinquemila denari, come se fossero di scarso potere economico, e quindi non in grado di tollerare esborsi. Il senato romano, al tempo di Porsenna e poi in ogni grande necessità, mandò esente la plebe esente da ogni tributo, e comandò invece, che i ricchi pagassero imposte nella misura in cui fossero in grado di tollerarne l’onere, che i poveri già pagavano abbastanza di tributo se educavano i figli. Aggiungi, poi, che la regione abbonda anche di mostri, intendo dire di piccoli re e di piccoli tiranni, che la travagliano e la spogliano, e che, come altrettanti Lestrigoni di Campania per loro inesorabile fame e inestinguibile sete, giorno per giorno si alimentano delle fatiche dei loro vassalli; e già si sono usurpate selve , valli, pascoli, fiumi, cacce, riserve, e alla fine tutti i diritti dei poveri. Ed è per questo che chiamano i popoli a loro soggetti, per il fatto che li vessano, vassalli, che significa vessati. E invece i romani, com’ era della loro moderazione, non li chiamavano soggetti, ma soci. Alcuni di loro esercitano la mercatura, ma tenendola a disdoro, e come cosa che non è degna di esseri umani nati liberi. Presso i Romani, in un impero così grande, non si poteva neppure immaginare che tante e tanto fameliche arpie si impadronissero delle fatiche dei mortali. Ad onor del vero molte illustri città si sono scossa dalla nuca la molestia scure del dominio feudale, dato che non erano in grado di sopportare il giogo della schiavitù.

Noi abbiamo riprodotto anche il testo originale latino del Barrio per la cultura dei nostri retori che disprezzano il popolo, e la versione italiana perché tanti appartenenti a vario titolo e partito alla classe degli arrampicatori sociali ( alle laute prebende ed ancor più alle laute commende), fingendo o veramente non comprendendo tale latino del tardo Cinquecento ( e neanche quello classico), non dicano che sono problemi che non li toccano, sentendosi invece indicati all’indice. Anzi essendo in Calabria quasi tutto Magna Magna Graecia ai suoi cultori ipocriti e più ladri di Caco, sarebbe bene offrirne una versione greca, nella speranza che si trovi oggi un Eracle che alle sue dodici fatiche aggiunga la tredicesima: sciogliere non il matrimonio, non il connubio, ma il contubernio
( con tutto rispetto umano degli schiavi ed invitandoli a ribellarsi dovunque –armata manu-) più radicato della gramigna che esiste intorno alla gestione delle risorse e del territorio del glorioso Regno da capo Passero al Lilibeo, al Faro ed Citraque Farum da capo Spartivento alle foci del Tronto e Garigliano. Ci provi con coraggio politico colui che nel nome porta i requisiti di Eracle che per aver liberato l’ umanità greca da tanti mostri fu divinizzato, oggi ha tutti i poteri per farlo: non bastano le buone e sincere intenzioni proclamate in convegni che sempre annunciano – inversioni di tendenza – valore aggiunto – una marcia in più- trasparenza-, se poi ogni giorno si annunciano retate per associazione a delinquere in rapporto a quei problemi. I Calabresi non credono più a nessuno e pericolosamente declinano verso la rassegnata indifferenza : tra una certa classe politica sparsa nei vari schieramenti per favorire - frati e frateschi- ed il malaffare anche violento è difficile porre una linea divisionale che diventa il letto errante di un fiume senza alveo definito. Se vogliamo farlo, per dare il tempo alla armata cristiana di tagliare lo Ionio verso la Grecia, ricordo una versione tradotta in quel Liceo del disastrato e sventurato palazzo Giffone, simbolo solare del degrado urbanistico del nostro centro storico e dei retori nostrani che favoriscono il disastro. Mai lo dimentico quel Liceo nel bene e nel male, anche perché ha catturato,come per i miei compagni di classe, cinque anni per me sofferti, della mia adolescenza verso la gioventù. Siamo ancora tutti in piedi, tranne una a cui certo va il ricordo affettuoso ugualmente di tutti.
Viveva su un’isola un pittore di grido conosciuto –fama tantum -da un suo collega in terraferma. Questi si recò a fargli visita e non lo trovò. Alla richiesta del discepolo dell’assente presente nello studio, tracciò sulla lavagna una linea assai sottile significandogli che il suo maestro e padrone, vedendola lo avrebbe riconosciuto pur non essendosi mai incontrati. E così avvenne. Prevedendo un’altra visita del viaggiatore, dentro la pur sottile linea di questo ne tracciò un’altra incaricando il ragazzo di farla notare al collega in caso di ritorno. E così avvenne. Ma questi, recepito il messaggio, all’interno della seconda linea ne tracciò un’altra così sottile che rese impossibile la sovrapposizione di una quarta, poi si imbarcò per un’altra isola ed i due non si incontrarono mai. Il pittore isolano la vide, comprese anche lui – fama tantum- il nome dell’ospite e certo si riconobbe sconfitto. Come il nostro glorioso Regno da secoli di fronte a corruzione e violenza pubblica e privata. A quando Uno capace di tracciare una quarta linea? Arte difficile se si è appena compromessi, ma possibile ancora perché la grande maggioranza dei regnicoli sudditi aspetta un messia che provi a mettere in atto quei valori civili e religiosi dei quali la assuefatta ipocrisia riempie la bocca e la pancia ed il portafoglio dei nostri reges e reguli e loro tirapiedi. Ci vuole un Alessandro che sciolga il nodo tra mafioso-burocratico-affaristico-politico che come l’idra di Lerna soffoca la Calabria. Impresa difficile certo, ma bisogna cominciare per non lasciare la Calabria ai Lestrigoni del terzo millennio dopo che l’hanno spolpata per tutto il secondo, come vedremo nel capitolo- Le Dominazioni-
Pensare che tale opera si possa compiere con prudenza ( e perché ?) è idea pavida e segnale di paura o mani legate. Quel nodo di Gordio va sciolto con la spada come senza prudenza da politichese fece Alessandro volgendo a suo favore la profezia di meritarsi di conseguenza tutta l’Asia alla quale si avviò sbaragliando al fiume Isso Dario ed il suo impero che minacciavano nuovamente di prendere e devastare la Grecia. Fece lungo l’Anatolia e la Strada Regia ( la Varegia nelle nostre Serre) verso Oriente al cuore della potente Persia fino a Susa, quel percorso che tre secoli dopo Paolo di Tarso dalla Cilicia avrebbe fatto al contrario verso Roma senza falangi, per un altro tipo di conquista che in duemila anni non ha dato i risultati possibili forse proprio per la flessibilità che lo stesso- apostolo delle genti- diede al messaggio soteriologico nella realtà imperiale romana. Nella sua premessa al- La guerra del Peloponneso Tucidide ci disse che – la vita non è il trionfo nella gara di un giorno- ma questa gara per provare a vincerla contro il –male oscuro chiaro come il sole allo zenit - di questa amata Calabria, bisogna pur cominciarla, se non si è complici còrrei anche solo per viltà.


LA CALABRIA FUGGE SENZA META


Comunque se il nostro – 0’ IEROS – intende provare a sciogliere il nodo non ha bisogno di usare la spada, sa benissimo da politico di lunga carriera dove sono le cime di quel nodo con cui il pastore ed agricoltore Gordio diventato re aveva legato il giogo al suo carro. A lui calabrese e montanaro non debbo ricordare che il carro e l’aratro di legno fino a poco tempo fa venivano attaccati al gioco con un pollone vigoroso di castagno oppure olmo che dopo opportuno riscaldamento veniva rapidamente con arte attorcigliato a forma di ellisse che pur si chiamava – torta o iaialu ( ciclico –cerchio). Il fastidioso consiglio è quello di recarsi sui nostri monti ( questo è il periodo giusto) senza distrarsi dai funghi che sono anche velenosi, e procurarsi tanti polloni di olmo o castagno, quanti sono gli assessori suoi, e per se stesso un tronco di quercia come la clava di Ercole da usare contro gli stessi assessori inadempienti. ( Francesco di Paola docet, e se no sono inutilitutte le retoriche ed anche costose celebrazioni, o sono utili a qualcuno? ).
La Calabria è stanca, prostrata, nauseata, i Veneti ribelli invocavano il ritorno asburgico, la nostra sventurata storia da diversi millenni non ci indica nessuno di cui invocare il ritorno, neanche i fondatori delle colonie greche che poi seppero massacrarsi tra di loro come le loro madri.
Chi si è infastidito per tanto o è complice o ha rinunciato stanco ad essere cittadino attivo dopo tante prove di scelleratezza constatate, smentendo chi per bocca di Pericle diceva: -il cittadino che non si interessa di politica, non è già un uomo pacifico, ma addirittura un inutile-. Ma per chi votare? La politica è la trattazione delle speranze umane e legittime di ognuno e la ricerca dialettica della loro soddisfazione nella libertà di tutti in rapporto alla ricchezza materiale e morale di un popolo. Il ritrarsi del cittadino normale dalla politica lascia spazi aperti ai malfattori che lo fanno diventare vassallo: questo sta accadendo nel glorioso regno.
Analisi di scientifica precisione e validità attuale quella del nostro Barrio, che vale da allora ad oggi cambiando certi attori in rapporto alla raccolta impositiva del denaro ed alla sua elargizione sotto varia forma ai cittadini. Abbiamo – i reguli - che controllano da tutti i punti di vista il territorio e sono di fatto lo Stato di primo livello, ed ai quali bisogna chiedere in anticipo il permesso per ogni attività appena rilevante o che disturba qualcuno già vassallo. Essi hanno a volte corrispondenza di denarosi ed elettorali sensi cum Regibus politici e con i maggiordomi burocratici delle istituzioni che da Pipini Carolingi hanno spodestato i Clodovei assessori-elettorali. Chi è fuori da questo circuito è assai difficile che acceda ai suoi diritti di legge pur adempiendo i doveri, come gli editori scrivono sui libri che stampano ed ai quali qui chiedo ancora perdono. Può presentare il migliore progetto di investimento sul nostro territorio, se non ha santi in Europaradiso, non entrerà mai in Europaradiso se non bussando con i piedi alla sacra porta di che ne detiene – entranbe le chiavi-.
Tutti conosciamo la verità e la cronaca quotidiana nel Regno delle due Sicilie conferma che dal tempo del Barrio nulla è cambiato, ed a chi dice che la storia non si ripete, si precisi che nel glorioso Regno non avviene perché non cambia mai, non ha bisogno di ripetersi, si è stabilizzata, gli attori solo indossano panni diversi sopra lo stesso animo proteso ai soldi sotto la scusa del pubblico bene.
Ci vuole un messia credibile, coraggioso e non compromesso: questo darebbe animo e forza ai tanti o pochi onesti indicati come stupidi ed intimiditi addirittura.La –culpa in vigilandi- diventa una grave macchia per il politico pur se onestissimo personalmente: è un incapace e noi abbiamo bisogno di forza democratica senza limiti di azione, e finiamola con certo garantismo verso chi approfitta dei meccanismi pietosi di legge per restare impunito e dire che è stato prosciolto solo perché sono scaduti i termini.





IL TEATRO DELLO SCONTRO

Ma non è un caso che siamo già ai primi di ottobre quando si arriva in vista della Grecia di fronte ad Azio. Si fa notare che sempre le navi proseguivano ancora per cabotaggio come da millenni avveniva nel Mediterraneo, anche se Colombo aveva vinto l’Atlantico. Pertanto si tratttava non di tagliare in diagonale lo Jonio da Capo Spartivento a Patrasso, ma di arrivare almeno fra Capo Colonna e Punta Alice prima di virare, il 22 settembre, a destra verso le isole Corfù, Leucade, Cefalonia, Itaca e Zacinto che sono le maggiori di fronte alla terraferma greca ed a poca o minima distanza da essa oltreche alla stessa latitudine della Calabria. Le informazioni avevano dato Alì Pascià diretto alla baia di Valona, poi fu scoperto nel porto di Lepanto, segno che anche lui manovrava per ingannare i cristiani o per attrarli in luogo più agevole alla sua strategia o per dividerli nella ricerca della sua flotta. Ad ogni modo la flotta cristiana non poteva rinviare lo scontro, perché c’era il problema delle scorte alimentari per quasi 100.000 uomini che da tempo erano in mare, oltre che il pericolo di epidemia per tanto affollamento sulle navi. I Turchi avevano alle spalle la terra e le fortezze compresa Lepanto, base protetta per lo svernamento della flotta, rifornimento e punto di partenza contro l’Italia da essi chiamata – Terra Longa -. La flotta si posiziona tra Corfù e la terraferma in un canale sicuro e qui gli Spagnoli al seguito cercano di indurre D. Giovanni a dirigersi a terra sfuggendo l’armata nemica. Ancora un Doria propone una digressione dove la flotta turca non si trova: nel 1538 suo zio voleva andare da Arta a Lepanto, ora egli propone il contrario: la solita infamia. Si navigava a vista, ma l’improvvisa e sicura notizia che la flotta turca era al riparo a Lepanto impone decisione ed azione rapida. Invece la flotta fa un piccolo trasloco verso Heugomenitsa a poche miglia sulla costa dell’Epiro, ma Veniero sente che si vuole evitare il momento perché non si combatta. Due soldati spagnoli provocano forse non a caso una rissa su una nave veneta e ne ordina l’impiccagione all’albero dello stesso legno. Non a caso a Crotone il Veniero aveva rifiutato l’imbarco sulle sue navi di seicento soldati che gli Spagnoli gli offrivano. Nasce un momento di tensione grave con D.Giovanni e per poco non si arriva allo scontro, non coi Turchi, ma fra di loro: sulla Capitana di Venezia apparvero il segnale di tenersi pronti ad attaccare gli Spagnoli. Questi trattavano i Veneziani con alterigia considerandoli vili mercanti di fronte a loro gente d’armi, anzi volevano nella circostanza far difendere ad altri con la vita i loro interessi. Il ridotto tra Corfù e la Grecia viene lasciato il 3 ottobre, quasi per diporto. Accanto al figlio di Carlo V si trova Giovanni Andrea Doria che come nella tradizione di famiglia ha il compito di evitare lo scontro, siamo in quel tratto di mare di Prevesa dove i Doria erano abili ad evitare, per ordini ricevuti, lo scontro onde rendere vani i costosi preparativi di Venezia e l’occasione che ha la stessa di tenere le ultime isole accanto alle quali si sta muovendo la flotta. Veniero lo sa bene. Marcantonio Colonna sa che il papa vuole la distruzione della flotta nemica e non sottrarsi allo scontro, si era impegnato con giuramento: se le mamme spartane dicevano ai figli- o con questo o su di questo- riferendosi allo scudo per dire –o vivo vittorioso o morto con onore -, a lui il papa Sisto V di fatto aveva detto- o torni con la flotta vittorioso o resti in fondo al mare-. Anche Alì Pascià ed Occhialì dopo discussioni debbono attaccare per non deludere il sultano. Scelta sbagliata, potevano vincere senza combattere, restando fortificati nel porto avrebbero dissolto i crociati per consunzione delle scorte e discordia. Ma quando i politici vogliono dettare la strategia ai militari accade il disastro: le interferenze dei dittatori europei, Hitler e Stalin, nelle operazioni militari causarono gravissimi danni alle loro forze armate, ed anche quando il vanitoso Churchill si mise a fare lo stratega militare causò disastri come quello di Dieppe in Normandia. Il nostro bassotto invece quando gli pareva che le nostre truppe stessero per conseguire una vittoria approntava il cavallo bianco per la sfilata: peccato per lui che non lo poté mai cavalcare. Non sappiamo se per l’altro bassotto approntava un ronzino o un mulo, vista l’alta elevatura morale dei suoi eredi ammessi a venire in Italia ed addirittura incautamente ricevuti dal pontefice.

LA GOGRAFIA DEI LUOGHI

Per comprendere i movimenti delle flotte e la loro strategia nei secoli in questa zona di mare bisogna fissare i luoghi geografici e le loro caratteristiche in rapporto ai possibili approdi, rifornimenti di viveri e materiale logistico. E’ una zona con venti non impetuosi, al contrario del pericoloso Egeo, piena di baie e porti naturali anche comodi ed ampli, che non si trovano sullo Ionio calabrese. Accanto alle cinque isole maggiori ce ne sono decine più piccole o minute che rendono pericolosa la navigazione per gli scogli affioranti- formiche-, e si aggiunge l’insidia delle secche specie lungo la costa alla foce dei fiumi che scendono dal Pindo, regolatore delle acque dei Balcani greci insiene all’Olimpo. Pericoloso fermarsi per l’acquata se non con esperti piloti: le correnti causate dallo sbarramento delle isole e la melma portata dai fiumi potevano allora arenare facilmente una nave. Per inciso si ricorda qui l’incidente di tal genere capitato al tropeano vice-ammiraglio Napoleone Scrugli sulla costa adriatica e già riferto nel capitolo dei porti. Per rendersi conto della peculiarità e valenza delle isole greche si tenga presente la loro conformazione fisica fortunata: ognuna possiede più di un porto naturale protetto dalle traversìe e difendibile da un squadra navale assediante, questo spiega perché contro piccole isole fallirono spedizioni portate da grandi potenze che quando andarono a segno dovettero impegnare a lungo grandi forze. Tali numerosi porti permettono oggi la fiorente economia turistica della Grecia insulare con minini interventi mentre nella Magna Magna Calabria per costruirne alcuni (di Ulisse) si sono spesi centinaia di milioni di euro ed i locali non possono accedere.
Oggi noi chiamiamo Ionio il mare che va da Capo Passero( isola delle correnti) a Santa Maria di Leuca sulla costa italiana lungo Sicilia, Calabria, Lucania e Puglia, mentre ad oriente va dal sud profondo dell’Albania a Capo Matapan, (ahi ! ), punta estrema del Taigeto compreso tra il golfo laconico e quello messenio. Se alle tre penisole del Peloponneso rivolte a Sud si aggiunge quella che ad oriente di fronte all’Attica forma l’attuale golfo di Nauplìa, si capisce perché l’isola di Pelope fu detta anche Morea: terminale a diverse punte come la foglia del gelso ( moréa). Tanto perché nei tempi che trattiamo la Grecia dopo l’istmo veniva chiamata da tempo Morea ed il frutto del gelso da noi si chiama – a mura- la mora -.

TUCIDIDE- PLINIO - PAUSANIA


Nella –Storis naturale- Plinio il Vecchio fa una spartizione di questo mare alquanto diversa: per lui il –primo golfo- d’Europa finisce a Locri.
E’ un tratto di mare che ha visto lungo i secoli diverse battaglie navali proprio per le caratteristiche di possibile rifugio e transito. I coloni greci per venire in Occidente risalivano l’Egeo fino a Corcira e solo allora viravano verso l’Italìa puntando diritti verso occidente e poi costeggiando lungo lo Ionio: la stessa rotta invertita della flotta crociata. Ora questa andava contro il turco anche per allentare la morsa della pirateria, almeno così pensavano gli ingenui, e nel I libro Tucidide ci informa che essa era da secoli una normale attività nel Mediterraneo, con la conseguenza che si verificò lo stanziamento in alto degli abitanti e conseguente antico dissesto idrogeologico che ancora oggi fa scontare le conseguenze. La grecia classica ebbe pochissimi centri sul mare, essi sorgevano in zona collinare difendibile e fortificabile ed avevano poi a pochi chilometri il porto: così Corinto, atene, Megara. Ma nello stesso punto ci tante notizie interessanti in rapporto ai nostri crociati sulle navi che si aggirano i quei bellissimi pur oggi luoghi: a Corinto si costruirono le prime vere navi triremi ed il costruttore Aminocle ne fabbricò quattro ai Sami, non precisa se a Corinto recandole nel lontano Egeo o se si recò sull’isola con la sua arte impiantando un nuovo arsenale. La battaglia navale più antica – Naumakìa te palaitàthe- la pone in questi luoghi tra Corinti e Corciresi duecento anni prima di Salamina verso il 680 a C.
Epidammo ( Durazzo) era una colonia di Corcira, già colonia di Corinto ma in rotta inusuale con la madre patria che come legge e tradizione aveva mandato l’ecista della sub-colonia. Così Hipponion era sviluppo di Locri Epizefiri. Nel suo primo libro Tucidide, dopo alcune premesse, volendo spiegare l’inizio nel 431 della guerra Peloponnesiaca, ci
dice dello scontro tra Corinto e Corcira per il controllo di Epidammo e delle battaglie navali che seguirono condizionate dai luoghi descritti. In questi preliminari di guerra lo storico riferisce le crudeltà omicide commesse su migliaia di vinti e prigionieri greci da parte degli stessi greci addirittura filiati come –patria-, tali erano Corinto, Corcira ed Epidammo: venduti schiavi o uccisi senza pietà per vendetta e rappresaglia. I turchi non portarono nulla di nuovo in tal senso e neanche i veneziani.
Tale guerra coinvolse nel 433 Atene a fianco dei Corciresi, il che fu ritenuto violazione della tregua trentennale stipulata con Sparta e la guerra generale fu la conseguenza. Si ritiene conclusa con la caduta di Atene nel 404, in effetti data la natura della mentalità politica statale dei greci, essa terminò nel 360 con la caduta di Tebe di fronte alle falangi macedoni, nonostante il blaterare di Demostene che non comprendeva la raggiunta unità politica e militare della Macedonia di fronte al millenario frazionismo stragista greco col continuo rovesciamento delle alleanze. Accogliendo le richieste di aiuto di Corcira Pericle mirava anche alla sua flotta perché non fosse nella disposizione di Corinto ed in definitiva di Sparta che vedeva pericolosa ed inarrestabile la potenza della rivale. Ma Corcira era sulla rotta obbligata dei greci verso occidente e controllarla era un colpo per Corinto e Sparta nei rapporti con le loro colonie, in primo luogo Siracusa. Dopo l’Egeo Atene voleva controllare lo Ionio e l’Occidente. In tale propettiva entra in gioco la città di Naupactos per la sua posizione strategica, Atene aveva bisogno di una base navale nel golfo di Corinto per controllare il traffico civile e miltare e Lepanto era la migliore postazione che poteva bloccare Corinto con poche navi a guardia del punto più stretto proprioa sud-ovest di Lepanto. Quando l’oracolo pitico intimò a Sparta di concedere la grazia agli iloti assediati da gran tempo dentro Itome, questi uscirono con salvacondotto indenni e gli Ateniesi li sistemarono a Lepanto che di recente avevano sottratto ai Loccri Ozoli, subito a sinistra entrando nel golfo di Corinto, proprio per lo scontro che avevano avuto quando Cimone oligarchico era andato ad aiutare i Lacedomini contro i ribelli perieci, iloti e Messeni. Portando subito dopo anche Megara dalla sua parte Atene ebbe a disposizione il porto di Pege in fondo al golfo di fronte alla nemica Corinto e quello di Nisea dal lato opposto collegato alla stessa Megara e che già nel 560 era stato occupato da Pisistrato prossimo –tiranno-. Questo porto divenne una succursale del complesso Atene- Lunghe Mura- Pireo ed era un monito ulteriore per Sparta ed Egina. Così Atene poteva spostare le sue navi – mura di legno- a tenaglia intorno al Peloponneso e devastarlo partendo dai porti ad essa vicini dimezzando il costo della flotta, senza bisogno del pericoloso periplo delle punte del Panormo( Malea) e Taigeto(Tainaron- Matapan)a sud esposte sempre a venti pericolosi, ma dominando il fondo e l’imbocco del golfo di Corinto in poco tempo potevano spostare le flotte secondo la strategia di Pericle che abbandonava la terra gli spartani per stancare e consumare l’esercito, mentre con le navi intendeva risolvere tutto . Durante i primi dieci anni di guerra la conquista di Pilo con i prigionieri di Sfacteria e l’occupazione di Citera divennero momenti gravi di Sparta che non sapeva per tradizione opporsi a tali metodi se non ricorrendo alle navi degli alleati che l’altra potenza minacciava con la flotta superiore. Da notare, dopo 24 secoli di guerre e stragi nell’Egeo, che oggi i confini tra Grecia e Turchia sono quasi esattamente quelli che la Persia impose alla Grecia durante la già vacillante supremazia spartana nel 386, con la pace di Antalcida, (preceduta in tal senso da quella di Callia nel 449 già imposta ad Atene): la perdita di tutte le colonie dell’Anatolia egea fino alla linea di costa, lasciando ai greci la piattaforma continentale con tutte le isole. Solo che oggi la Turchia, vera potenza fondamentalista islamica e pericolosamente nazionalista di americana osservanza, è pronta ad intervenire con le armi contro la Grecia per le ricerche petrolifre sotto tale piattaforma: nel cielo e nel mare Zeus e Poseidone, sotto terra Ade e Proserpina per intingere il Profeta nell’oro nero. Si rimanda per brevità al primo e secondo libro di Tucidide nei quali appunto si descrivono le caratteristiche della costa ionica greca e la funzione che, specialmente all’inizio dela guerra del Peloponneso, ebbe la base Navale di Naupactos come base di partenza ed interdizione alle navi in entrata ed uscita bloccando la mobilità della flotta di Corinto, come fu bloccata la flotta tedesca nel primo conflitto mondiale o quella italiana a Taranto. Nel secondo libro (II, 69’1) lo storico precisa: - Nell’inverno seguente, posizionarono nel mare del Peloponneso una flotta di venti navi, agli ordini dello stratego Formine, che facendo base a Napatto controllava e bloccava le navi di Corinto e il golfo di Crisa- Quest’ultimo nome indica il porto che serviva ai pellegrini del santuario di Apollo a Delfi. L’industria della santita è una permanenza nella storia dell’uomo ed ogni epoca ha avuto i suoi luoghi santi e santuari, dove si son verificati prodigi e rivelazioni. Nonsi può negare che il copione è sempre lo stesso enfatizzato dalle gerarchie religiose e sponsorizzato dagli abitanti dei luoghi che col turismo relioso vivono e prosperano come se ci fosse una grande industria con migliaia di operai. Ma in quanto a società minimamente vicina ai prodigi e miracoli aditi non se ne parla per non rovinare l’economia regionale o nazionale. La nostra flotta imboccando il golfo di Patrasso aveva a sinistra il nord ovest. del Peloponneso, costituito dalla –Acaia- che Pausania descrive con lunghe digressioni nel settimo libro del suo- Viaggio in Grecia-
Nel restringimento l’Acaia e la Locride Ozolia si fronteggiano Sicilia e Calabria per cui è facile bloccare le navi avendo alle spalle il porto fortificato di Naupatto.

AZIO

I luoghi descritti spiegano l’ analogia con la battaglia di Azio nel 31 a. C.: Antonio e Cleopatra portano le loro flotte nel Golfo di Arta superando il promontorio dove oggi c’è Anattorio e si trovano subito l’uscita bloccata da Ottaviano che rimane fuori mentre i soldati del rivale sono flagellati dalla malaria. Antonio deve uscire attaccando e con voga forzata si dirige verso la flotta del rivale che invece finge di fuggire indietreggiando. Comincia il lancio di offese con le catapulte ma Ottaviano vuole trasformare la battaglia da navale in terrestre sul mare come avvenne tra Corinti e Corciresi quattro secoli prima per affidare l’esito dello scontro non alle manovre navali, ma ai soldati imbarcati. Quando capisce dopo alcune ore che i rematori di Antonio sono esausti e la sua flotta senza motore ha perso capacità di manovra, fa partire a tutta forza le sue navi tenute quasi in giolito e sperona col rostro quelle nemiche, la battaglia si trasforma con l’arrembaggio in scontro di legionari professionisti di cui non disponeva Antonio che ha la peggio. Questi si trasferisce con urgenza sulla flotta intatta di Cleopatra che con calcolata prudenza si era scansata dalla mischia come farà il Doria a Lepanto, e riescono a sgusciare verso l’Egitto. Se la Spagna non avesse tergiversato lo scontro si sarebbe svolto negli stessi giorni e magari nell’identico posto sul mare: solo Lepanto ed Arta potevano accogliere la flotta turca in quel tratto dell’Egeo greco.


RICORDI

Siamo nell’ottobre del 1571: Famagosta era già caduta tra luglio ed agosto con l’oltraggio alla vita ed alla persona di Marcantonio Bragadin scorticato vivo davanti a turchi e cristiani. Ma anche il suo comportamento arrogante tenuto da vinto e prigioniero irritò i Turchi che lo videro ancora pericoloso in tale ruolo. L’assedio a tale isola veneziana era stato il motivo scatenante della crociata, anche se sempre i Papi la invocavano, essendo un momento di richiamo alla loro autorità. Prima del golfo di Corinto, si trova quello di Patrasso con Missolungi sul lato nord dove morirà lord Byron combattendo per la libertà dei Greci contro i Turchi. Dopo un vistoso promontorio che dal nord restringe la via d’acqua ha inizio il golfo di Corinto, con Lepanto subito sul lato sinistro, fino all’istmo che accoglie a nord-est Megara col porto Pege sul golfo corinzio ed il porto Nicea sul golfo sardonico. Esso unisce con andamento montuoso ed accidentato il Peloponneso di Sparta all’Attica di Atene che si trova a nord-est dopo la Megaride. I due golfi di Patrasso e Corinto formano una clessidra che segna e consuma il tempo che hanno le due formazioni prima dello scontro. Lepanto, la Naupactos della Grecia classica, oggi è una cittadina con caratteristiche generali somiglianti a Tropea: mare, storia, turismo, non sappiamo se pure il suo porto che pure è antico, sia come il nostro inaccessibile ai suoi cittadini. Essa vede sfilare a mezzogiorno le navi che portano i turisti moderni a Corinto verso l’Argolide e le sue città della Grecia omerica con i vari re le cui disavventure pasceranno la letteratura tragica greca. Nella sua storia antica parteggiò per Atene e passò di mano spesso tra Venezia e Turchi, durante la guerra del Peloponneso ( isola di Pelope) fu usata dagli ateniesi come base per bloccare nel golfo la flotta di Corinto. Oggi l’ istmo in fondo è tagliato per permettere il passaggio alle navi di piccolo tonnellaggio, evitando il pericoloso periplo della Morea ( foglia pendula ), oltre che accorciare di molto il percorso. Una ferrovia ed una strada superano il canale di Corinto unendo l’Attica di Atene democratica che è risorta con il Peloponneso di Sparta ( non città ma sinecismo di grossi sobborghi) aristocratica che è scomparsa nella valle dell’Eurota ( acqua che scorre bene). Tale punto strategico per secoli, perché facilmente difendibile per sua natura, fu rafforzato da una muraglia detta Hexamilion. Essa fu innalzata verso il 1420 da Manuele II Paleologo despotes della Morea, che in questi giorni ha avuto un ritorno di memoria per un suo presunto appunto ad un musulmano, citato dal Papa a Ratisbona. Due anni dopo Murat II assediava la Capitale che si salvò provvisoriamente per la ribellione di suo fratello Mustafà, ma la muraglia- maginot fu superata e distrutta l’anno dopo dai Turchi che dilagarono in Morea.


I PRECEDENTI


Subito ad est dopo l’istmo si trova l’isola di Salamina dove Temistocle scompaginò la flotta di Serse. Nella prima settimana di ottobre del 1571 i Turchi vennero a trovarsi in un cul de sac, anche volendo per tattica evitare lo scontro non avevano via d’uscita, se non trincerandosi nel porto e sarebbe stata la mossa vincente senza combattere, l’istmo di Corinto non era stato ancora tagliato. La flotta cristiana sfilando Prevesa, Leucade, Itaca, Cefalonia (quanti miti e tragedie per noi in questi luoghi!!) che lasciò la notte tra il 6 e 7 ottobre 1571, infilò in mattinata il Golfo di Patrasso ad oriente verso Lepanto, dove sapeva trovarsi il nemico. La coincidenza (divina armonia prestabilita di Allah-Dio) volle che la stessa mattina i Turchi avessero lasciato pur essi di malavoglia Lepanto per lo stesso motivo: dare battaglia. Dopo il fallimento alla Prevesa nel 1538, per tradimento di Andrea Doria, Venezia pagava ai Turchi un tributo e Carlo V si era preoccupato solo del Magrheb perché da quei porti i pirati flagellavano tutta la stessa Spagna. La Calabria fu devastata dai pirati e Francesco I spinto ad allearsi col Solimano che gli manda nel porto di Tolone l’armata del Barbarossa che risalendo il Tirreno - fa all’Italia il pelo, tornando indietro il contropelo - con migliaia di schiavi trascinati nelle sentine puzzolenti delle fuste. Tranne Flavia Gaetani, figlia del castellano di Reggio che catturata abbaglia con la sua bellezza l’Amir che la conduce sulla Capitana dove diventa subito musulmana e sua sposa. .


LE FLOTTE SI AVVISTANO


Veniero sa che allora Andrea Doria antenato di Gian Andrea che ora si trova in formazione di attacco, provocò quell’esito tanto nocivo a Venezia, deliberatamente per ordine supremo. Avanzando egli scruta in lontananza Alì Pascià, ma tiene d’occhio l’ala destra del suo schieramento diretta dal Doria per spiarne le mosse che possono diventare equivoche. A Barbarossa era successo nel 1546 Dragut cui successe nel 1554 Piyale Pascià fino al 1568. Durante l’ammiragliato di quest’ultimo ci fu l’incursione su Ciaramiti, da dove si vuole siano stati portati via gli sposi ed i convitati, dai Turchi saliti da Formicoli. In questa occasione il casale di Santa Domenica fu risparmiato per intervento della Santa stessa. Quando a Lepanto si avvistarono il vento era favorevole ai Turchi, ma negli scontri di tal genere si evitava per la necessità di rapide ed impreviste manovre di usare la vela e si ricorreva ai remi mossi dagli schiavi o forzati incatenati ai banchi su diverse file a seconda della nave. Il vento poteva essere utile o dannoso per la cortina fumogena degli spari. In queste circostanze la frusta degli aguzzini raddoppiava gli sforzi degli incatenati fino al deliquio e se la nave affondava li trascinava in fondo senza possibilità di salvezza. Ogni flotta incatenava gli infedeli dell’altra religione. Da qui la razzia di uomini come carburante delle navi. In questa circostanza non mancavano tra i cristiani dei volontari. La battaglia avvenne quindi al termine del golfo di Patrasso, poco prima che questo si restringa tra il promontorio e la sponda a sud, dopo ha inizio il golfo di Corinto, anche se gli fu dato il nome di Lepanto, che Tropea ricorda appunto nella corta e strette strada,quasi vicolo, che unisce largo Ruffa a Largo Calzerano, dove abbiamo lasciato il nostro pilota Salvatore Di Meglio. Una recente esplorazione subacqea ha individuato i rottami di navi affondate. Siamo ad oriente delle isole ioniche di Corfù, Leucade o Santa Maura, Itaca, Cefalonia, Zante o Zacinto ed altre minori dominio veneziano da secoli, ma ora sotto l’avanzata turca che stava privando la Repubblica di ogni base, ultima Cipro caduta due mesi prima di Lepanto. Un secolo dopo Venezia avrebbe perso anche Creta che diverrà Candia. Per questo è il Veniero che cerca battaglia anche da solo, di fronte ai sospetti sugli Spagnoli. La stessa Lepanto era stata tolta con altre fortezze da Valona a Corone al termine del Quattrocento ai Veneziani che erano riusciti a difendere qualche isola e la base strategica di Prevesa con l’insenatura di Arta, perdendo però il golfo di Patrasso e Corinto che include Lepanto. Al momento dello scontro solo le isole alle spalle della flotta sono con difficoltà controllate da Venezia con il pagamento puntuale di tributi. Venezia ostentava lealtà per la forza turca, ad essa interessa il monopolio del commercio da cui ormai Genova e Firenze in questi mari sono escluse.


VERSO LO SCONTRO


Sono di fronte per la Santa Lega all’entrata del golfo 207 navi di vario ordine e grandezza: 105 di Venezia, 81 di Spagna, 12 del Papa, 9 di Malta, Genova e Savoia, 36 vascelli e soprattutto 1800 cannoni. L’armata turca non era da meno per navi e vascelli, ma era inferiore per potenza di fuoco. Si contavano circa 170.000 uomini coinvolti. Le flotte non dimostrano fretta di venire alle cannonate, si avvicinano lentamente, nessuno forza il passo, sembra che vogliano evitare lo scontro. Avanti la flotta cristiana ci sono sei grandi galeazze veneziane, cui bruciano le notizie di Cipro, dietro al centro la Capitana di D. Giovanni affiancata da quelle di Colonna e Veniero. Era il cuneo che i Turchi non provarono ad evitare aggirandolo nella tattica della battaglia e fu ad essi fatale. L’ala sinistra a nord era coperta da Barbarigo e quella destra a sud dal Doria che aveva di fronte Occhialì che nella sua lungimiranza avrebbe voluto evitare lo scontro: la flotta cristiana si sarebbe dissolta da sola in pochi giorni. Sulla Capitana cristiana si issa il vessillo donato dal Papa, fatto di seta azzurra e raffigurante Cristo e su quella turca lo stendardo venuto dalla Mecca con i versetti del Corano ricamati in oro ed il nome di Allah ripetuto 999 volte:- ai fedeli divino auspicio e ornamento; nelle degne imprese Allah protegge Maometto-. Invocando lo stesso Dio di Abramo fra poco avrebbero dato luogo ad una carneficina, non ultima, con armi benedette dai rispettivi sacerdoti che abbondavano su ogni nave. Il mare si abbonaccia ed un nuovo leggero vento di maestrale favorirà i cristiani per la visibilità nei tiri. Nella lenta navigazione di avvicinamento a tiro di cannone, quanti pensieri, speranze e paure diverse passarono nell’animo di decine di migliaia di imbarcati a seconda della loro origine e cultura! Ognuno sentiva che tutto gli poteva accadere, dal più bello al più brutto:decine di migliaia di schiavi incatenati ai remi su doppia o triplice fila nella chiglia della nave senza vedere per giorni il sole come gli asinelli nelle miniere, sentivano che fra poco gli aguzzini li avrebbero flagellati con la frusta per le rapide manovre che una battaglia impone, ma speravano anche, da entrambe le parti, confidando in Cristo o in Allah, che la cattura della loro nave li facesse passare dalla puzza della sentina alla coperta della stessa dando in cambio i remi ai loro aguzzini, nella pirateria avveniva di frequente. Ma anche sapevano che fine orrenda avrebbero fatto in caso di affondamento o incendio del loro vascello, nessuno avrebbe cercato di salvarli liberandoli dalle catene. E certo ognuno in quel momento si ricordava del sempre dolce luogo natio da dove un pirata mussulmano o cristiano sbarcando lo aveva trascinato schiavo nel fondo di una nave e forse si sforzava di ricostruire per i suoi occhi i familiari perduti. Ogni luogo è brutto o bello a seconda degli affetti o ricordi che ci legano, il cuore si lascia qui, e solo in questo caso –va dove ti porta il cuore- se no ognuno va dove porta la possibilità di vivere. Passando alle navi dei comandanti, dette le Capitane, il Venièr, certamente vecchio rispetto a don Giovanni ed al Colonna che pur insieme erano lontani dai suoi anni, era proprio lui che andava più lontano col pensiero. Sapeva che una vittoria gli avrebbe dato il dogato, perché non doveva sentirsi vecchio, sapeva benissimo che in quelle acque agli inizi del 1200 lo aveva preceduto quale comandante, ma con poteri assoluti anche politici, il doge Enrico Dandolo. Ma le cose erano cambiate, i Turchi stavano togliendo tutto e soffocando il commercio di Venezia. Di fronte al Dandolo che diresse personalmente le operazioni, cieco ed ultra ottantenne, il Veniero a suo modo doveva sentirsi pure lui giovane. Conosceva il ruolo di Venezia nei secoli in quelle acque, si rendeva conto che privata del commercio in quei mari la repubblica sarebbe stata accoppata dalla Spagna in Italia, magari cedendo al Papa la foce del Po’. Egli doveva convivere con il Doria di Genova, entrambi ricordavano la lotta tra le due repubbliche, e lasciando alla sinistra le Curzolari con la flotta diretta all’Egeo sempre i Veneziani erano costretti ad un infelice ricordo della loro disfatta navale ad opera di Lamba Doria genovese l’8-9-1298, essendo loro comandante Andrea Dandolo, certamente antenato di quello stesso Dandolo che nel 1570 era stato costretto ad arrendersi a Nicosia. Alle Curzolari era stato catturato Marco Polo e certo il Veniero conosceva il Milione. Ma ora la necessità imponeva di stare accanto ad un inaffidabile Doria, alleato di una potenza che Venezia doveva temere almeno quanto i Turchi. IL Colonna certamente sapeva che in quella regione un legato papale, Giovanni Colonna, durante le lotte dei Greci per riprendersi l’impero bizantino, era stato fatto prigioniero e solo l’intervento energico del papa gli aveva ridato la libertà. Cosa avrebbe fatto ora il Papa con un altro Colonna prigioniero? tutto poteva capitare. Quando il tempo che precede un esito decisivo si allunga, tutti i pensieri passano per la mente ed ogni buon auspicio cerca, invano, di scacciare le paure, anche se al momento dell’urto non c’è distinzione. Forse il Doria si poneva il problema se presentarsi a Filippo II con una vittoria o con una battaglia evitata, riportando indietro l’armata intatta, come ancora qualcuno sostiene. Pensiero che non sfiorava l’esuberante ed altezzoso don Giovanni, ansioso di mettersi in mostra sullo scenario europeo, con preoccupazione dell’augusto e schivo fratello. Penetrare i sentimenti dei capi turchi è più difficile. Ali Pascià pregustava il momento in cui avrebbe portato i doni della vittoria al sultano, compreso qualche comandante cristiano per il quale chiedere un favoloso riscatto. Forse Occhialì si rammaricava di non aver potuto da solo scegliere la strategia dello scontro, egli che pur sapeva le catene e la frusta che affliggevano nella carena della sua nave anche tanti schiavi calabresi. Tutte ipotesi, ma intanto le flotte si avvicinavano col seguente schieramento:

SCHIERAMENTO
( Come risulta da Guido Antonio Sarti: La guerra contro il Turco a Cipro e Lepanto, Venetia , Stab. G. Bellini, 1935.)

a sinistra a destra
AGOSTINO BARBARIGO MOHAMMED SAULAK
Secondo di Veniero Governatore di Alessandria

C MARC. COLONNA
A navi del papa
P al centro
I
T DON GIOVANNI--- FRANCESCO DUODO ALI’ PASCIA’
A 6 galeazze di Venezia Ammiraglio Turco
N
E SEB. VENIERO

a destra a sinistra

GIAN ANDREA DORIA OCCHIALI’
Squadra spagnola Pascià di Algeri
Con flotta propria



LE DIVINITA’ GRECHE INFASTIDITE

Tale era la formazione al momento che verso mezzogiorno di Domenica 7 ottobre 1571 si aprirono a cannonate le ostilità. Forse in quel momento a qualcuno dei Calabresi colti, la maggior parte era analfabeta come la stragrande maggioranza di tutti i soldati, venne in mente la profezia dell’Abate Gioacchino( ancora non formalmente assolto dalla accusa di eresia): la Grecia aveva sfidato con perfidia la Santa Romana Chiesa e per punizione sarebbe stata dominata dai Turchi. Si iniziò con i due colpi di cannone delle Capitane di don Giovanni ed Alì Pascià.
Anche se a mezzogiorno fu svegliato il dio supremo di tutta la Grecia antica: Giove Cronide ( Dio’s- Zeus; figlio del castrato Crono e di Rea, che oltre a lui procrearono Poseidone per il mare, Ades per i morti, Vesta per il fuoco sacro e la cura della verginità recuperabile, Demetra che quando cercò di sottrarsi al furore erotico del fratello Posidone invano si trasformò in giumenta mentre l’altro la possedette diventando stallone, Era sposa acida di Giove che ogni giorno gliene affiancava un’altra.
Il poveretto stava riposando dopo una delle tante scappatelle in Etiopia per provare un colore esotico e meditava in che cosa trasformarsi per la prossima avendo già adocchiata e prenotata la favorita come facevano i sultani dando una sguardo all’affollato harem. Sua sorella e moglie Giunone meditava come punire l’ennesima rivale.
Zeus al primo rumore che lo infastidì sui quasi tremila metri dell’Olimpo volse lo sguardo ai Tessalonicesi della lettera di S. Paolo e notò che tutto era tranquillo. Persistendo il rumore che gli aveva tolto il sonno ed i sogni scrutò in senso orario potendo vedere tutto l’Egeo fino alla Turchia e lo Ionio fino all’Italia: Maratona e le Termopili erano calme con i loro eroi dormienti dopo aver il sangue per la patria versato, constatò che lì c’era soltanto una religiosa pace. Allungò lo sguardo per vedere se Greci e Troiani ancora si azzuffavano per il corpo di una donna e vide le obliate rovine di Troia coperte da spesso terriccio..
Si ricordava che circa mille anni fa da Nicea, Calcedonia ed Efeso lo avevano molestato i vescovi e patriarchi del Dio che lo aveva spodestato, discutendo con calore e rancore dell’origine e della natura del Cristo, poi sembrava si fossero calmati. In quella zona non vide né Persiani, né Greci o Turchi e Bizantini che si affrontavano. Tra le isole dell’Egeo nessuna era esplosa come Santorino al tempo della sua giurisdizione causando la fine della civiltà minoica. Il minotauro non reclamava da Creta ora veneziana il sacrificio delle fanciulle ma solom schiavi da incatenare ai remi per la grandezza di San Marco, Teseo lo aveva ucciso. Davanti al Pireo presso Salamina c’era soltanto la barca di qualche pescatore. Fissò lo sguardo su Corinto e si assicurò che il rumore non era causato dalla botte rotolante di quel pazzo Diogene, dalla Macedonia le formiche Mirmidoni non minacciavano più Corinto ed in Grecia ormai sotto il dominio degli Dei che lo avevano spodestato rappresentati con il nome di Allah e Cristo tutto nel cuore degli uomini e donne era rimasto come ai suoi tempi. Volgendosi ancora un poco verso Esperia proprio dopo che finisce restringendosi il golfo di Corinto con a nord Lepanto ed a sud Panormo e comincia quello di Patrasso, notò due grosse formazioni navali che arrancavano l’una verso l’altra. Volle sperare per un momento che i due colpi di cannone iniziali fossero stati a salve e di benvenuto, perché gli sembrava assurdo che la Mezzaluna e la Croce fossero là per massacrarsi avendo entrambe invocato lo stesso Dio e gli stessi Profeti, tranne l’ultimo. Pensò che la flotta turca andasse incontro a quella cristiana in parata d’onore e che insieme avrebbero poi raggiunto Olimpia o Delfi per rinnovare i giochi a lui ed agli dei tanto cari. Ma quando vide il fumo ed udì il rimbombo delle cannonate che colpivano le navi si dovette ricredere, pagani, islamici o cristiani erano la stessa cosa, infatti nei secoli si scambiavano le basiliche o si rubavano le pietre per costruirle. Subito convocò una seduta straordinaria del suo Parlamento celeste( per sincero rispetto alle due religioni che si massacrarono a Lepanto non lo chiamiamo Paradiso che significa giardino delle delizie, ognuno quelle che preferisce) allargata a dei e semidei compresi satiri e ninfe del bosco e del mare per allietare la seduta ed adocchiando le più belle e studiando la prossima trasformazione dopo quella in cigno o in pioggia. Ordine del giorno: Dell’origine e dell’ufficio e del fallimento delle Religioni. Mentre Ermete notifica la convocazione urgente con pergamena egizia (dico con egizia perché la scienza degli Erculei discusse a lungo se l’Eracle fondatore di Tropea fosse greco o egizio, la scelta cartacea di Giove risolve il problema, ma ci sarà anche la prova del DNA facendo firmare ad ognuno la formula di convocazione della quale poi cedette la proprietà intellettuale ai Capitoli di Tropea del 1703 in onore dei tanti Tropeani sulle navi.) Noi seguiamo la battaglia che gli dei vedranno dall’alto tra nettare e libagioni, e pericolose danze perché le ninfe sinuose arrivarono tutte con seno e coseno coperti dalla loro pelle come le vediamo nei pittori del nostro Rinascimento e ancor prima nelle statue della stessa Grecia che oggi quasi tutte mutilate sono sparse per i musei del mondo, spesso refurtiva con profusione di dollari. Questa è un’altra violenza dei portatori di libertà. Come vorrebbero apparire e quasi appaiono tante nostre baldracche dive nella tv vendendo se stesse e mentre parlano di emancipazione, ruolo e valorizzazione della donna si svestono non avendo altro charme umano o culturale, forse anche per compensare quelle musulmane troppo vestite, anche se non manca qualche statua con lo sciador.

LA BATTAGLIA
nelle acque fatali

Si comincia con Alì che punta a sfondare al centro per superare l’inferiorità di fuoco. Fu manovra sbagliata da cui dipese il destino dello scontro: le galeazze al centro, vere e proprie corazzate di legno di nuova concezione che al contrario delle galee potevano sparare da tutti i lati, rovinano il centro turco con Alì che si trova accerchiato perché non riscì a sfondare. Occhialì avrebbe ottenuto di fatto la vittoria senza combattere: egli era uno stratega che sapeva manovrare anche l’animo dei nemici. Si crea un groviglio al centro intorno alla Capitana di don Giovanni accerchiata e soccorsa da tutti, ma i Turchi non sfondano e buscano gravi perdite che li fanno vacillare. Superando con gravi perdite lo sbarramento delle galeazze le navi turche già danneggiate ed in disordine non hanno più comando unico, si trovano al centro accerchiate e di fronte alle galee cristiane efficienti ed in linea che le fermano, avendo quelle perduto possibilità di manovra e di fuoco nel groviglio da esse stesse formato, proprio come, forse nel medesimo tratto di mare,venti secoli prima, il navarco ateniese Formione aveva chiuso in un cerchio la navi corinzie che si fracassavano tra di loro. La manovra di aggiramento ed accerchiamento se la riservano sul lato sud di fronte a Patrasso Occhialì e il Doria. Si ricorre all’arrembaggio, alla lotta corpo a corpo, invocando Allah e Cristo. Due battaglie separate si svolgono per difendere o prendere le navi dei supremi comandanti. Don Giovanni viene salvato con dure perdite, Alì viene preso e ucciso e sulla sua nave si innalza lo stendardo cristiano. Barbarigo combattendo è gravemente ferito e poi morirà, ma ferma i Turchi sul lato sinistro, impedendo a Scirocco di aggirarlo anche perché da quel lato c’era il pericolo di insabbiamento. A questo punto diventa protagonista Occhialì che attendista audace approfitta della manovra dilatoria ed insperata del Doria che si distende sul lato destro e si infila nello spazio tra lo stesso ed il centro con un’incursione che colpisce a destra e sinistra mirando ad un accerchiamento del Doria che con minor numero di navi si era troppo disteso con manovra sospetta di tradimento secondo Venier. Occhialì cattura la capitana di Malta, la Fiorenza del Papa e numerose galee puntando all’ala destra della retroguardia. A questo punto tutti convergono contro di lui dal centro abbandonando le numerose prede rimorchiate, a tale compito si volge con ritardo anche il Doria che si trova in difficoltà ma non può fare a meno di impegnarsi perché rischia personalmente. Ma il convergere di rinforzi dal centro, ormai perso dai Turchi, in aiuto del Doria inducono Occhialì ad abbandonare tutto quanto predato e sganciarsi per salvare quanto può delle sue navi. Inutile cercare la gloria privando l’impero di quelle supertiti navi necessarie ad una eventuale assalto conseguente dei cristiani ad Istambul, che poteva ma non fu provato. Anche il Doria salva le sue navi a giudizio non infondato del Veniero assistendo quasi neutrale allo scontro, al termine il Veniero potendo lo avrebbe impiccato non senza ragione. Infatti il tentativo di Occhialì stava per cambiare alla fine le sorti della battaglia, per la quale egli non aveva lo stesso piano del suo capo da qualche ora in braccio ad Allah massacrato con i suoi due figli. Ormai si combatte da ore e parte dei Turchi avevano esaurito le munizioni e lanciavano contro i cristiani arance che con scherno questi ributtavano sulle loro navi. Il mare è cosparso di cadaveri e naufraghi alla ricerca disperata di salvezza anche verso le infide rive dove tanti Greci sono spettatori. I cristiani forzati del remo furono liberati ed i soldati nemici fatti schiavi, sempre che la nave non li avesse trascinati insieme in fondo al mare. Se sullo stretto di Messina dalle sponde si erano viste sfilare le navi con eleganza ed con etichetta di precedenza, la cui inosservanza poteva sfociare nello scontro, qui gli abitanti di Kalò-Achaia e di Missolung assistevano ad uno scontro dove le regole erano solo quelle della audacia disperata che sola poteva con fortuna salvare la vita. L’estremo tentativo di Occhialì ne è la prova e farà la sua ulteriore fortuna di Ammiraglio al posto di Alì.
Per le perdite di uomini valori approssimativi: si ritiene che siano morti 10.000 turchi ed altrettanti prigionieri, distrutte 50 galere turche ed oltre cento catturate. Il bilancio cristiano: liberati dal remo 12000 cristiani catturati in anni di razzia nei paesi cristiani, il loro posto veniva subito dato ai soldati nemici catturati che poco prima erano in coperta: era la prassi anche in scontri minori. Dodici galere perdute, 7.500 morti. Il Veniero mandò un nunzio per informare Venezia ricevendo l’ordine di uccidere discretamente tutti i capi turchi catturati. Egli presenterà relazione l’anno seguente alla Repubblica.

LA CARTA GEOGRAFICA E STORICA

Se osserviamo sulla carta geografica e storica il luogo della battaglia, è facile intendere come nel raggio di duecento Km si siamo svolte battaglie epocali in quanto decisive per il corso della storia mediterranea, quale che sia stato. Quelle che oggi si chiamano ancora scontri di civiltà, mentre si invoca la libertà di pensiero per tutti. A nord di Atene c’è Maratona dove il 10 agosto del 490 a .C. al comando di Milziade i Greci fecero sentire ai Persiani- la virtù greca e l’ira-, a sud della stessa capitale greca si trova Salamina ove Temistocle dieci anni dopo sbaragliò la grande flotta persiana privando Mardonio, comandante dell’esercito a terra di ogni assistenza, ed anche allora lo scontro fu seguito col cuore in gola dagli Ateniesi dalle sponde di Egina dove erano stati sfollati sgomberando l’Attica abbandonata. Sotto Tebe, a Platea e Tespi gli Spartani poi avevano fermato il biblico per numero esercito di re Serse. Inutile dire che tali eventi a posteriori vennero ispirati agli oracoli delle divinità, la Pitia in primo luogo.
Tra Corfù e Leucade si trova il golfo di Arta con il promontorio di Azio-Anattorio dove il 2 settembre del 31 a.C. lo scontro tra Ottaviano ed Antonio unito a Cleopatra pose fine alla diarchia della Repubblica che tale evento avviò ad Impero anche di nome. Per passare dallo Ionio all’Egeo si doppia Capo Matapan dove la Invincibile Armata dei due bassotti
( l’uomo della Provvidenza ed il sovrano Augusto re d’Italia ed Imperatore d’Etiopia e d’Albania), nel 1941 al comando dell’ammiraglio Iachino, si scontrò con quella inglese (comandante Cunninghan) e cinque nostre grosse navi ora giacciono in fondo al mare con migliaia di marinai maciullati dalle eliche inglesi. Tragico prologo di ecatombe della nostra flotta ancora per anni con i misteri che daranno luogo ad un celebre processo a Milano.
( Luigi Rizzo: Navi e Poltrone)
Tra Patrasso ed il cimitero delle navi italiane di Matapan, si trova la fortezza di Navarino, opera di Occhialì, sempre in seguito punto di partenza dei Turchi contro la Calabria. Tale insenatura ha alle spalle la città di Pilo, il cui re Nestore sopravvisse alla uccisione dei suoi undici fratelli, fu argonauta, per la sua saggezza Apollo gli prolungò a tempo indeterminato non il lavoro ma addirittura la vita. Omero lo porta a Troia con gli altri re greci all’età ormai di trecento anni e facendogli compiere il suo dovere con il corpo e con la mente.Dentro l’insenatura furono intrappolati sull’isola di Sfacteria e fatti prigionieri dagli Ateniesi trecento Spartani, numero enorme in rapporto agli spartiati cittadini a pieno titolo ed autorizzati a combattere. Nestore forse era ancora vivo o si aggirava la sua anima sulle alture che dominano la baia di Navarino quando nel 1827 le navi da guerra unite di Francia, Inghilterra e Russia affondarono tutte le 64 navi turco-egiziane che in quel momento si trovavano in Grecia per reprimere la lotta per l’indipendenza che comunque il popolo greco conquisterà. Tutto giace nelle mute e profonde acque di Navarino con immensi tesori che si pensa di recuperare. Ma lo scopo delle tre potenze era quello di cominciare a spartirsi l’impero turco verso il declino, come avverrà in seguito fino al 1918, senza alcun riguardo per gli Arabi che al posto del dominio turco declinante vedevano sostituirsi quello europeo più sprezzante per diversità di lingua, cultura e religione, e più opprimente per la superiorità delle armi. Nella mala spartizione dell’impero turco è la radice di tanti orrori presenti, lo ha dimenticato il primo ministro dell’Inghilterra corresponsabile con la Francia di tanto scempio, e da dieci anni è stato soltanto il paggetto degli Usa.

LA SPARTIZIONE DELL’IMPERO TURCO


Le conseguenze tragiche dell’evoluzione di tali occupazioni e poi dei Mandati si allungano nel presente e sono attuali se si vuole comprendere e fermare la criminalità del terrorismo che mai sarà fermato con la forza. Le esecrazioni sulla sua barbarie, che è fuori dubbio, servono all’Occidente solo di appoggio mediatico per opprimere e massacrare interi popoli per motivi strategici militari ed economici di violenza e rapina delle loro risorse. La comprensione storica della sua origine può aiutare a togliere a questo cancro la flora batterica diffusa nel mondo arabo di cui si nutre, come si cerca di fare con il cancro umano del quale, solo studiando la eziologia interna ed esterna allo stesso corpo, si può sperare di avviarne la sconfitta anche se in tempi lunghi.

LE TERMOPILI

La recente – americanata- del film – I Trecento- è un falso storico per il messaggio che contiene: il popolo americano difensore della libertà degli altri popoli. In queste note è chiaro cosa intendono: ogni regime, anche il più sanguinario, di ogni Paese sulla terra è ottimo per noi e non ci sono problemi di diritti umani se noi possiamo sine cura portar via da quel Paese tutte le materie prime che servono alla nostra economia ed introdurre i nostri prodotti. Se questo diventa non possibile abbattiamo i governi democratici perché tali non sono secondo la nostra cifra, sappiamo insegnare noi la repressione con la tortura e deportazione a quelli che contestano i nostri governi fantocci, ed anche intervenire direttamente se necessario. Altro che impero del male, del male e del malaffare. Leonida grida la libertà ai Persiani, dimentico della schiavitù degli Iloti in Messenia e Laconia sul cui lavoro coatto con regole disumane si fondava l’economia che reggeva la ristrettissima oligarchia di esaltati che alla fine condusse Sparta a scomparire dalla storia abbattuta dalla piccola Tebe che non era più tranquilla dopo che la città dell’Eurota aveva umiliato Atene aprendo la strada alle formiche macedoni. La tragedia si ripeté nella Magna Grecia, nell’Italia dal Mille al Millecinquecento ed in Europa fino al ventesimo secolo. Ma nessuno spiega perché non ha insegnato niente a nessuno. Dove sta la comprensione e la possibile vie di uscita? Tutti i credo civili e religiosi che si sono dichiarati miracolosi si debbono fare da parte, anche se nessuno appare all’orizzonte. Se poi le cose debbono andare sempre così, il loro fallimento è evidente. La cretina sceneggiata si rivolge contro l’impero americano a seconda il punto di osservazione: ogni vento di Dio islamico si ritiene un soldato di Leonida per fermare l’aggressione americana votandosi alla morte non per gloria che suggerisce superbia, ma sicuro che Dio lo accoglierà nelle gioie del paradiso. Come fermarlo? Ammazzeremo decine di milioni di fanatici islamici? Cercare di intelligere.


CEFALONIA: LE NOSTRE TERMOPILI


Noi Italiani abbiamo nei luoghi dove sta sfilando le flotta crociata la nostra vera Termopili, detto senza rancore e disprezzo oggi per nessuno che voglia ragionare. Cefalonia è la Termopili dell’Italia che iniziò a riscattarsi dopo la tragedia in cui la trascinarono megalomani e folli di sangue e potere scimmiottando colui che fu la summa bimillenaria della cosiddetta civiltà europea e delle sue radici. Quando ai nostri soldati della divisione Aqui fu intimato di consegnare le armi dopo l’8 settembre 1943
( capolavoro dell’altro infame bassotto solo preoccupato di salvare il suo trono facendo massacrare il popolo italiano e che si vorrebbe trasferire nel Pantheon profanandolo), ai comandanti tedeschi fu opposto un netto rifiuto pur sapendo che i rapporti di forza li condannavano a morte sicura. Anche loro come Leonida dissero ai tedeschi:- Venite pure a prenderle-. In tutte le isole dell’arcipelago che la nostra flotta crociata fino alla mattina del 7 ottobre 1571 costeggiava quasi per diporto morirono combattendo senza arrendersi circa 10.000 soldati: Da qui trarremo gli auspici- .
Mentre qualche anno prima più a nord era stata mandata la divisione Julia a spezzare i reni alla Grecia partendo dall’- Albania quinta sponda d’Italia-, opera di Pio Bondioli, Milano 1938. La fine di quella divisione è a tutti nota, preludio di quelle mandate sul Don, sempre per emulare le divisioni hitleriane. Cefalonia è stata la nostra Termopili, ma c’è chi in alto loco in Italia irride a quel sacrificio latitandone la memoria e l’anniversario


SENDE LA SERA

La battaglia di Lepanto fu detta scontro di civiltà tra cristiani ed infedeli, ma gli episodi antichi e recenti accennati meritano riflessione più attenta e rimandano prima che alla storia, alla filosofia della storia.
Gli accorsi sulle alte sponde del golfo di Patrasso assistettero ad una carneficina durata fino a sera, quando l’oscurità ed il mare che riprese ad agitarsi provvidero a mescolare i resti mortali e sfigurati in mare, mussulmani e cristiani, figli di un solo Dio, della generale mattanza proprio come nella tonnara di Bordila nel mare di Parghelia. Ogni nave catturata portava allora con se un bottino a volte notevole di ricchezze cui si sommava il valore venale dei prigionieri che venivano messi al remo o venduti come schiavi all’asta nei mercati appositi. La pratica era reciproca. Per la divisione di tutto il bottino i capi cristiani litigarono a tal punto che per poco non incrociarono le armi, anzi i cannoni delle loro navi in nuova battaglia tra di loro. Dovevano rispondere ciascuno ai loro- armatori- ma anche arricchirsi personalmente, a parte il Veniero che doveva rendicontare ad una Repubblica assai attenta a queste cose. Ancora nelle acque sanguinanti si cominciò a valutare i meriti di ogni squadra navale, singolo comandante di nave ed equipaggio. In seguito molti rivendicheranno anche nella discendenza la presenza gloriosa e coraggiosa a Lepanto per –campare-di rendita, esagerando i meriti e l’azione propri di quel giorno. Si trattava ora di rientrare ciascuno alla propria terra con lauto bottino e cogliere i tributi e gli onori.
E l’esito dello scontro si vuole sia giunto per miracolo al Papa mentre era in atto e lo partecipò ai presenti.

IL RITORNO

I vincitori si avviano al ritorno ed ai primi di Novembre don Giovanni entra nel porto di Messina accolto con gli altri in città con i festeggiamenti dovuti. Fra Lattanzio Arturo che aveva fatto gli auguri alla partenza, fa ora le congratulazioni nel Duomo pubblicate col titolo-: Predica della Vittoria Navale contra i Turchi l’anno MDLXXI, il settimo d’ottobre alla presentia del Serenissimo Don Giovanni d’Austria, tornato vittorioso in Messina, del R.P.M. fra Lattanzio Arturo di Cropani di Calavria dell’Ordine Minore Conventuale di S. Francesco, Teologo di Mons. Vescovo di Sqillace-. Ma per il ritorno dei Crociati, che poi erano uomini da diversi mesi sulle navi e senza toccare terra, confluì a Messina una moltitudine di gente intesa anche a trarne profitto offrendo ai reduci, che si ritenevano tutti in possesso di denaro, ogni tipo di servizio o merce. Anche e soprattutto il sesso a pagamento, facendo affluire a Messina per migliaia di soldati donne volontarie o schiave forzate che fossero. Per evitare che tanto accadesse in maniera in quel momento vistosa in città, si impose che quella turba restasse dietro le mura della città ad esercitare ogni forma di commercio lecito o illecito. Da allora rimase l’espressione- gente o persona d’arredu i mura- per indicare indole poco pulita, come se quelli dentro le mura o dentro i palazzi ne fossero immuni, allora ed oggi.
D. Giovanni toccò Napoli e dovunque fu celebrata la vittoria nelle chiese , quadri della Madonna della Vittoria, divenuta protettrice di Catanzaro, furono a ricordo fondate Confraternite del Rosario. Ma la vita non sappiamo mai quello che ci riserva, nel bene e nel male. Il primo lo consideriamo normale, il secondo una iattura che –doveva capitare proprio a noi-.

VENEZIA DI NUOVO SOLA

Sciolta la flotta Venezia si trovò di nuovo sola contro i Turchi capaci di abbatterla anche per mare con la ricostruita forza navale di Occhialì: accettò di pagare 200.000 ducati l’anno per svolgere tra Egeo e Ionio quel commercio senza il quale sarebbe morta. Per essa, in termini economici, Lepanto fu un disastro, pagando aveva sempre tanto da guadagnare.
Filippo II si trovò con una vittoria navale indesiderata perché allentava la pressione turca su Venezia, con un fratellastro molto in vista in Europa, estroverso ed ambizioso, quanto lui era calmo e schivo.

L’OLIMPO DISCUTE

Tornando agli dei raccolti da Giove in seduta straordinaria presero posto sul loro monte santuario a seconda della loro funzione ed importanza e Iuppiter dichiarò aperta la seduta avvertendo che solo dell’ordine del giorno si poteva parlare per evitare che le rivalità degenerassero: dovevano dimostrare alle nuove religioni che si lottavano tra di loro ed al loro interno che nessun progresso di giustizia e pace avevano indotto nell’umanità pur avendo messo loro in soffitta come falsi e bugiardi. Ma non fu possibile. Giovè chiese a Minerva- Athena che era nata dal suo cervello colpito da Vulcano, di fare l’appello dei presenti, mancavano Ares o Marte, Afrodite detta Venere ed Efèsto detto Vulcano ed il Padre degli dei dichiarò assenti giustificati i suoi figli e la dea dopo aver parlottato con Mercurio che assicurava la notifica. Per assistere all’evento era grave che mancassero il dio della guerra ed il fabbricatore di armi, e la dea che portava fra gli uomini l’amore. La guerra aveva avuto inizio nella terra della Ciprigna e si stava insanguinando Zacinto mia, che te specchi nell’ onde- del greco mar da cui vergine nacque- Venere, e fea quelle isole feconde col suo primo sorriso,….. Era ancor più grave la sua assenza, la guerra era cominciata un anno prima proprio per l’isola di Cipro ed ella non volle rinunciare al suo ennesimo impegno d’amore che trovò migliore di quelle noiose conversazioni e dello spettacolo delle stupide criminali armate che si massacravano. Opinione rispettabile.
Molti volevano spiegazioni facendo volgari insinuazioni sul figlio che Giove aveva azzoppato per aver difeso la madre Giunone che lo accusava per i continui tradimenti.

Era grave – l’addio alle armi- di Marte bellicoso dio della guerra.
: Intanto le cannonate lo costringevano ad alzare la voce per farsi ascoltare dagli dei che vedevano il mare arrossarsi con il sangue di migliaia di morti e si domandavano perhé mai gli uomini li avevano pensionati per Cristo ed Allah se niente di fatto era cambiato tra di loro. Allora compresero l’attualità dell’argomento all’ordine del giorno e concessero a Giove di introdurlo. Questi aveva cominciato col dire che da oltre ventimila anni le religioni servivano ad alcuni per dominare gli altri perché se ne fa un uso di potere dimenticando i loro principi fondatori, per cui una succederà all’altra ed al loro interno ci saranno sempre le guerre per il potere –come succedeva fra di noi- precisò. Stava chiedendo aiuto a Minerva per spiegare che dalla sua esperienza solo per il potere, il denaro ed il sesso si accaniscono gli uomini che comunque contano, ma non riuscì a completare il discorso.

L’ANNUNCIO DI ERMETE

Ermete piombò nella reggia dell’Olimpo e dopo uno sguardo furtivo alla sfilata adamitica delle ninfe, gridò ad alta voce – Li ha catturati- notizia che avrebbe dovuto dare a Giove in forma riservata.
Questi assicurava che lui si era tenuto completamente da parte da oltre mille anni per mettere alla prova i nuovi dei, non era responsabile della strage in atto, gli uomini gli ricostruissero i templi ed il culto.. Di quale Dio si tratta? Quello del Vangelo o Quello del Corano? Non è possibile se sono la stessa cosa. Concluse tra l’applauso di tutti che gli uomini potenti ed ipocriti si erano impadroniti dei rispettivi Libri propinando, per il loro potere, al popolo succube un uso distorto delle due religioni che da mille anni si combattevano sul Mediterraneo lago di sangue per un altro millennio ancora. Voleva far votare un formale ordine del giorno, ma le cannonate che salivano da Lepanto distrassero i divertiti convitati che dalle tribune del monte più alto della Grecia assistevano alla carneficina pensando alla pace durante i giochi di Olimpia o Delfi, la prima a sud e la seconda ad est della battaglia.


LA RETE DI VULCANO

Molte divinità nauseate di quella scena chiedevano di chiudere o rinviare il concilio ad altra sessione. Si reclamava con insistenza la presenza di Marte, dio ministro della guerra per tale profanazione dei luoghi sacri che i greci, essendo loro dei, non avevano mai profanato. con riferimento alla battuta di Mercurio si voleva sapere se Don Giovanni avesse catturato i musulmani o Alì i cristiani, con preghiera di risparmiare ai prigionieri la solita fine orrenda in nome di Dio. Qualche attardata dea voleva sapere perché da un anno la bella ciprigna aveva abbandonato la sua isola dove erano avvenuti stragi ed orrori. Stavano precipitando Giove dal trono, quando ad un tratto per sottrarsi all’assedio questi fece schiarire il cielo di tutto il mare nostro e con l’indice mostrò un fianco della sommità dell’Etna dove in un boschetto ombroso aveva la casa vacanza Vulcano quando si riposava per le fatiche nella filiale delle sue sotterranee officine infuocate. Non aveva bolletta Enel né pagava ICI, ed eventualmente provvedeva sua moglie come quella nel film del principe De Curtis. Dimora imposta a Venere sua moglie contro volontà e sospettata di tradimenti per i quali Efesto invano si era lamentato con Giove. -Sono fatti tuoi personali- gli aveva detto. – Tu sapevi chi fosse Afrodite. Scopri il colpevole e poi vedremo-. Il dio del fuoco ed eccellente forgiaro preparò una sottilissima rete di oro bianco invisibile e la stese sopra il letto coniugale lasciando a Galato figlio di Polifemo e Galatea l’incarico di farla cadere con comando a distanza sopra il talamo stesso per catturare lei ed il suo amante e dare a Giove incredulo prove irrefutabili. Scese nelle sue spelonche infuocate lasciando la moglie sull’ampia e superpanoramica terrazza dopo avergli servito la colazione secondo le ricette di suo padre e Polifemo junior di guardia. Ella era impaziente e mirava spesso il sole con Febo che le feriva lo sguardo e non sapeva che dallo stesso veniva spiata. L’Effervescente si compiaceva dall’alto del suo poggio a mirare - il suo trono innalzato in mezzo ai fiori di Hybla-. Orbene , in Sicilia tre sono le località con questo nome. La prima è Ibla Megera, città sul versante orientale, tra Catania e Siracusa, fondata nel 727 a. C. dai Megaresi a cui si unirono altri Dori. La città sorgeva sopra un ripiano roccioso in riva al mare, tra due torrenti, a Nord il Camera e a Sud il San Cusmano. La città. Protetta a Nord, a Sud e a Ovest da sarpate naturali, fu fortificata, già nell’epoca arcaica, con una cinta di mura di cui qua e là sono stati ritrovati resti. La seconda è Iblea Heraea situata a Sud-Ovest tra Canarina ed Eloro alla foce del fiume Omonimo. La situazione geografica non concorda con le citazioni contenute nell’Inno. La terza, quella di cui si parla e il cui nome è legato al monte Etna, è Ibla Gereatis ( così detta dal culto dei gerra di Urano) che corrisponde alla odierna Paternò, fondata da Ruggero I il Normanno nel 1073, tra Catania e Centuripe. In questa località si è trovata una epigrafe dedicatoria; Veneri victrici Hyblensi, che conferma come la cerimonia si svolgeva nel sacro boschetto della Venus Hyblea, detta poi Afrodite.
Essa in attesa impaziente guardava dunque ad Ovest assecondata dal movimento del sole che era già alto sullo Ionio. Dimenandosi da sposa ma sempre fanciulla in fiore che per ogni incontro rinnovava la sua verginità, attendeva Marte che ritardava. Non era la prima volta tra i due perché certamente sappiamo da Demodoco presente alla reggia di Alcinoo padre di Nausicaa, nell’isola di Scheria, prima del balzo ad Itaca. – Lo stesso aedo, stuzzicando le corde della cetra, intonava il prologo prima di affrontare con mirabile arte gli amorosi amplessi di Venere inghirlandata, quando per la prima volta si accoppiarono proprio nella casa di Vulcano profanando il suo talamo: le fece omaggio di copiosi doni, ma il Sole li aveva notati dall’alto ed avvertì l’ignaro cornuto. Irato Efesto per la umiliante notizia si recò nella sua forgia per preparare la sua vendetta: fabbricò catene inagibili ed insolubili che bloccassero gli amanti in azione. Irato col fratello Ares gli predispose la trappola nella stanza nuziale: tutto il letto fu avvolto da catene invisibili che sovrastavano anche il talamo, talmente sottili che sfuggirono anche al fratello. Finse di partire per Lemmo, l’isola a lui prediletta. IL fratello appostato appena lo vide partire ed impaziente di godere della bella Citerea, si precipitò nella casa del fratello.

I DUE FRATELLI


Mentre egli sudava a forgiare i suoi metalli, arrivò Marte e giacque con Venere che lo attendeva rimproverandolo per il ritardo. - Fra poco viene a pranzo quello storpio e sudicione e non vorrei che ti trovasse qui.- Marte si giustificò con la grave situazione all’imbocco del golfo di Corinto ma lei lo rimproverò di dare più importanza alla pazzia degli uomini che all’amore.- Facciamo l’amore e non la guerra- gli gridò tirandoselo addosso. Rimase allibito Galato e poteva già dal primo momento far cadere la rete, ma guardone come era si mise ad osservare il loro variegato amplesso bevendo ogni tanto un boccale di mosto che aveva imparato a produrre sempre osservando da bambino la tecnica di Ulisse quando ubriacò suo padre: ad ottobre l’uva delle falde dell’Etna era matura da tempo. Ogni tanto ingoiava una caciotta, prodotta col latte di pecore discendenti nientemeno da quelle a cui si era aggrappato Ulisse per uscire indenne dall’antro di suo padre che or giaceva brontolone poco lontano chiedendo mosto e Galatea che lo aveva abbandonato, avvertendo il figlio di non offendere mai gli dei. Dall’alto del monte egli giovinetto da tempo aveva a lungo mirato le Nereidi che appunto nascono dove il mare accoglie l’acqua dei fiumi come il Simeto con la foce allora assai arretrata. Aveva pensato di chiedere a Marte di procurargliene una per sposa, avrebbe chiuso il suo occhio e nascosto il tranello. La voleva fedele e non come sua madre Galatea che si innamorò di Aci poi ucciso da Polifemo e dagli dei trasformato in fiume. Non ebbe il coraggio, temette che Vulcano lo avrebbe accecato con un ferro infuocato senza bisogno di cercare un palo appuntito. Almeno adesso poteva guardare. Siamo a 7 ottobre 1571 verso l’una, ancora il vino novello bolliva, per s. Martino mancava un mese. A Roma ed a Istambul si aspettava l’esito dello scontro mentre il giovane ciclope eccitato dalla scena e dall’alcool dopo un’ora neanche pensava di tirare la cordicella ed irretirli, ma stava per arrivare Vulcano e doveva stare ben attento se non voleva finire peggio di suo padre. Contorcendosi alla vista delle fattezze e ricercate pose di Afrodite, col suo strumento in tiro e proporzionato alla sua mole, si muoveva avanti indietro e visto dal concilio degli dei alcune ninfe si divertivano chiedendo se non fosse Ercole con in mano la clava alla ricerca di ciclopi. Una ninfa avvenente e già in estro chiese cosa fosse quella che sembrava una clava. Sentendo che si trattava dello-strumento- òrganon – di Galato, si compiacque della versatilità della lingua greca. Ella veniva dall’Oriente ed aveva fatto un corso accelerato di lingua e cultura greca. Sapeva dell’òrganon dello Stagirita che aveva impegnato tanti studiosi. Vedendo in azione gli amanti dei quali Giove aveva lasciato la visione in chiaro ella precicò che comunque, per sua esperienza, la validità dell’òorganon così inteso dipendeva da quella dellìorgànos e Marte ne stava dando prova.

SCATTA LA TRAPPOLA

Il povero Galato era agitato e senza controllo: con l’agitazione senza volerlo urtò la cordicella con l’òrganon ed i due si trovarono avvolti nella rete la cui trasparenza assoluta esaltava la bellezza di Venere come una calzamaglia di seta purissima di difficile discernimento. Non si accorse Marte della rete e la credé uno scherzo di Afrodite per meglio avvolgerlo a sé: conosceva le arti femminili, delle quali comunque ella non aveva bisogno oltre il cinto che tutti seduceva. Questa si rese conto di tutto e capì che senza l’intervento della perizia del marito non si sarebbero liberati, tanto valeva continuare l’azione. In tale stato li trovò Efesto arrivando e fu fortuna per Galato che sembrò aver fatto il proprio dovere. A Lepanto si combatteva da due ore ed Alì era già morto. Il fabbro trovò la trappola scattata e Galato gli assicurò che il fratello era appena arrivato e lui subito aveva fatto il suo dovere. La battaglia d’amore giungeva agli dei sull’Olimpo con l’ostensione tridimensionale a tutti della scena e nello zapping dei particolari superava nello sciare quella di Lepanto, anche se a grande distanza annullata dalla tecnologia satellitare di Giove che è astro splendente. Alcune morigerate dee non risparmiarono a Venere apprezzamenti pesanti, ma solo perché con Marte avrebbero voluto trovarsi loro nella rete d’amore. -Povero Marte – diceva Giove, mentre tutti divertiti osservavano la scena. – Ma che povero, al suo posto vorrei trovarmi io- dissero tanti dei e satiri, sbeffeggiando Vulcano riconosciuto colpevole di non aver saputo avere la fedeltà di tanta moglie e di aver messo letteralmente a nudo le debolezze mortali degli dei immortali, oltreche aver fatto di pubblico dominio un fatto privato. Le ninfe e nereidi agitavano le gambe come puledre – spirante favonio-. Per far manifeste le colpe di Venere il marito indugiava sul da farsi e gli interessati pesci spada in rete dopo un momento di sgomento ripresero la loro azione- fino a quando non saremo liberati- disse Marte che minacciava guerra a tutti. Efesto volse gli occhi all’Olimpo invocando il comune padre, ma dovette constatare che da quella sommità tutti i suoi colleghi miravano la scena divertiti e non increduli: nessuno, ( o mortali ed immortali figli di Allah-Dio !!!!!!! ) pur se così in alto, poteva lanciare né la prima, né la seconda, né la ennesima pietra. Dovendo discutere sulle sorti della battaglia navale in corso per la quale non aveva preso decisioni, Giove ordinò a Vulcano di non fare a lungo il Cocu Magnifique, solo lui poteva far finta di non sapere, ora maiora premunt, liberarli subito dalla rete con delicatezza: per non rovinare con graffiti la bellezza di Afrodite che sola e con sacrificio stakanovista consolava uomini e dei dagli affanni del mondo impazzito, e Marte necessario nel gabinetto di guerra dell’Olimpo, dal momento che il Dio dei contendenti- bestia da curva- sembrava li avesse abbandonati al loro destino. Efesto dovette obbedire anche se soddisfatto ( beato lui) di aver dato le prova al padre suo, e liberò la moglie palpandola per necessità tecnica la prima volta con la dovuta apprezzata delicatezza tanto che meravigliata gli promise che a sera non si sarebbe a lui negata. Anche suo fratello Marte da maschilista consigliava di non prendersela per una …….femmina, non valeva la pena, ce ne erano tante ninfe e nereidi nei boschi e nel mare. All’osservazione di Efesto che nel mare c’erano le crudeli sirene belle dalla cintola in sù, ma dopo con una coda di pesce, Marte lo istruì chiarendo che una volta montate in barca la coda si divideva in due e tale rapida metamorfosi le rendeva divine fanciulle quanto Venere che annuendo indusse il marito a liberarli. Marte si dovette ricredere subito: quando Venere amò Adone ed Ares si trasformò in cinghiale e lo uccise con quello che segue sul rosso dell’anemone e delle rose. Intanto Efesto e gli amanti divini dovettero presentarsi al Council degli dei nel quale Giove propose delle regole ad ognuno per evitare incidenti e digressioni dal tema. A Marte di limitare le guerre, ottenendo un rifiuto per non provocare il fallimento delle fabbriche di armi di Efesto che approvò il pensiero del fratello e lo ringraziò, dimenticando tutto.

VENERE : DONNA EMANCIPATA

A Venere voleva porre un limite nelle sue scorribbande amorose, quasi un controllo tecnico suggerendo ad Efesto suo marito quel rimedio che sarà chiamato cintura di castità preventiva e non la rete a cose fatte. Le dee gelose approvarono, ma la Anadiomene sentiva in corpo tutta l’effervescenza dell’afros dalla quale era emersa, quando caddero nel mare le gocce di sangue dai gerra ( testicoli) di Crono tagliati col falcetto. Ella sgusciò dalle onde spumose balzando in piedi con il seno senza rose ed il pube senza mirto, accecò tutti gli dei che speravano nel loro turno e dichiarò che mai sarebbe diventata Apostrofìa. Ella era quella di Prassitele a Cnido a cui Berenice consacrò la chioma. Cominciasse Giove a dare l’esempio concreto, non era più degno di nomarsi padre degli dei e poteva fare la fine di Crono-Saturno perché non ci sarebbe stata più la capra Amaltèa. A nome di tutti gli dei minacciava di far arrivare sull’Olimpo tutti i sacerdoti e sacerdotesse dei vari templi dell’Egeo e dello Ionio per assalirlo. - Io son nata a Citera e mi metto n’ coppa a chi vogl’io proclamò orgogliosa e protendendo le mani come la statua dell’auriga, mise in ulteriore risalto la sua beltà sinuosa ed insinuante, facendo tremare con l’Olimpo tutti i monti che prolungando i Balcani si diramano nel Peloponneso.
Potenza infinita dei sensi che ella aveva trasmesso al figlio Enea, non per caso Virgilio, quando alfine il Pio giace con Didone nella- Carthago delenda est-, nota che – fulsere ignes et conscius aether conubiis summoque ulularunt vertice nynfae-. . Si temette per una nuova Santorino ma la presenza di Vulcano assicurò tutti: ci sono altre forze che fanno tremare il mondo e scatenano le guerre pubbliche e private insieme come quella di Troia. Le ninfette e le nereidi lolite grecofone e grecaniche comprendevano bene la nuova lingua, pur essendo uscite la prima volta dai boschi e dai mari, dove pure a stento non tutte si erano salvate dalla violenza erotica gli spasimanti in mancanza di metamorfosi. Quelle digiune di lingua partenopea, volevano sapere se –a coppa- significasse di sopra o di sotto, avendo la loro lingua un differente logo per ogni posizione ; uper e catà. Giove solenne richiamava all’ordine del giorno, ma aveva perso il controllo della situazione e solo minacciando il fulmine al quale accostava la mano come un pistolero, cercava di ripristinare il suo comando.
I GRAMMATICI

Furono d’urgenza convocati i maggiori grammatici dei testi di glottologia che si riunirono in commissione conciliare di studio e presero atto della difficoltà seria dell’esegèsi. Alla fine Aurelius Ambrosius Theodosius Macrobius lesse le risultanze dello studio a nome di tutti consegnandone il testo a Giove che lo riprodusse e fu dato in omaggio alle ninfe perché ne tenessero conto non come dogma ancora, ma come linea variabile di iniziazione: la frase ammette la doppia versione in quanto in tutti gli elementi costitutivi possono avere varia funzione: ed io metto sopra a me chi ( compl. oggetto) a mia scelta libera desidero, oppure – mi metto sotto a chi (compl. di termine locativo) io sempre liberamente scelgo, in ogni caso un’affermazione di emancipazione femminile di fronte a Giove che non dava libertà di position alle sue scelte con il menù metamorfico per l’accesso alle loro grazie, gradito in periodo di siccità per l’apporto miracoloso di pioggia e le belles de jour di turno si sacrificavano per salvare tutti da fame e carestia. Al contrario i nostri Cosma e Damiano = Castore e Pòlluce) venerati tra i Bretti e portati in processione dal popolo invocante la pioggia che non arrivò, furono lasciati per punizione in una piccola conulea di campagna a meditare. Nulla cambia: il dio Pan veniva invocato nelle battute di caccia dagli – Arcadi che avevano così poco rispetto per lui che semmai ritornavano a mani vuote dopo uma lunga giornata di caccia, osavano sferzarlo con della scilla.- .
Furono soddisfatte le ninfe greche e grecaniche, per quelle che venivano dalla schwarz vald bastò chiarire la corrispondenza con unter ed uber ed avendo in comune le lingue europee i paradigmi del sanscrito, fu facile chiarire il mistero a tutte le indoeuropee, per le finniche e magiare si fece la traduzione, mentre Venere si rifiutava divertita a dare la interpretazione originale come quando si fa interrogando chi ha prodotto la norma.Ella con sarcasmo indicava Giove e Giunone come Corte costituzionale ben sapendo lo scontro fra il multiforme Padre degli dei, ma non suo, e l’acida vendicativa sua moglie e sorella quando come donna veniva sconfitta, facendo intendere che al termine avrebbe dato l’interpretazione autentica. Ma siamo al 7 ottobre 1571 alle prime ore pomeridiane e nel pieno della battaglia. Molti dal lontano Olimpo divertiti allungano il collo per vedere quei giochi di guerra come se si trattasse del Colosseo allagato o delle follie di Caligola texano nel golfo persico,lago di Nemi. Giove allora decide di svolgere la seconda sessione del concilio sul Parnaso nella Focide,a condizione che si parlasse solo dell’ordine del giorno anche perché lì aveva trovato scampo l’arca di Deucalione durante il diluvio universale per eliminare l’umanità corrotta, poi riprodotta dalle pietre – ossa della terra- che il Noè greco e sua moglie Pirra lanciarono alle loro spalle come chiese il vicino oracolo di Témi. Ma questo rinnovamento dell’uomo come l’altro della Bibbia che lo riproduce, non valsero a migliorare l’uomo neanche quando Dio intervenne direttamente come – agnus Dei qui tollis peccata a mundo-, bisogna togliere l’uomo per togliere il peccato con un diluvio senza arca. Non ci sarà bisogno di un DIO , stiamo provvedendo da soli.


FALLIMENTO DEL CONCILIO

Qui non riuscì a Giove di riportare l’argomento all’ordine del giorno che era dimostrato dalla battaglia in corso, alla quale alcuni dei volevano prendere parte more solito sentendo gridare – Dio lo vuole! o Allah è grande!- Apoolo aveva caricato la sua faretra ed avrebbe saettato se si fossero avvicinati con le navi a Crisa. Il Padre li trattenne dicendo che a farli massacrare bastavano i ministri delle loro religioni che certo non erano migliori degli antichi sacerdoti o pontefici massimi. Apparve invece l’ombra errante di Pubblio Ovidio Nasone che aveva tanto da insegnare nell’ –Ars Amatoria- , egli invocava Giove che almeno la sua anima potesse tornare a Roma dopo l’ostinato diniego di Augusto. Egli si, aveva visto nei secretali della casa di Augusto – quod non licebat videre-, ma reclamava a suo merito non averlo a nessuno rivelato. Ora si diceva disposto e già ispirato, di fronte a tutto quel gran bene, alla composizione seduta stante di un inno per ogni metamorfosi che Zeus aveva assunto per poter giacere con le varie donne mortali. Solo chiedeva all’onnipotente poter vedere Roma anche per un istante, come Orfeo Euridice. Il Padre fu irremovibile precisando che sempre per il bene dell’uomo egli aveva assunto le varie sembianze. Un gruppo di ninfe si offrì di corrompere Giove con seni e coseni pur di concedere la grazia all’ombra implorante e vagante di vedere Roma, purché rivelasse la sua visione che ritenevano comunque attinente al tema con morbose varianti ed assai innaturale. Il poeta si rifiutò invocando il principio deontologico del rispetto della privacy nella sfera familiare. Gli fu fatto presente che la sua Roma dopo quasi sedici secoli non c’era più, devastata e più volte saccheggiata, i suoi templi smontati per farne altri –dicati- a un altro Dio che aveva dichiarato i suoi tutti- falsi e bugiardi- . Fece intendere qualcosa, per cui si deve contentare della statua che oggi si eleva a Tomi, unde se emerge Costanzia, in suo ricordo.

LA PASSWORD DI VENERE



Ogni ninfa raccontava incoraggiata le sue esperienze. Prese coraggio una lolita che veniva dalle Amazzonie degli Inca per chiarire che da quelle parti i rappresentanti del nuovo Dio hanno massacrato e schiavizzato tutti gli indigeni per diffondere la fede tra coloro che forse avevano un’anima, ma in rapporto alla vexata quaestio poteva garantire che per esperienza personale le missioni insegnavano anche con dimostrazioni pratiche il catà per tutto il nuovo continente. A questo punto Erato invitò Venere a porre fine alle discussioni e fornire direttamente le istruzioni esemplificando, mentre Mercurio mirava il suo chitone che sarebbe caduto a terra al tocco di un semplice fermaglio, come nelle porneia di Las Vegas. Da mercante dedito solo al profitto lo preferiva a ciò che avvolgeva ed aveva cercato di rubarlo durante il trasloco dall’Olimpo al Parnaso denudando Venere. Se ne era accorta Venere ed ora accoglie l’invito della sua musa.
- Lasciamo stare quei pazzi che si stanno scannando solo per i soldi e controllo dei commerci, infangando il nome di ogni Dio, passato, presente e futuro. Non è la prima volta che nello stesso tratto di mare da Zacinto a Corcira fino a Corinto avvengono scontri simili e mi sono annoiata a vedere la stessa scena: proprio lì si scontrarono due volte nel terzo anno di guerra Sparta ed Atene e Formione attico vinse sapendo bene usare la base di Naupaktos, come adesso non si permette ad Occhialì. Io non sono stratega con navarchia o stratiotia di morte ma stratega di amore che rinnova la vita nei mari e nella terra, e per non deludere tutte queste reclute che aspettano di entrare nella battaglia che vale la pena combattere per uomini ,dei e suoi ministri, vi ricordo che nella città dal Monte Somma coperta di cenere, c’era la casa dell’amore, chiamata lupanare che pagava regolarmente il suo télos ed al suo ingresso un ricco panciuto come Mercurio butta su un piatto della bilancia il suo oro, sull’altro un giovane appoggia appena il suo strumento e da qui pende la bilancia che la Grande Dìche tiene in mano. Egli mi guarda per il mio vestito, non ha capito niente. Se si inoltrasse - nelle segrete stanze - di quella casa potrebbe vedere anche lui esemplificate nelle mirabili pitture tutti i supra e sub ed anche i more pecudum di tutti i popoli dell’impero romano Tito rectorante, un menù a geometria variabile – aggiunse – per onorare Erato che da musa dell’amore era anche titolare della cattedra di geometria. La quota pur abbassando la visione di quasi 500 metri, veniva più che compensata dalla vicinanza ed allietata dalle Muse eliconie. Apollo approvò entusiasta per la vicinanza di Delfi che gli restava sotto gli occhi, aveva adocchiato le bellissime ninfe e nel suo ambiente sperava possederle prima che gli altri dei gliele trasformassero in albero, fiume o quant’altro Ovidio ci riferisce. Ma quando sentì le sventure di Roma antica volle controllare i luoghi santi di Delfi dove tramite la Pizia aveva per secoli avuto larga mano nella politica greca, avviando o fermando la guerra come nella bibbia, mentre i suoi templi sparsi in Grecia e fuori si riempivano di tesori dall’umile offerta del vero credente al Grande Thesaurus di città e potenti come calcolata e pagante ostentazione della propria forza e ricchezza .Per meglio osservare lasciò la sommità del monte Parnaso e scese alla quota delle rocce Fedriadi che a quell’ora come un riflettore amplificavano la visione del sacro luogo già illuminato dal sole che si trovava a sud-ovest sopra l’Acaia e quindi proprio di fronte al sacro recinto. La condizione non era ancora quella di adesso, ma il saettante Apollo rabbrividì: sulla destra lo stadio dove in suo onore avevano gareggiato tanti cavalli ed atleti, era invaso da erba ed arbusti, poi il teatro in buona parte disselciato, infine il suo grande santuario in completa rovina non tanto per il tempo, ma per l’attacco distruttivo degli uomini, barbari e greci, per saccheggiare i vari thesauroi che numerosi lasciavano vedere le loro scalzate fondamenta accanto a quelle simili dei ricchi monumenti per grazia ricevuta o vittoria accordata con conseguente trofeo prima sul luogo di battaglia e poi a Delfi.


APOLLO RIFLETTE

Volse poi gli occhi più in basso verso la Marmaria e vide che il sacro luogo di Atena Pronaia era ridotto come il suo. Intravide sullo sfondo nel golfo di Corinto l’insenatura dove ancora oggi ci sono i resti di Kirrha, il porto di Delfi che dobbiamo definire –religioso, a servizio della fede o del turismo religioso come dicono coloro che oggi per esso preparano flotte aeree, perché hanno capito che grande affare è un luogo fino a quando regge come fonte di miracoli o non viene spodestato da un altro. Lì sbarcavano tutti quelli che per fede od agoni si recavano a Delfi ai tempi del suo splendore, venivano dal paese di Pelope o dall’Occidente che era quasi tutto sua filiazione. E se le olimpiadi sospendevano le guerre, il suo oracolo era in grado di non farle cominciare o volgerle contro gli empi che avevano peccato in qualche modo contro il cielo o meglio gli dei che vi hanno dimora. – Dei dì che furono l’assalse il sovvenir- Folle immense di fedeli, atleti, mercanti, sacerdoti, uomini potenti onoravano e chiedevano il futuro a lui per bocca della sua Pizia. Si pensi cosa fu per qualche secolo qui da noi il santuario di San Domenico di Soriano quando divenne corpo feudale venduto dal re di Spagna a rate con gli annessi diritti dei suoi monaci: Delfi come giro di affari politico-economici va moltiplicato infinite volte. La santità e le apparizioni comunque presunte miracolose diventano un’industria per il luogo di apparizione e tanti provano ad averne una sul proprio territorio: vergogna. Si trascinano poveri malati alla ricerca del miracolo che si inventa per il giro affaristico indotto. Ma la santità di un luogo o persona passa di moda e si trasferisce altrove da secoli creando nel nuovo loco nuova industria di cui si pasce un mondo che che con Dio non ha nulla in comune. Oggi San Domenico di Soriano non è più ricercato, la santità miracolosa si è trasferita in Puglia creando il polo economico, soltanto economico, di San Giovanni Rotondo. Apollo attribuì la colpa alle due religioni dello stesso Dio che in fondo alla sua destra si azzuffavano per stabilire a quale di esse in questa occasione avrebbe accordato il suo favore, quale fosse la vera fede in una vera ordalia da giudizio di Dio su due religioni dello stesso Dio.. Per esse gli uomini avevano obbliato l’Olimpo, ma sapendo che sempre l’aitios è Giove Dio supremo che egli certo non rinnegava, fu preso da una gran collera e ponendo mano all’arco ed alla faretra dai quali non si separò neanche nell’inseguimento di Dafne fino ai colli sopra Paralia, si preparava a saettare non uno dei contendenti come a Troia, per l’offesa fatta al suo sacerdote, ma le navi di Cristo e di Maometto, perché non ci fossero vinti e vincitori tra coloro che lo avevano spodestato per fare peggio. Nel Concilio ormai insediato sul Parnaso Giove notò la sua assenza e mandò subito Atena-Minerva con l’ordine di rientrare. Egli dovette obbedir tacendo, ma prima scese a quota più bassa sotto la Fedriade Hyampeia dissetandosi e componendosi alla fonte Kastalia che aveva in passato per secoli dissetato milioni di pellegrini.
Egli voleva presentarsi al Concilio senza aver perso i suoi aspetti- apollinei- per non essere confuso con Dioniso e si fermò un momento .

PARLA ATENA

Appena rientrato propose a Giove l’uso dei fulmini contro quei pazzi che si stavano massacrando, ma il padre incaricò proprio Atena, come dire il suo cervello, di spiegare una buona volta a tutti con preghiera di informare anche i mortali, come stavano da sempre veramente le cose. La nata dalla sua testa con un colpo del figlio Efesto, chiarì come gli dei fossero sempre gli stessi immaginati con diversi modi ed origini dagli uomini che avevano bisogno di trasferire in essi i loro desideri quando divenivano speranza. Le caratteristiche di ognuno dei presenti erano migrate nelle nuove divinità ed anche le feste e le credenze del popolo che diveniva così facile gregge dei potenti compresi i sacerdoti. Una fiction da esibire in pubblico, mentre ben sapevano che altri sono le molle che fanno scattare l’uomo: per le conquiste territoriali ed il commercio avveniva il massacro in corso, facessero pure processioni, penitenze ed offerte i fedeli nelle chiese o nelle moschee e credessero pure ai miracoli di Dio o Allah, di fatto la stessa divinità che non può schierarsi in guerra ed è pazzo chi grida - Dio lo vuole o Allah è grande- . Ciò che vogliono per la loro potenza e ricchezza con stragi lo fanno approvare prima da Dio nella chiesa, nella moschea, nella sinagoga o nella pagoda, come facevano con la tua Pizia nel tempio che rimpiangi , o Apollo! Lo scandalo continua. Ricordati che noi siamo successi ad altri dei, loro a noi, e la storia non si blocca, anche loro avranno i successori: accanto all’albero millenario che cade c’è già il virgulto. Si sono impossessati dei nostri templi o li hanno smontati per costruire i loro: in essi viviamo ancora noi perché siamo la stessa cosa con la metempisicosi divina. Non vedi che da oltre mille anni si ammazzano dentro le stesse religioni per loschi interessi e dicono di difendere la fede. Non te la prendere, Apollo! Quando nel gioco delle parti è toccato a noi la recita a soggetto noi non abbiamo rinunciato al ruolo che il nostro autore uomo ci ha assegnato, ora tocca a loro. Non hai nulla da rimproverarti. Tu difendesti con i miracoli i tuoi tesori a Delfi quando i soldati di Serse volevano saggheggiarli: facesti apparire al profeta Akeratos fuori dal tempio le armi sacre custodite nel sancta sanctorum, come oggi i loro pontefici hanno benedetto le armi della strage in corso; e quando i barbari assetati di tesori si avvicinarono al mio tempio nostro padre col fulmine colpì le rocce che da fedriadi divennero roventi precipitando sugli invasori che fuggirono. Le ombre dei defunti Autonoos e Phjlacos divennero due possenti opliti che perseguitarono i barbari in fuga ed il mio tempio custodisce gli scogli su di essi caduti. Contentati di tanto, ora spetta ad altri che gli uomini hanno messo al nostro posto.Anche presso i loro templi si conservano le prove dei loro miracoli, ed infinite folle di pellegrini le venerano portando ricche offerte, quello che aspettano i sacerdoti d’ogni tempo e tempio. Se le cannonate ci hanno svegliato, tormiamo alle nostre occupazioni, non vale la pena prendersela, anzi godiamoci questi giochi pirotecnici. La mia statua d’oro nel Partenone è stata involata ed io parlo dal mondo delle ombre.- Giove annuì e dichiarò chiusa la sessione del concilio precisando che ormai i convenuti potevano discutere di tutto mentre il circo delle navi offriva lo spettacolo.


AFRODITE



Erato, musa dell’amore e della geometria riservò un’accoglienza premurosa proponendo ad Afrodite di rievocare i canti che a lei si dedicano in nome della vita che si rinnova sulla terra.
Si era trasferita a Pafo nell’isola di Cipro proprio perché le miniere di rame mescolato allo stagno che i Fenici portavano dalle nebulose isole Cassiteridi, permettevano agli artisti di raffigurarla nelle statue affinché di essa scolpita godesse tutto il mondo e non solo i suoi prescelti. L’isola di Paro rischiava di scomparire, tanto era il marmo sottratto per le sue statue che la consegnavano all’eternità. Era donna e dea emancipata e non aveva nulla da nascondere al contrario - di te o padre Giove che dovresti dare l’esempio ed invece ti trasformi in animale per stare con le donne altrui, da che trono trasformato in pulpito viene la predica-! I suoi palladi potevano ben ritrarla nuda, elle era greca, non orientale e non aveva il complesso della moglie di Candaule che la mostrò a Gige facendo la fine del fesso spaccone. Le sue statue sarebbero state contese in futuro e ricercate più dell’oro. La riforma dei costumi proposta avrebbe tolto ai templi tutte le offerte e spogliandole delle rendite le divinità non avrebbero avuto officianti, tranne i suoi ammiratori sulla terra consolati dalle grazie delle sue sacerdotesse che si sacrificavano per mantenere i templi: in cambio di tale alto merito quando a primavera si immergevano nelle acque del mare riemergevano vergini come la loro dea e pronte ad affrontare un altro anno di amore e fatica per il suo culto. Riverginection- Si massacrassero pure gli ipocriti figli delle nuove religioni a Lepanto sempre destinata ad assistere a battaglie navali, era solo problema di interesse commerciale, aggiunse con l’approvazione di Mercurio. Che nessuno si permetta per l’innanzi di disturbarla impegnata nella sua missione, anche se dovesse incendiarsi tutto il Mediterraneo. Ella si riservava sempre di assecondare anche i mortali, visti i risultati di eccellenti progenie di eroi nati famosi e pii da un uomo e da una dea. Chi aveva fondato Roma, sede dell’impero e destinata al papato che neanche l’aveva ringraziata con un trofeo: i suoi discendenti.. Ella da Anchise aveva generato Enea, quale altro figlio di dea aveva avuto discendenza sì gloriosa ? Giove intuì che nessuno credeva più alla sua infallibilità, comprese che sarebbe stato messo in minoranza e rinviò la votazione sull’argomento ad un’altra sessione del concilio generale e voleva rimandare tutti a casa.


GIOVE, VENERE ED I TROPEANI

Apparvero nell’emiciclio tutte le muse per intonare un canto a Venere, le seguiva Orfeo col flauto chiedendo un’altra chance di riprendersi Euridice: da sciocco non intendeva che quando nell’amore si perde, la rassegnazione è la sola scelta razionale. Prima che le core dessero inizio alla recita, ella volle volgere un furtivo sguardo alla battaglia in corso e vide il mare arrossato. Ma notò la presenza di tanti Tropeani e non si meravigliò essendo allora Tropea la più popolosa città della Calabria, che prende nome da Giove Versorius al quale lo fece notare e fu l’unica lusinga che gli fece facendolo sorridere la prima volta in quel concilio. Zeus con la battaglia in corso non lasciava intendere a quale dei contendenti avrebbe accordato il suo favore tropaio e sollecitato precisò che prima gli dei e semidei presenti potevano godersi lo spettacolo di quella battaglia come al circo quando veniva allagato. Alla fine il trofeo con le preghiere di ringraziamento sarebbe stato dedicato a Cristo o Maometto, in diversa forma sempre allo stesso Dio-Allah – Giove. Noi esistiamo, egli precisava, come e perché il bisogno e la fantasia degli uomini ci hanno creati per giustificare e gratificare se stessi e non finiranno mai di rinnovarci secondo le loro esigenze che quando si scontrano ricorrono a noi, loro fantasie, per invocare conforto al macello, uno dei quali è in atto. Noi esistenti virtuali non possiamo interferire che alla fine perché recitiamo la parte che ci hanno assegnata e poi dicono al contrario. I seguaci nostri in Grecia e Roma si massacrarono come poi da mille anni Cristiani e Mussulmani tra di loro ed al loro interno e così sarà per le religioni a venire: il solo Dio che li fa azzuffare è la dea Pecunia : Io sono il Signore Dio tuo, Non avrai altro Dio all’infuori di me. Tutto il resto costituisce scenografia per gli ingenui che così sopportano tutto, anche questa battaglia preparata per il controllo economico del Mediterraneo da sempre lago bagnato dal sangue dei suoi popoli: non invochino Divinità alcuna.
Venere notò ancora a Dio Giove sempre generoso che i figli d’Ercole tropeano meritavano una riconoscenza e si vide delegata a provvedere come e quando avrebbe voluto. Subito lo assicurò, avrebbe loro mandato la ninfa Cecia che ancora infante era in quel concilio allineata in terza fila e su richiesta di Eros si portò davanti agli occhi di tutti, perché si vedesse che premio ella avrebbe costituito per i Tropeani una volta mandata ai discendenti dei combattenti per la fede che, con impegno pari al cavallo destro del carro da circo, si stavano battendo sotto i loro occhi. Venere approvò raccomandando di farla apparire sulla terra non prima della pubertà perché con quelle fattezze non si sarebbe sottratta ai pedofili. Un sorriso lascivo delle ninfette accarezzò l’Elicona.
Erato aggiunse che dopo aver assolto il suo compito a Tropea la ninfa Cecia meritava un solenne ricordo ed un inno come i tanti dedicati ad Afrodite-Venere dai poeti greci e romani. Per questo avrebbe incaricato un aedo discendente proprio da quella terra ozolia che fondò Locri Epizefiri e poi Hipponium: qui la metempsicosi farà rinascere nel vate Ammirà un aedo che con il conforto della Musa canterà le generose battaglie di Cecia che in una Tropea decadente del primo Ottocento sarà- ristoro unico ai mali, per le nate a vaneggiar menti mortali-

VIA CECIA A TROPEA

Infatti apparve tale divina creatura a Tropea tra Settecento ed Ottocento ed eclissò tutte le concorrenti della zona, il suo oracolo fu interrogato da quanti poterono di ogni ceto e classe affrontere il viatico, il suo Omero per celebrarne le battaglie dovette anche lui invocare la Musa in quanto entrambi delfini durante la battaglia di Lepanto se n’ era accorto che- Di figghiola si vidia – ca venivi na cosazza….
Prima di ricordare le lodi che il vate cominciò da allora a preparare ritengo che ne abbiamo quindi abbastanza per intitolare la via principale Ceceide, in onore e ricordo di colei che in occasione della sua morte, per tesserne le lodi, fece accorrere nella nostra gloriosa urbe un concilio di rimpianto con più gente che le flotte dei Crociati o la stagione balneare.



LA CECEIDE

Di Vincenzo Ammirà

INVOCAZIONE ALLA MUSA

Chi penzi? Tu dormi? Rivigghiati , o Musa,
cumpagna mia cara, cumpagna affettusa;
quand’era figgiolu tu fusti cotrara,
cumpagna affettuosa, cumpagna mia cara;
li notti e lijorni passava cu tia
cumpagna affettusa di l’anima mia.

Jèu, quandu l’amaru mi stava dolusu,
calata la testa penzusu penzusu
tu tindi venivi tirata davanti
cu cosi puliti, cu chiàcchiari tanti
e prestu cacciavi la malancunia
chi tutta scornusa votava la via.

Ed oh! Quantu voti, lucendu la luna,
cu tia suli suli ndi ficimu ncuna!
Ciangimmu, lodammu, cantammu d’amuri,
tagghiammu pè finca lu caru Signori;
cu tia, sempre suli, dicimmu cosazzi
d’acchietti, di grupi, di capi di cazzi.

Mo tutt’a ‘na botta nimica ti fai,
pecchì ti ndi fuji? Pecchì ti ndi vai?
Ti chiamu, ti chiamu, mi sgorgiu gridando.
Tu nò mi canusci? Su chiju di tandu!
Ma tu non mi parri, tu nenti mi dici,
pecchì no rispundi? Chi cazzu ti fici?

L’arrisi ti scappa, non hai malu curi,
fa prestu, dicimu tri quattru paroli!
Lu sacciu ca m’ami, ca sempri mi fai
‘sti jochi, ti cridi ca mindi scordai?
Ccà veni, ccà veni, lu sonu accordamu,
di Cecia li verzi cantamu, cantamu.

Questa l’invocazione a futura memoria che l’aedo Ammirà hipponiate rivolse in anticipo a Calliopè figlia ………sull’Elicona , trovandosi per l’occasione con tutti gli dei, ninfe e satire nella dimora propria della ispiratrice e che poi ridusse al nostro dialetto, mentre aveva esordito con – Gunaiken moi ènnepe, Moùsa, polùtropen, …….pollòn d’anthròpon ìden ta aidoìa cai noòn ègno…….. La Musa annuì: nessuna quanto la Cecia presente ancora in nuce Venere avrebbe dotata mai di tanta polutropìa ( abilità, accortezza, versatilità, varietà, molteplicità) nella battaglia d’amore percorrendo con impegno ed ingegno i vari sentieri che portano alla meta COME DONNA DAI MOLTI PERCORSI, con più ingegno di Odisseo per tornare a casa. Il vate si incaricava di celebrarne le lodi, verificandosi per lui e la ninfetta Cecia la metempsicosi, dal fatidico balcone del futuro Sedile dei figli di Ercole accompagnato dall’orchestra che avrebbe preso posto dove adesso c’è Galluppi, per aprire la strada ai futuri concioni elettorali, spesso più vergognosi degli aidoa-pudenda da lui chiaramente indicati in quanto ars gratia artis. Ma dopo aver dato un’occhiata infastidita al macello in corso all’imbocco del golfo corinzio, per calmare gli animi degli dei che volevano schierarsi come un tempo costringendolo alla fine ad intervenire,Giove volle che il futuro carme fosse anticipato mettendo di fronte l’aedo e la giovinetta candidata all’oscar tropeano. Gli dei rinunciarono a discutere sulla carneficina in quanto problema dei loro successori e compassati si disposero a deliziarsi con le imprese di Cecia annunciate da tanto proemio.

Orfeo dirigeva l’orchestra e Venere ormai riabilitata anche moralmente dirigeva il coro formato da una miriade di ninfe dall’inguine fremente di ascoltare e farne tesoro, come tutte le sue sacerdotesse nei suoi vari santuari che ella appunto provvedeva a riverginare a contatto con la spuma del mare dalla quale ella era nata, quando la stessa fu sollevata dai gerra di Uranio mutilato dal figlio Crono.

LA FORZA DEI MIRACOLI

Apollo volle solennizzare l’evento ed offrì ospitalità a tutti nella vicina Delfi, all’interno del suo ricchissimo santuario profetico per l’occasione apparso come un tempo da tocco di un demiurgo. Era opportuno essere ancora più vicini alla battaglia in corso con Alì già morto, in effetti perché lo spirito delle sue sacerdotesse che si erano per secoli sacrificate nella verginità per la grandezza della causa godesse della cantata di Ammirà. L’altezza del luogo offriva ancora una visione panoramica dello scontro e Marte fece notare che Il Doria fingeva di combattere: mentre Occhialì lo assaliva lui si ritraeva allargandosi troppo a destra. Dopo un preludio triste eseguito al flauto da Orfeo che sempre come prologo ouverture eseguiva il compianto di Euridice, Venere abbigliata come Eva prima della mela offerta dal serpente, diede l’avvio al coro che seguiva le sue movenze facendo vibrare le aidoa pure agli eunuchi. Siamo nella Focide, all’interno del grande scenario del santuario delfico mai superato da chiesa, moschea o sinagoga, e stracolmo di un immenso tesoro portato dai fedeli ed interroganti il proprio destino, di una polis o della condotta in guerra, il sancta sanctorum della religione greca. Da una divinità all’altra ( Gea-Themis-Poseidone) Delfi o Pythò era passata ad Apollo vincitore del demone Pythòn la cui tomba segnata dalla pietra -amphalòs indicava il centro del mondo al pari delle pretese attuali di altri luoghi religiosi. Tali eventi, tutti collegati ai morti davano ai suoi vaticini, emessi con senno dai sacerdoti attraverso la Pythia che era la portavoce di Apollo, una valenza che regolava anche il decorso politico della Grecia. Sbaglia chi oggi presenta il tutto come folclore o semplici riti pagani, perché lo stesso potrebbe dirsi di tanti santuari attuali che hanno arricchito, con regia economica occulta, i luoghi dove sono nati dietro l’impulso di un’apparizione o di un santo locale. Le degenerazioni sono evidenti. L’antica Pythò era stata anche di culto miceneo con la vergine divinità Core che era la chiave degli uomini per interrogare l’aldilà depositario degli eventi futuri (oracoli). Il suo potere era trasmigrato nella sacerdotessa Pythia che anche sottoposta e sposa di Apollo, stando su un tripode nell’adyton dietro la cella, prestava la sua voce al dio stesso che partecipava al mondo dei morti. Tale pratica che esprimeva l’invasamento o possessione che la faceva parlare, si protrasse fino al tempo di Giovanni Crisostomo che polemizzò con essa accentuando il rapporto sessuale di Apollo con la sacerdotessa, che era stata una caratteristica di Core micenea nel mito del ratto della stessa da parte degli Inferi. I vaticini venivano raccolti ed interpretati dal collegio sacerdotale sotto forma di responso ed i beneficiari erano prodighi di ricche offerte al tesoro del tempio che non mancò di essere saccheggiato. Tutti i Greci del Mediterraneo avevano contribuito alla grandezza di tale centro religioso con la costruzione o il restauro di edifici lungo la via Sacra, in essi depositavano come dono opere d’arte e tesori in gran parte perduti o rubate, mentre gli edifici furono anche smontati per altre opere. Gli scavi in corso da oltre un secolo stanno evidenziando una realtà edilizia imprevista come grandezza e stile.. Tantum potuit supertitio …

Il vate attacca con la cetra a quattro corde come gli antichi aedi.

‘U TESTAMENTU ‘I CECIA

Quando vitti ca perdi territoriu,
ca chiju jornu no pighhia dumani,
e si ntisi sonari lu mortoiru,
cecia si fici l’atti cristiani;
pe’ nommu azzippa l’anima e lu coriu
vozzi dassari tutti cosi sani.
-Ah! Chiamatimi -, dissi,- lu notaru
mo, cu carta, pinna e calamaru-.

Lu notare già vinni, ca Lorenza
àbbolumi juntau pemmu lu chiama;
e stà di la malata a la presenza
e nci domanda, ija rispundi e sgrama.
Lu galantomu, cu tanata pacenzia,
staci pè fari quantu voli ed ama;
e doppu tuttu quantu chi iju scrissi
si misi pimmu leji e accussì dissi:

Lejìu l’annu, lu jornu e cu regnava,
tituli, misi, ura e cerimoni,
eccetera lejiendu seguitava:
-Avanti a nui, notaru e testimoni,
Cecia la Trpijana-, e la mustrava,
- si costituì, vecchia d’anni boni,
arroffijana e buttana a meravigghia,
cchiù di Capeci e assai cchiù di Rivigghia.

Ija volendu prima pimmu dici
addio l’urtima vota a chista terra
ed assistura di li bravi amici
Crigna, Lorenza, Zarafina e Serra,
sana di menti, quantu in vita fici
ed accucchiau cu la buttana guerra,
si risorviu mu dassa e mu disponi
a chiji chi cridiu fidali e boni.

Jèu, Cecia , vògghiu pimmu annullu e cassu
Ch chistu ogno autru scrittu e mu si mbota.
Li pili di lu cunnu nci li dassu
a cui mu lu ntrumbau la prima vota;
e la natica mia, chi fici chiassu,
ch’era du carru quantu na gran rota,
a cu’ mi lu carcau ‘ntra lu gruppillu.
O Cecia, Cecia benedicinillu!

‘Sti minni, chi mo sgnu allapparati,
e chi ficiru pecceri a lu Signori
quand’eranu pompusi e spampanati,
nci li dassu a lu capu futtituri;
‘sta fissa, chi rejiu tanti cazzati,
chi si lu cuntassi jèu farria terrori,
guarda, notare, ancora non è mala,
la dassu a la buttana chi m’agguala.

E li smeragghi mei cu la patenti,
pe’ li tanti campagni e campagnuni
chi fici ‘ntra lu mundu cu li genti,
pi’ timpi, pe’ muntagli e pi’vajuni,
chi ‘ntra ‘nu misi, mi lu portu a menti,
ndi fici chhiù di menzu milioni,
a Lorenza li dassu, vì !...nommu sgagghi,
mu si li mpendi ammenzu li ngunagghi.

E chija poi di l’ordini francisi
La dassu a Mariangela Portara;
e a Chiumbra pimmu passa a l’autru misi
e l’autru appressu a la Telefricara:
e accussì a tutti ccà di lu paìsi
nu misi l’unu comu cosa cara;
e Felicia Capaci all’urtimata
mu l’havi e mu la teni pi binata.

L’arti mia nci la dassu a Zarafina
E li belli paroli e li maneri;
lu lettu, chi di sira e di matina
facia pi lu travagghiu lu ‘ncenzeri;
lu lavamanu e la tuvagghia fina,
chi pulizzava jèu li candileri;
li fasci, li ziringhi e li spiazzi,
l’arti mu arrizza e mu arrizza cazzi.

E lu ritrattu meu vògghiu mu staci
mpisu rimpettu di lu futtisteriu,
ca quando ncunu pimmu chiava vaci
havi, guardando jà, cchiù desideriu;
e si voli la manipola mu faci
si sciala e duna a mia lu rifrigeriu;
accussì nò si poti mprancisari
e nò caccia di gurza li dinari.


Di scomunica dassu sutta pena
ièu pì finca a lu settimu magghiolu,
a cu’ po’ mu si futti e mu si mprena
e nò voli mu prova lu pisciolu:
futti tutti finca chi c’è lena,
la cotrara mu prega lu figghiolu
e cu’ no pimmu jè scomunicatu:
lu futtari pardeu non è piccatu.

Dassu lu megghiu accuntu a lu Pojeta,
chi cu li verzi soi m’havi onoratu;
la porta grandi e la porta segreta
a titulu nci dassu preligatu;
e pimmu azzippa senza mu nce meta,
a piaceri, duv’è chhiù ncrinatu;
e cu ccù voli e quando vò mu mina:
di sira mu s’abbutta e di matina.


Li timpi, la Parrera e la funtana
dassu a cù voli m’abbuzza o mina ‘n chinu;
la grutta, ch’è chiamata la Marrana,
pe’ li figghioli sutta lu mulinu;
a ncunu abati, c’havi la buttana,
di Talamu nci dassu lu gurvinu,
e l’autri lochi tutti riserbati
pè li perzuni nobili e magnati.

Assorvu a chiji chi mi currivaru,
o dicu meghhiu, ficiaru lu perri,
doppu chi bona bona mi chiavaru,
chi jèu di la testa mi tirau li cerri
gridando: mamma cara, m’ammazzaru!
Vidi ca sindi vannu, oi nò l’afferri?...
Pigghianci li dinari!...A tutti quanti
vi benedicu, chimmu siti santi.




E si di chisti ncunu religiusu
Voli, pè scaricari la cuscenza
Di quantu l’azzippau ‘ntra stu pertusu,
e nò pè volontà, ma pè nò potenza,
e d’ogni autru serviziu pilusu,
chi jèu ‘n parola sua fici credenza,
paga dunatincilla a lu notaru,
ca Peppi Giustu non è tantu caru.



Vogghiu levata, quando veni l’ura,
cu pompa randi comu si cumbeni,
ca su’ cchiù megghiu di la megghiu gnura,
chi nobili e autera ija si teni;
castellana farcitimi e pittura,
ogni abati chi celebra mu veni,
musica, orazioni in quantitati,
forasteri di l’arti cumbitati.

E pì testamentali esecuturi
Jèu dessu a Don Santoru Ramundinu,
chi jesti n’omu assai smanicaturi,
lu raghi duvi voi pi pani e vinu;
e pì nu misi chhiù vintiquattr’uri,
mu suffrtta e mu ha tuttu in soi dominu;
e doppu chi lu termini è spiratu
pimmu lu sparti a cù l’haju dassatu.
La volutati mia chist’è precisa,
pecchì nò vogghiu fari d’autru modu;
ogni perzuna pimmu resta ntisa
e tuttu chisti pimmu staci sodu-.
- Curcatimi:….ah, ca moru…la cammisa
cacciatimi! … Dunatimi…lu brodu!...-
E chiusi l’occhi e a niju cchiù guardau.
E Peppi fattu, lettu, seguitau.



‘A MORTI ‘I CECIA


Ch’è ‘stu chiantu? ‘Stu lamentu?
Cù moriu? Chi fu? Chi abbinni?
Viju fimmani, oh spaventu,
chi si sciuppanu li pinni,
tutti quanti scapijati,
cu li ganghi graccinati.
Via, dicitimi, chi fu?
-Cecia, Cecia non c’è cchiù!-

Ah……..Mustratimi la porta,
fati a mia ‘stu gran piaciri,
vogghiu jiri jà la morta;
puru jeu vogghiu giangiri.
Fati prestu, fati prestu,
ca lu chiantu l’haju lestu.
Duvi staci? Duvi staci?
Chimmu dormi ‘n santa paci.

Ma chi viju! …..O Cecia cara,
tu sì subbra a lu tusellu
‘ncurunata d’arangara,
tutta china d’oru bellu;
e li ganghi cù ti pitta,
cù ti stringi fitta fitta,
e pì tia cù poti fa,
cù ti vasa e si ndi va

Cù t’ ajuma li candili
E cù porta candileri;
ferzi ferzi su li vili,
li damaschi e li spruveri;
cù li trizzi ti fa lisci,
cù ti mbuia duvi pisci;
lu cuttuni cù ti menti
‘ntra ‘sta vucca senza denti.

Vì triccentu pizzitani,
chiji a paga furu misi,
li chhiù celebri buttani
di lu perfidu paisi.
Apri l’occhi ca li vidi
Cecia mia, si nò lu cridi;
e accussì cu fintu affannu
laudi a tia cantando vannu:

- Chi si beja, chi si’ cara,
non c’era para comu a tia,
Cecia amata, Cecia mia.

Di figghiola si vidia
Ca venivi ‘na cosazza,
ti addurava la pisciazza
ch’ogni cazzu abbiviscia,
e ‘na canna si facia,
Cecia amata, Cecia mia.

Eri bona e t’inculau
Nu gran santu prevituni,
e cu tutti li cugghiuni
chija perna t’azzippau;
e ti apristi la folìa,
Cecia amata, cecia mia.

Ndi facisti chiavatuni!
Chhiù ca fari ndi potisti!
Ti chiavavi a ogni puntuni,
li mumenti nò perdisti.
Ogni pisci ti trasìa,
Cecia amata, Cecia mia.


A na botta ti sucavi
Di la fissa, di lu culu,
nu gran cazzu di nu mulu,
né lu labbru bazzicavi,
senza nuja scarfunia,
Cecia amata, Cecia mia.

Fusti celebri buttana,
ammirabili accrescisti
ad ogn’arti chi facisti;
fusti mastra arroffijana,
nuja nd’eppi comu tia,
Cecia amata, Cecia mia!

Mo la parma e la curuna
Ci portati a sta bandera
Ca pi tantu chi ntrumbau
tornau virgini com’era.

Fusti mastra m’addrizzi,
pimmu allarghi cu li mani
li grupperi e li patani,
cazzi musci pimmu arrizzi;
ed ognuno lu dicia,
Cecia amata, Cecia mia.

Sempre avisti grandi amuri
Mu t’azzippi pistunati,
e cu monaci ed abati
cu filosofi e dutturi:
no’ ti dicu ‘na bucia,
Cecia amata, Cecia mia.

E Galluppi, lu dottuni,
puru avisti ammezzu a tanti;
e t’amau, fu pacciu amanti,
te chivau pè ogni puntuni
cu la sua filosofia,
Cecia amata, Cecia mia.

E portati sei cifruni
Di capocchi e di cugghiuni,
si l’ammerita la zia,
Cecia amata, Cecia mia.

Si moristi, o gran signora,
si la morti ti fa guerra,
pè dispettu subb’a terra
lu toi nomi sempri dura,
e lu mundu ti mbidia,
Cecia amata, Cecia mia.
Mo la lampa s’acconzau,
s’ajumau pè ‘standera,
ca pè tantu chi ntrumbau
tornau virgini com’era;
nuja mamma chhiù ndi cria,
Cecia amata, Cecia mia-.

Ma duv’è?....Duv’è?..Spariu
Di ‘stu cori lu pinneju!
Duvi cazzu sindi jiu?
Ca mo fazzu lu ribeju!
La viditi comu chiana,
nci fumiga la patana,
‘ntra nu nuvulu di cazzi
ntorniatu d’accejiazzi.

Vi’!...Vi’!...Si stendi
Nu tavulatu,
cumpari ornatu
‘ntra nu mumentu
e centu e centu immani jà.

E Rosazza vaci avanti
cu nu bellu tamburrinu
ed appressu tutti quanti
cu la vesta d’armusinu,
Nc’esti Carmina Ciurria,
la Sorrisa, Rosa mia,
e la Marca, la grand’Anna,
nc’esti Guerra, Marianna.

Ed appreesuu va Cuncetta
Di lu Longu, doppu veni
Cu tri figgi, e po’ s’assetta,
e di limai si liteni,
la speranza donna Rosa
pecchì è vecchia si riposa,
rosa poi di gustineju
fa facendo lu ribeju.

Nc’è di Lazzaru la Paccia,
nc’esti ‘Ntonia di Micciu,
pari l’ova ca scamascia
di vilosciu cu lu ricciu;
e Citrina ‘Ntonijeja,
veni poi Caterineja,
cumpari Tuturutù,
Gozza, Micia e cchiù e cchiù.

Sugnu tanti chi nò sacciu
Jèu né nuju mu li cunta,
poi, pardeu, nesciri pacciu.
Cchiù ndi veni, cchiù ndi spunta?
E s’acconzanu a ringhiera,
nc’è ‘ntra l’aria na fera;
lu ribeju, li gridati
a nu issi su quetati.

Eccu Cecia c’arrivau,
e la prima fu Rosazza
chi di gioa gralimau
mu la vasa, mu l’abbrazza;
tutti appressu la vasaru,
la stringiru, l’abbrazzaru;
vinni all’urtimu Troianu
e la di la manu.

N’abballata cu nu cantu
Tutti ‘n coru fannu fandu;
si festija ad ogni cantu.
E Rosazza accumpagnandu
Và cocuzza e tamburrinu
e chitarra e mandulinu;
e assettata a nu pumtuni
nci jettau chista canzoni:

- Bona vanuta mo chi venisti,
buttana di mestieri, arroffjana.
Quanti furu a lu mundu li rapisti
tutti ti l’azzippasti ‘nta ‘sta tana;
non ci fu cazzu chi no’ lu volisti,
ti apriru finu all’urtima membrana.
E pi tanti battaghhi chi facisti,
‘n culu la fissa ti portasti sbana.

E sbana, e sbana, e.’ndah!
Venitindi Cecia mia,
venitindi veni ccà!

Ma senti chi ribeju?
Scumpariu lu tavulatu;
pimmu trasi lu porteju
fu pi Cecia spalancatu;
eccu, trasi e s’assicria,
la buttana cugghiunija.
Vi’, ca trasi!....Vi’..trasiu!
Vi’…..la porta si chiudìu.






ANNIVERSARIO D’A MORTI ‘I CECIA


Oji fa ‘n’annu chi Cecia moriu,
ah, ca mi scappa sulu nu sospiru!
E tuttu lu paisi si fa mimìu,
tutti quanti di luttu si vestiru.
Abati no restaru a Piscopiu,
di Zammarò li previti curriru,
di pizzinni, di Nau, di Paravati,
pimmu nci fannu gran solennitati.

Don Jacupu cu l’orbu di la Vina,
francescani, bruniani, cappuccini,
curriru tutti di prima matina;
fin’all’abati cu li filippini,
gustiniani cu la vesta fina,
cappellani, canonici, abatini,
ngratis pim lu grandi funerali,
ca bona ricordavano ‘sta tali.

Li campani ndì ndò fannu lu jornu;
li immani su tutti scapitati,
candileri, candili vannu ‘ntornu,
li poveri, li ricchi, li sordati,
vannu ciangendu chi non hannu scornu,
e cu li ganghi tutti graccinati,
rispundinu a cui spia:- A cu’ ciangiti?-
- E’ di Cecia l’annata, no’ sapiti?-

E pi la strada di lu campusantu
L’aggenti tutta quanta vaci a lava,
ch’esti vagnata pi lu troppu chiantu,
chi di l’occhi nesci comu ‘na cava;
no’ pipitia cchiù nuju stratantu,
cu’ la briscia si stuja e cu’ la lava.
Lorenza dici:- Avanti, a litania!-.
E rispundinu l’autri:- Ora pija!-.

E arrivati chi sugnu a lu locu
Duvi Cecia na vota accumpagnaru,
no’ ponnu cchiù mentendu ‘ntra lu focu
‘ncenzu chi li cappelli affumicare
ed ebbaru du diri a pocu a pocu
ca pari notti mentri è jornu chiaru.
Eccu, cumincia la grandi funzioni
e doppu si lejìu l’orazioni.

Si dissi quantu fici in vita sua,
duvi fu chi nesciu, quand’ija vinni,
li valentizzi di puppa e di prua,
si cantaru li natichi e li minni.
O Cecia, nui ciangimmu e l’arma tua
di li cunni riposa ‘ntra li pinni,
spingiuta subbra jà li nuvolati
a botti di spacchini e di cazzati.

Ccà sentisti nu chiantu e nu lamentu
Chi non vi pozzu amici mei cantari.
Mi votu e viju cchiù di setticentu
fimmanichi gridavano:- Cummari!-.
-Mamma!- -Soreja!- ; e comu fa lu ventu,
o quandu ammareggiatu esti lu mari,
nu gridu si sentiu, nu gridu bruttu,
e tantu dissi Cecia:- Jèu mi ndi futtu!-.

Di Nicastru nd’avìa, Catanzarisi,
di Cusenza, di Paula, Reggiani,
jà Troiani, jà Polistinisi,
jà di Messina, jà Palermitani;
nd’àvia, ‘nsomma, di tutti li paìsi,
e no vi parru di li paisani.
A ringhiera tutti tutti quanti s’acconzaru
E ciangendu e scippando seguitaru.
Cù dicia:- Jèu pi tea mi sbirginai
E tu mi l’allargasti cu li mani,
e cui:- Pe’ tia lu culu mi sgarrai,
mancu l’aricchji mi restare sani-;
cui:- ‘Ntra lu lettu toi ndi jettai
cazzati, mamma cara, comu cani-;
cui:- Ti ricordi ca pe’ tali nzinca
lu ‘nguentu mi dunavi e la siringa-.

‘Ncurunati di frundi d’arangara
Chjumba, Catarinea e la Pilusa,
Mariangela e Rosa la Portara,
e la Gendarma cu’ la Curiosa,
la Marca cu Lorenza e la Forgiara,
e la Sorrisa cu la Mungarusa,
la Cuncia, la Crigna e la Cutina,
Canigghia, Mariuzza e Zarafina.

Minozzia, poi c’è donna Filici,
chi ‘ntra diji si chiama Generala,
Sabbeja, ch’è lu hjuri di l’amici,
Crocifissa, chi pari ‘na cicala,
Maria la Pinta, chi no’ sa chi dici,
donna Francisca la Telefricara,
nci su’ li du’ figghioli di Rivgghia
e li Nigreji, nanna, mamma e figghia.

Stavano, chisti, di la fossa ‘n gieu
Jettandu rosi janchi e paparini,
gigghj e violi c’apposta cogghjru,
finca nu mazzu di rosamarini.
Cu’ jetta queta queta nu suspiru,
di la gran donna pensandu la fini;
e cu’ l’occhiu si strica gralimusu
e cu si teni la faccia a jiri susu.

‘Ntra stu mentri si senti nu rumuri
e vinnaru tri mastri scarpellini,
e cu d’iji mbiscatu nu dutturi
chi li mani tenìa di carti chini
e mprascati di scritti e di lavuri;
e a li mastri chi ad iju su’ vicini,
dissi:- Vui chisti subbia a chija fossa
mpingiti duvi su’di Cecia l’ossa-.

E chi vidisti? A chiju stessu puntu
ttà, ttà, ttà, ttà…furu macchiati.
Mi votu e guardu, a quantu chi ti cuntu,
e viju pettinali spompinati,
cazzi, cugghiuni, nu vasettu d’untu,
labbra di fissa, capocchi tagghjati,
culi, cchiù culi, siringhi, spiazzi,
gurgiuli, brisculuni e tuncunazzi.

Cecia, ditta accussì la Trpijana,
valenti cchiù d’ogni autra a li misteri,
appena nata fici la buttana
cu amici, paìsani, e forasteri.
lu culu cu cunnu era ‘na tana;
si futtia pe’ vajuni e pe’ sinteri
e venìa duvi e quando la volivi,
a guarda cu veni e a cògghj alivi.

Ma poi chi la vecchiaja l’arrivau,
l’arroffijana si misi pemmu faci
ed ogni autra arroffijana superau,
si poti diri cu na bina paci.
E finca chi cchiù potti si prestau,
vecchia puru porgia lu pirunaci.
Chisti furu li scritti e li lavuri,
ciangitila, buttani e futtituri



PERVIGILIUM VENERIS

La battaglia infuriava ed il mare si arrossava mentre all’orizzonte apparivano nubi.
La dea invitò i colleghi a distogliere lo sguardo da ciò che l’uomo era diventato dopo decine di secoli di varie civiltà politiche e religiose, non avendo nulla compreso dalla vita. Invito superfluo quando le ninfe schierate intonarono il suo inno con una movenza che trasecolò gli dei e fece annaspare i satiri mentre seguivano ed ispiravano le chore –amendue – i corni del monte Parnaso nelle cui acque sacre e lustrali dianzi si erano bagnate.Afrodite ora diventata maestra di vita e saggia, non volle scoraggiare la Cecia ancora figghiola come se il canto a lei prefiguarato fosse dedicato a qualcosa di impuro e la consolò sulla missione di incivilimento che avrebbe svolto a Tropea da li’ a trecento anni, confidandogli che il canto che il canto fra poco per lei Afrodite eseguito in fondo esaltava sempre la grande missione dell’amore. Ella da solista assecondava con la danza e naturali movenze il canto e la battaglia in corso fu dimenticata per invidia o contemplazione.


Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet!
Ver novum, ver iam canorum; vere natus orbis est,
Vere concordant amores, vere nubunt alites,
et nemus coman resolvit de maritis imbribus.

( Ami domani chi amato non ha mai;
chi ha amato, ami ancora domani!
Ecco la nuova primavera,
la primavera melodiosa!
A primavera è nato il mondo,
a primavera concordano gli amori,
a primavera si sposano
gli uccelli e il bosco
sciolie la chioma
sotto le piogge maritali.)

Cras amorum copulatrix inter umbras arborum 5
implicat casas virentis de flagello mirteo,
cras Dione iura dicit fulta sublimi throno.
Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet!

( Domani la dea che accoppia
gli amori, intreccerà
le verdeggianti capanne
con ramoscelli di mirto.
Domani Dione,
appoggiata al suo alto trono,
pronuncerà le sue leggi.
Ami domani chi amato non ha mai;
chi ha amato, ami ancora domani!)

Tum cruore de superbo spumeo pontus globo
caerulas inter catervas inter et bipedes equos 10
fecit undantem Dionem de maritis imbribus.
Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet!

( Allora dal sangue tirannico,
il mare, in un nembo di schiuma,
tra le cerule caterve
e i bipedi cavalli,
ha fatto sorgere dalle acque
fecondatrici Dione grondante.
Ami domani chi amato non ha mai;
chi ha amato, ami ancora domani!)

Ipsa gemmis purpurantem pingit annum floribus
Ipsa surgentes papillas de Favoni spiritu
Urget in nodos tumentes, ipsa roris lucidi 15
noctis aura quem relinquit, spargit umentis acquas.

( Essa dipinge coi fiori
la stagione che risplende
di gemme; essa spinge
a gonfiarsi in nodi i boccioli
che nescono al soffio del Favonio;
essa diffonde le umide stille
della luccicante rugiada
che la brezza notturna depone)

Et micant lacrimae trementes de caduco pondere,
gutta praeceps orbe parvo sustinet casus suos.
En pudorem florulentae prodiderunt purpurae:
umor ille, quem serenis astra rorant noctibus, 20
mane virgines papillas solvit umenti peplo.

( E splendono le tremule lacrime
per il peso che le trae giù.
La goccia che sta per cadere
La sua caduta trattiene
Dentro il piccolo suo globo.
Ecco i petali rossi
Hanno mostrato il pudore:
quell’umore che gli astri
irrorano nelle notti serene,
scioglie al mattino i boccioli
virginei dall’umido manto)

Ipsa iussit mane totae virgines nubant rosae
Facta Cypridis de cruore deque amoris osculis
Deque gemmis deque flammis deque solis purpuris.
Cras ruborem, qui latebat veste tectus ignea, 25
Unico marita nodo, non pudebit solvere.
Cras amet qui numquam quique amavit cras amet!

( Essa ha ordinato
che tutte le vergini rose
domani si sposino.
Nata dal sangue di Ciprie,
dai baci d’amore,
dalle gemme, dalle fiamme
e dalle porpore del sole,
domani la rosa, raccolta
in un unico nodo,
non si vergognerà di scioglere
che stava nascosto
sotto l’ignea veste.
Ami domani chiamato non ha mai;
chi ha amato, ami ancora domani)

Ipsa Nynfas diva luco iussit ire myrteo:
it puer comes puellis: nec tamen credi potest
esse Amorem feriatum, si sagittis vexerit. 30
Ite, Nymphae, posuit arma, feriatus est Amor!
Iussus est inerme ire, nudus ire iussus est,
Neu quid arcu neu sagitta neu quid igne laederet.
Sed tamen , Nymphae, cavete,quod Cupido pulcher est:
Totue est in armis idem quando nudus est Amor! 35

( La dea in persona
ha ordinato alle Ninfe
di andare nel bosco di mirto.
Va il fanciullo compagno alle fanciulle;
ma creder non si può che Amore
sia in festa, se ha portato le frecce.
Andate, Ninfe, Amore ha deposto le armi;
è in festa; ha avuto l’ordine
di andare ignudo, perché nulla offendesse
con arco, con freccia o con fiamma.
Ma tuttavia, Ninfe, state in guardia
Perché Cupido è bello. Anche se nudo,
Amore ha sempre con sé le sua armi.)

Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet!
Compari Venus pudore mittit ad te virgines:
una res est quam rogamus: cede Delia,
ut nemus sit incruentum de ferinis stragibus.
Ipsa vellet te rogare, si pudicam flecteret; 40
ipsa vellet ut venires, si deceret virginem.

( Ami domani chi amato non ha mai;
chi ha amato, ami ancora domani!
Di verecondia pari alla tua,
a te Venere manda noi vergini;
solo una cosa ti chiediamo:
Vergine Delia, allontanati,
perché il bosco non sia insanguinato
da stragi di fiere.
Lei stessa vorrebbe invitarti,
se piegare potesse una pudica;
lei stessa vorrebbe che tu venissi,
se si addicesse ad una vergine)

Iam tribus choros videres feriatis noctibus
congreges inter catervas ire per saltus tuos
flores inter coronas, myrteas inter casas.
Nec Ceres nec Bacchus absunt, nec poetarum deus. 45
Detinenter tota nox est pervigilanda canticis:
regnet in silvis Dione! Tu recede Delia!
Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet!

( Già vedresti per tre notti di festa
cori che danzano e cantano,
mescolate alle brigate raccolte,
andare a schiere
attraverso i campi
tra corone di fiori
e capanne di mirto.
Né Cerere manca, né Bacco,
né il Dio dei poeti.
Tutta la notte si deve trascorrere
in canti assidui. Nei boschi
regni Dione; tu, Delia, ritirati.
Ami domani chi amato non ha mai;
chi ha amato, ami ancora domani!)

Iussit Hyblaeis tribunal stare diva floribus.
Praeses ipsa iura dicet, adsidebunt Gratiae 50
Hybla, totos funde floros, quidquid annus adtulit!
Hybla forum sume vestem, quantus Aetnae campus est!
Ruris hic erunt puellae, vel puellae fontium,
quaeque silvas, quaeque lucos, quaeque montes incolunt:
iussit omnes adsidere Pueri mater alitis, 55
iussit et nudo puellas nil Amor credere.
Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet!

( La dea ha voluto innalzare
il suo trono in mezzo ai fiori di Ibla.
Lei stessa presente
pronuncerà le sue leggi;
vi assisteranno le Grazie.
Ibla, spargi tutti i fiori
quanta è grande la piana dell’Etna!
Qui verranno le fanciulle
dei campi, delle sorgive
a quelle che abitano
le foreste, i sacri boschi e i monti.
La madre dell’alato fanciullo
ha disposto che tutte ad assistere
vengano le fanciulle ed ordina
che fede non prestino al nudo amore.
Ami domani chi amato non ha mai;
chi ha amto, ami ancora domani!)

Et recentibus vigentes ducat imbres floribus!
Cras erit quo primus Aether copulavit nuptias.
Ut pater totis crearet vernis annum nubibus, 60
in sinum maritus imber fluxit almae coniugis,
unde foetus mixtus aleret magno corpore.
Ipsa venas atque mentem permeanti spiritu
intus occultis gubernat procreatrix viribus.
Perque coelum perque terras perque pontum subditum 65
pervium sui tenorem esminali tramitem
inbuit iussitque mundum nosse nascendi vias.
Cras amet qui numquam amavit, quique amavit cras amet.

( E porti ai fiori appena nati
le pogge rnvigoritrici!
Domani sarà il giorno in cui Etere,
l’antichissimo, ha celebrato le nozze.
Per creare l’anno con tutte le nubi
di primavera, il padre discese
con pioggia maritale
nel seno fecondo della sposa,
onde, frammisto al corpo suo enorme,
potesse alimentare tutte le creature.
Essa permea col soffio suo
penetrante le vene e l’anima
e, procreatrice, governa nell’intimo
con occulte energie.
La voluttà feconda i campi,
i campi sentono venere.
Anche Amore, figlio di Dione,
si dice nato nei campi.
Costui, mentre la terra partoriva,
ella raccolse nel seno; costui
ella allevò coi baci cei fiori.
Ami domani chi amato non ha mai;
chi ha amto ami ancora domani!
Ipsa Troianos nepotes in Latinos transtulit;
ipsa Laurentem puellam coniugi nato dedit 70
moxque marti de sacello dat pudicam virginem.
Romuleas ipsa fecit cum sabinas nuptias,
unde Ramnes et Quirites proque prole posterum
crearet matrem et nepotem Caesarem.
Cras amet qui numquam amavit, quique amait cras amet! 75

( Essa trasferì nel Lazio i discendenti troiani,
fece sposare suo figlio con la giovane Laurenta,
e poi a Marte concede la casta vergine tratta dal santuario.
La stessa combinò le nozze delle Sabine con i Romulei,
donde Ramni e Quiriti per creare con i loro discendenti
la madre di Romolo Adriano ed il nipote Cesare.
Ami domani chi amato non ha mai ,
chi ha amato, ami ancora domani!
Rura fecundat voluptas, rura venerem sentiunt,
ipse Amor, puer dionae, rure natus dicitur.
Hunc, ager cum parturiret, ipsa suscepit sinu:
ipsa florum delicatas educavit osculis.
Cras amet qui numquam amavit, quique amavit cras amet! 80

( Il piacere feconda i campi, i campi sentono Venere,
lo stesso amore, figlio di Dione, si vuole nato dai campi.
E mentre il campo lo partoriva, ella lo accolse nel seno:
e lo allevò con i delicati baci dei fiori.
Ami domani chi non ha mai amato;
chi ha amato ami ancora domani!

Ecce iam subter genestas explicant tauri latus,
quisque tutus quo tenetur coniugali foedere.
Subter umbras cum maritis ecce belantum greges:
Et canoras non tacere diva iussit alites.
Iam loquaces ore rauco stagna cycni perstrepunt.

( Ecco, già sotto le ginestre i tori
spiegano i loro fianchi e ognuno
è sicuro del patto coniugale
onde, è avvinto.
Sotto le ombre coi mariti, ecco
Le greggi belanti delle pecore.
E la dea ha voluto che non tacessero
gli uccelli canori. Già i cigni
loquaci fanno rumoreggiare
gli stagni con la loro tauca voce.

Adsonat terei puella subter umbram populi
Ut putes motus amoris ore dici musico
et neges queri sororem de marito barbaro.
Illa cantat. Nos tacemus. Quando ver venir meum?
Quando faciam uti chelidon, ut tacere desinam?
Perdidi musam tacendo, nec me phoebus respicit.
Sic Amyclas, cum tacerent, perdidit silentium.
Cras amet qui numquam amavit, qui amavit cras amet!

( All’ombra del pioppo il canto echeggia
della fanciulla di Tereo, al punto
da credere che dalla sua gola
armoniosa siano espressi impeti
d’amore e al punto da non rassegnarti
a pensare che lamenti la sorella
a causa del barbaro marito.
Essa canta e noi taciamo.
Quando verrà la mia primavera?
Quando farò come la rondinella
e cesserò di tacere? Tacendo
ho perso la Musa e Febo non si volge
più a guardarmi. Così il silenzio
ha perduto amicla, la taciturna.
Ami domani chi amato non ha mai;
chi ha amto ami ancora domani!


Non è possibile descrivere lo stato di entusiasmo che i canti e le danze con le ninfe che rappresentavano tutta la terra, allora in parte conosciuta ai crociati ma tutta nota agli dei, portarono nel concilio che dalla discussione sulla guerra passò alla celebrazione dell’amore con il concorso universale, superando le speranze deluse del Concilio Tridentino. Almeno nessuno finì pugnalato per impedirgli di riferire la verità dai sicari pur essi benedetti: Agnosco stilum Romanae Curiae. Intanto i difensori della fede avevano finito di massacrarsi e con essi scivolò in fondo al mare anche la speranza e la carità e la fade tra gli uomini se mai fossero nate. La pioggia incipiente verso sera divenne lavacro per il proprio e l’altrui sangue. Venere salvò da un fallimento un concilio ed il Padre Giove che non sapeva come difendersi: alla fine concluse che gli dei di ogni tempo non hanno nulla da cui difendersi: essi esistono solo e soltanto come gli uomini per loro se li immaginano e li adattano ai loro bisogni ed usi leciti ed illeciti. Fece firmare gli atti del concilio a tutti gli dei ed ai vari rappresentanti dei satiri e delle ninfe, prenotandosi per il prossimo giro turistico le più tra le chore.


IL DESTINO DEGLI ARGONAUTI CROCIATI

Secondo la legge romana Ottaviano Augusto dopo Azio, che si trova all’entrata del golfo di Arta, dedicò agli dei per riconoscenza il dieci per cento del bottino. Questa cerimonia avveniva innalzando un trofeo per appendere ad esso in offerta le armi sottratte al nemico. Il trofeo poteva essere un semplice palo a forma di croce o qualcosa di più elaborato. La parola è dal greco –trepo = volgo- dal quale verbo nasce comunque si voglia far girare, il nome di Tropea come detto in altro capitolo parte delle presenti note. Esso era dedicato a Giove Versorio che accordando il suo favore, oggi diciamo grazia, aveva aiutato il comandante militare a – volgere- in fuga, a far voltare le spalle al nemico fuggendo: Hostibus fugientibus munienda via est. . In questo caso esso era Antonio romano, già generale di Cesare padre di Ottaviano e la legge romana vietava che a Roma si celebrasse il trionfo su un cittadino romano. Recenti esplorazioni archeologiche dimostrano che il vincitore di Azio eresse sul posto un colossale troféo per gli dei: un grande muro nel quale incastrò i rostri, dedicati agli dei, delle navi catturate, leggibili dalle cavità dei blocchi dello stesso muro venute fuori dopo che nei secoli furono sottratti per il loro prezioso metallo fuso di tre tonnellate ciascuno. Ma dopo preso in esame la mistoforia ad Atene nel V secolo intesa a dare a ciascuno una tropheia – pasciuta, mi domando se il nome della nostra città non possa proprio da essa trarre origine. Per quelli poi che novelli Lestrigoni hanno una – trofè- due-dieci- cento volte aldilà del giusto, mi viene in mente che il nome della nostra città potrebbe derivare da Tarpea ( rupe) con semplice metastasi. I Romani la videro su una rupe come la loro Tarpea al Campidoglio……………
Ma i novelli eroi non si preoccuparono di fare offerte di ringraziamento né agli dei che avevano seguito allegri e sarcastici la loro carneficina, tanto meno al loro Dio che poi era lo stesso degli sconfitti e non poteva accettarli. Litigando tennero tutto per sé e sfiorarono una seconda battaglia interna per il bottino. Ed allora dovevano fare la fine dei capi greci di Omero che atterrata Troia ebbero un tristo destino perché comunque sacrileghi per aver messo le mani sul palladio di Atena-Minerva che ha cercato di consolare Apollo e di fargli intendere come vanno ed andranno sempre veramente le cose.. Gli islamici erano e sono fratelli in Dio o come figli della stessa Madre Terra, e la celebrazione del trionfo sul vinto non è gradita alla divinità, che interviene atterrando chi umano ritiene essersi alzato al cielo. Memento te esse mortalem –. Un altro errore grave commisero i Rum dopo aver sconfitto chi combatteva in nome di Allah: non portarono il suo culto nel Pantheon come facevano i loro antenati. Ma San Pietro non era più il Pantheon: la sua costruzione grandiosa doveva essere finanziata con la vendita delle indulgenze e dalla Germania risposero che solo la fede ci può salvare. Selim II doveva costruire la sua grande Moschea e Cipro gli serviva per i soldi e per la gloria, dopo si chiuse nell’harem che lo consunse dando un pessimo esempio a suo figlio Murat III e seguito tra i quali nessuno più eguagliò il Magnifico.

IL VALORE DI LEPANTO

Dire che Lepanto fu una vittoria di Pirro è esagerato, ma che non risolse il problema dei Turchi per nessuno dei vincitori è provato dagli sviluppi immediati.
Occhalì si presentò al sultano quasi vincitore e fu nominato Amir con pieni poteri sul mare e risorse illimitate per ricostruire la flotta già pronta per l’estate ’72, necessaria per fronteggiare un ritorno di quella crociata al momento ormeggiata a Messina da dove avrebbe potuto tentare il recupero di Cipro o addrittura puntare su Istambul.
La situazione di stallo imponeva il mantenimento delle flotte in stato di guerra con il costo annuo enorma di 4.000.0000 di ducati, che se erano pesanti per Madrid e Roma, erano rovinosi per Venezia che da tre anni ormai aveva il commercio chiuso oltre l’Adriatico.
Il rischio della bancarotta, che la Spagna dichiarerà nel 1575, incombeva sulla Serenissima che pur aveva fatto doge il Venier, dopo il rientro in patria.
Nel ’72 non successe niente, solo spese enormi con le flotte e gli equipaggi a marcire nei porti, Pio V era morto l’uno di Maggio e si era rotta la liason tra Roma e Filippo che in un momento di misticismo cattolico aveva dato il suo assenso l’anno prima. Con Occhialì la nuova flotta non fu arrischiata ma Venezia soffocava e tornò a giocare su due tavoli come prima di Lepanto. Il commercio aveva bisogno o di guerra per aprire con la forza i mercati, o di pace per aprirli pagando il turco. Il 7 marzo 1573 Venezia firmò col gran Visir Sokolli ( Selim era occupato nell’harem sempre rinnovato ed affollato anche se non gli giungevano più in omaggio le figlie giovinette degli imperatori bizantini), una pace separata che colse Don Giovanni a Napoli. Questi ammainò il vessillo della Lega ed issò la bandiera di Spagna. La lega era morta (sciolta). Mai più se ne parlerà.
Venezia pagava 2.5000 zecchini all’anno per Zante e Cefalonia ed il risarcimento dei danni di guerra ( come sconfitta) con 300.000 zecchini in tre anni. Sembra imposizione gravissima ma non lo è: tenere la propia flotta in stato di guerra le costava un milione di zecchini all’anno e non c’era dove reperirli con la navigazione commerciale bloccata. In effetti Lepanto aveva avuto un grande effetto domino negativo per la psicologia turca e la Spagna non voleva che fosse allentata la morsa su Venezia che con la solita freddezza badò al sodo, colpendo con la pace separata (che aveva tentato anche prima di Lepanto) Madrid
che ora da sola doveva fronteggiare Occhialì sul mare mentre la Sublime Porta si faceva garante della stessa repubblica contro la Spagna. Con l’accordo ci fu un lungo periodo di pace che conveniva ad entrambi. Nessuna meraviglia mai in politica, né ieri né oggi. Dopo due anni di inerzia Filippo II, eterno indeciso in ogni campo, il 7 ottobre 1573, mandò il fratellastro con la stagione inoltrata a prendere Tunisi per emulare la spedizione di suo padre del 1535: l’operazione riuscì alla meglio ma appena volte le spalle arrivò Occhialì che si riprese la base strategica per la pirateria proprio contro la Spagna, 23 agosto 1574. Con ordini umilianti del re da Madrid fu probito a Don Giovanni di andare contro Occhialì che assediava Tunisi pur avendo pronta la flotta. Un altro successo avrebbe oscurato il fratello, vero o presunto. Allora colui che si era identificato con la guerra santa perse la pazienza e si presentò a fare le sue rimostranze senza mai violare la rigida etichetta di corte.
PROGETTI PER DON GIOVANNI

Ma forse fu il fratello Filippo II che sentì sul collo la gloria di don Giovanni. Questi finì nel giro della corte e delle invidie e sgambetti tra ministri ed amanti del re. Fatto sta che a Lepanto aveva appena 23 anni e prima dello scontro si mise a ballare il galoppo o quadriglia sulla tolda della sua capitana ed ora sentiva che dava fastidio a tanti: chiese e gli furono negati una serie di riconoscimenti. Papa Gregorio XIII, il riformatore del Calendario, lo propose per uno sbarco in Inghilterra: rovesciare Elisabetta eretica e sposare Maria di Scozia liberandola dalla prigionia, alla fantasia non c’è limite. La Spagna senza valicare la Manica aveva il grosso problema dei Paesi Bassi ( già cassaforte dell’Impero) in rivolta che dissanguava le sue fallite finanze, mentre Guglielmo il Taciturno calvinista, da giovane prediletto di Carlo V che non riuscì a trarlo dalla sua parte avviava le Fiandre all’indipendenza nonostante la ferocia della repressione. Nell’Olanda del XVI secolo vigeva tra le varie diramazioni cristiane, ebrei ed anche islamici, una completa tolleranza che scandalizzava Filippo quando il padre lo nominò governatore di un popolo che giudicava eretico e senza leggi nazionali proponendosi di regolare tutto con atti d’imperio.. Ma Anversa era il centro della finanza mondiale. Educato ad un rigido cattolicesimo formale e disposto alla crudeltà Filippo uscì sconfitto da quella provincia ed indispettito. Vi mandò come reggente la sorellastra Margherita anch’essa figlia naturale certa di Carlo V, moglie di Ottavio Farnese duca di Parma. Il loro figlio Alessandro si era distinto a Lepanto dove quindi c’erano un figlio presunto ed un nipote dell’imperatore. Infine arrivò con grandi forze e metodi spietati il Duca d’Alba che non si comportò diversamente dai turchi con i ribelli con stragi continue. Ma la situazione era assai complicata nelle 17 province che anche diverse fra di loro componevano i Paesi Bassi e precipitò quando la bancarotta di Madrid non potè pagare la truppa ed allora la sua cattolicissima fanteria prese d’assalto Anversa, 4 novembre 1576 ( Come i Crociati Gerusalemme nel luglio 1099, Costantinopoli nel 1204, come i Lanzichenecchi col sacco di Roma 50 circa anni prima col tacito consenso spagnolo). Settemila persone furono trucidale alla cieca e fu derubato tutto a tutti e la città in parte bruciata. Oltre le solite violenze ordinarie sui cittadini. In tali circostanze Filippo ricorse al fratello per rimediare la situazione ormai sfuggita ad ogni controllo, per farlo fuori o perché credeva in lui: difficile stabilirlo, forse per entrambi gli scopi. Attraversando da clandestino la Francia ed incontrando a Parigi la regina Margot, arrivò senza soldati e riuscì con metodi più opportuni a guadagnare simpatia avviando un processo di riconquista morale alla corona. Per tale suo metodo si allarmarono gli avversari calvinisti guidati da Guglielmo e si progettò il suo assassinio. Ma quando si trattò di esercitare l’autorità anche amministrativa ed impositiva su quelli che considerava sudditi della corona spagnola ci fu la rivolta ed egli passò alle armi conquistando Namur con le truppe che aveva portato proprio il Farnese. E fu a Namur che dopo aver rivisto in un incontro scenografico la regina Margot, Don Giovanni morì il primo ottobre 1578: a Namur rimase letteralmente il cuore, il corpo tagliato in tre ed imbalsamato attraversò di nuovo da clandestino la Francia e ricomposto, vestito da sfarzo fu esposto all’Escorial nel grande salone della famiglia reale nel quale non era stato mai ammesso. Poi sepolto accanto al suo padre putativo: Carlo V.
In disaccordo col fratello, prese iniziative non autorizzate contro i ribelli olandesi e cominciò a tenere un atteggiamento lunatico che non fu gradito al fratello suo. Questi prima provvide ad eliminargli il consigliere segretario che doveva avere il compito di spiarlo ed invece si era a don Giovanni affezionato. Durante l’impero bizantino e poi turco era prassi corrente accecare ed eliminare i genitori, i figli ed i fratelli, nella lotta per il trono. La corte di Madrid non poteva ricorrere apertamente per il buon nome a tali espedienti palesi. Ma nel 1578 don Giovanni, a 30 anni, morì a Namur di tifo si disse, presso la città che aveva attaccato senza accordo col fratello, con grande rimpianto di tutti, anche del fratello. Ma anni addietro un giornale riferì che le analisi condotte sul suo fegato hanno dimostrato che egli morì lentamente avvelenato come sospettò qualcuno quando lo vedeva perdere vigoria fisica, e che dietro ci sia stato il Grande Fratello ( Pericoloso quanto quello attuale) è la ipotesi più attendibile. Pratica ricorrente allora ed ancora oggi sotto diverse forme. Di recente tale ipotesi è stata smentita. Essendo sepolto accanto al presunto padre e vivendo noi in epoca di gossip, sarebbe interessante tramite il dna confermarlo o no figlio di Carlo I per la Spagna, Carlo V per l’impero asburgico Ma da lì a poco il Grande Fratello avrebbe sperimentato con altri dopo di lui, la catastrofe dell’Invincibile Armata e l’impossibilità di affrontare gli Inglesi per mare e come uno sciame di piccoli vascelli ben manovrati nella guerriglia poteva più di grandi galeazze piene di pennoni e dell’alterigia degli hildagos. Una simile armata ben diretta contro i Turchi avrebbe procurato ben altri risultati nel nostro Mediterraneo ove la difesa della religione fosse stato il vero scopo.


ERASMO


Trovandoci nei Paesi Bassi con don Giovanni definito bastardo, non possiamo tacere che qui nacque ed operò il più grande umanista europeo, Desiderius Erasmus Roterodamus che visse già maturo ai tempi di Carlo di Gand divenendone anche consigliere.Era nato secondogenito da una relazione illecita tra un ecclesiastico ed una Margherita di Gouda e quindi anche lui definito bastardo da chi sentiva il pungolo delle sue critiche. Partecipò con spirito critico e libero alla disputa tra cattolici e luterani, rimanendo comunque ortodosso a Roma. Quando invece nella sua assoluta libertà di pensiero, dote prima di ogni spirito libero, attaccò la corruttela viziosa di buona parte del mondo ecclesiastico che egli ben conosceva in tutte le sfere, questo si trovò scoperto ed indifeso e come al solito rispose con la calunnia gesuitica: Ab illicito et, ut timet, incesto damnatoque coitu genitus. Siamo sempre nel campo della lotta di religione, anzi nella difesa formale della stessa.
Per la Spagna del XVI° secolo ed oltre la guerra di corsa degli Inglesi contro i galeoni che portavano in Spagna dal Nuovo Mondo il metallo prezioso di quella che sarà l’America Latina, era ancora più nociva della pirateria con base nel Magrheb. Quel metallo che alimenterà ancora in Europa le guerre di una Spagna avviata al declino confermato dalla Guerra dei Trent’anni che la mise fuori per sempre a favore della Francia con la battaglia di Rocroi dove fu travolta la sua fanteria.


MARC’ANTONIO COLONNA


Nel 1577 Marcantonio Colonna fu nominato Viceré di Sicilia dallo stesso Filippo II, che lo giudicò troppo bravo e provvide a richiamarlo in Spagna, dove morì nel 1584, a 49 anni. Ma non dovette essere una morte dovuta ai disegni imperscrutabili di nostro Signore, quanto a quelli indagabili dell’invidia, delle corti vizio. L’eminenza grigia ed anima nera della politica spagnola in Italia era il card. Granvela.
Quando le navi cristiane arrivavano intorno alla Grecia a fine estate, i turchi ben sapevano che c’era stata discordia e dilazione operata dalla Spagna e che anche a non combattere l’armata nemica si sarebbe disfatta da sola per ragioni politiche e tecniche. Al Granvela avrà recato più buon umore la fine di Cipro che Lepanto. Ora questi si trova viceré di Napoli ed il Colonna di Lepanto è suo collega in Sicilia. Sa i precedenti della famiglia Colonna: Prospero nel 1521 era stato nominato da Carlo V comandante supremo dell’esercito imperiale; Pompeo Colonna, militare e poi cardinale di osservanza spagnola, si era opposto a Giulio II, il creatore delle guardie svizzere che al tempo di Clemente VII non avevano potuto salvare Roma dal saccheggio nel 1527,al quale lo stesso Colonna aveva partecipato. Per tali meriti era stato nominato nel 1530 viceré di Napoli. Come non pensare con invidia e timore al futuro dell’eroe di Lepanto che avrebbe potuto prendere il suo posto? Meglio trasferirlo con onore a Madrid come già re Ferdinando aveva fatto con Consalvo all’inizio del secolo. La morte compì l’opera.



CERVANTES


E’ d’obbligo ricordare che alla battaglia partecipò Miguel Cervantes, autore in seguito del Don Cuijote de la Mancha, divenuto sinonimo di sciocco per chi si ostina a chiedere nelle faccende umane verità e giustizia, sempre meglio forse che essere indicati come eretici e bruciati sul rogo. Egli curò a Messina durante il ritorno la mutilazione del braccio destro. Comprese che la ricerca della verità e delle giustizia, invocate da ogni credo civile o religioso, proprio per opera dei rispettivi ministri a tutti i livelli, è solo illusione di sciocchi, che se insistono rischiano di essere posti sugli altari o sui monumenti delle piazze, o in carcere o al rogo, allora come oggi. Furono tanti i feriti curati a Messina almeno per le urgenze prima di proseguire il viaggio. Abbiamo in un capitolo precedente visto la probabile storia degli hospitali di Tropea . Noi non sappiamo se Cervantes per accedere alle cure nella città mamertina dovette mettersi per mesi in lista di attesa, o si fece fare una fasciatura provvisoria scappando altrove per curarsi come sono costretti a fare oggi i cittadini del Regno delle due Sicilie ( Sicilia, Calabria. Basilicata, Puglia, Campania, Abruzzo , Molise). Né sappiamo se qualche primario dell’epoca, ( speriamo di no perché si trattava di religiosi e gli ospedali erano allogati ai portici delle strutture di culto, ma questo non ci tranquillizza ) gli chiese la mazzetta per operarlo o anticipargli l’intervento o il ricovero, facendolo passare prima due tre volte dal proprio studio privato con lauto pagamento al nero, come fanno oggi tanti che poi gridano di essere oppressi dalle tasse. I dubbi nascono da quello che anche accade oggi nella Calabria del glorioso regno rimasto borbonico ed altrove, ma badiamo a noi. Non sappiamo se anche nell’ospedale che lo accolse c’erano tanti vagabondi e nullafacenti che passano il tempo a sparlare e buttare dovunque mozziconi di sigarette, minacciando con aria mafiosa chi gli fa osservazione. O dipendenti che ricevevano lo stipendio con gli straordinari anche notturni, il tutto accreditato sul conto, senza mai andare al lavoro.
Non sappiamo se anche allora in rapporto alla condotta di un ospedale c’erano i manager con nomina partitica e facenti parte dei reges feudali di barriana memoria, nominati da quei politici di turno per la cui elezione si erano prodigati i reguli chiedendo per loro il voto, perché amici sempre a disposizione. Non sappiamo se quando Cervantes si recò giovanissimo all’ospedale che doveva trovarsi presso i Francescani a Messina il loro priore fosse anche Manager. Certo c’era un responsabile dell’hospitale, ma non aveva certo l’improntitudine di predicare di porre al servizio pubblico il suo impegno politico-professionale, a destra, al centro, a sinistra, a sinistra, al centro e a destra. Fottendosi un compenso annuo da 300.000 euro in su ( quelli che si vedono) pagati col tiket e la fame del pensionato a 500 euro al mese spesso dopo anni ed anni di lavoro e frodato dei contributi dovuti: o muore di fame o muore perché non può accedere alle cure.. Quanto ognuno di loro si arraffa in un anno, il pensionato al minimo lo prende in 50 anni. Forse hanno virtù taumaturgiche manageriali e guariscono i malati meglio dei medici, magari nelle festività religiose facendo un giro nei reparti con qualche porporato? Farsi pagare le virtù taumaturgiche o pagarle per il diritto canonico è simonia e tutti si professano cristiani con esibito baciamano con genuflessione meglio se ripreso dalle tv. Ed anche se si professano laici la cosa non cambia. Nel servizio pubblico si aspetta il tecnico perché l’apparecchio è rotto, ma sanno dove mandarti, se paghi se no crepa. Quante cliniche convenzionate abbiamo in Calabria? Quanti ospedali pubblici? Con lo stesso criterio politico-degenarato si fanno i primari o si moltiplicano i reparti, le unità varie perché sono tanti gli amici che meritano un posto che raddoppi i loro guadagni. Con quale criterio i concorsi? E la spesa per materiale ed attrezzatura? I fratelli spitalieri che curarono Cervantes fabbricavano quasi tutto loro nelle loro officine all’interno del convento. Oggi c’è la vacanza ed altro a chi sa superconsumare certi prodotti farmaceutici. Se questi grandi manager dicono di sacrificarsi per il bene pubblico, quasi fossero dei volontari di un servizio civile, non basta loro la metà della metà di prebenda e già sarebbe anche troppo?

TUTTI UGUALI


Nessuna forza politica, anche in forma autonoma e volontaria, si adopera per ridurre anche di dieci volte certe prebende vergognose e sprechi immensi a cominciare dalle alte istituzioni fino alla vergogna dilatata in periferia con pletore di consiglieri regionali,comunali ed assessori che costano dieci volte il necessario, mentre si negano le cure ai bisognosi che sono anche costretti ad emigrare per curarsi . E’ soltanto un insulto, a chi lavora comunque e dovunque, il costo della politica a cominciare dall’enorme numero di deputati nazionali e regionali e provinciali e comunali, ed ancor più dai loro stipendi e sperperi di –supporto- che dovrebbero essere ridotti almeno di tre quarti. Per non parlare dei tanti consigli di amministrazione di enti pubblici inutili che si contendono le competenze, aumentano sempre e mangiano miliardi di euro in prebende politiche. Siamo a livello non pazzesco, ma coscientemente di avidità insaziabile per conservare il potere: associazione di mantenuti di Stato. Questa à la vera questione morale, don Chisciotte della Calabria, e se tanti cittadini cominciano ad assimilare la classe politica a ben altro, dicendo che non ha nessun titolo etico di fare appelli alla buona condotta, è sempre più difficile dargli torto con argomenti validi. Dicono che tante prebende toccano loro in base alla legge, quella che loro stessi si sono fatta, sempre all’unanimità: associazione………… per diaria mensile pantagruelica di stampo politico. Nei loro confronti la regina Semiramis di dantesca memoria, - che libito fè lecito in sua legge- per torsi dal biasmo in cui era condotta- era una vergine fanciulla che poteva diventare anche vestale del fuoco sacro. Pericle ebbe molto a che fare con i luohi visti dal mutilato don Chisciotte nei giorni precedente la battaglia, per via dello scontro tra Corinto e Corcira su Epidammo e fu il prodromo della guerra del Peloponneso. Ma quando lo stesso Pericle decise che i membri della Boulé o parlamento di Atene dovevano ricevere un compenso, per permetterne la partecipazione democratica anche ai nullatenenti , fece certo una scelta precorritrice dei tempi: non immaginava quanto sarebbero costate le varie Boulé e dipendenze che sarebbero proliferate in Italia e nella Magna Magna Grecia che già ai suoi tempi si avviava al declino irreversibile proprio per gli stessi vizi. Pericle aveva assegnato un compenso, non una prebenda da rapina del pubblico erario: Ora che gli affari di governo e i processi erano in gran patre affidati alla massa ed agli organi da essa espressi, l’uomo del popolo aveva occasioni ben più numerose di prima di svolgere un’attività pubblica. Ogni anno circa un settimo della cittadinanza prestava la sua opera nei tribunali, cinquecento facevano parte del Consiglio. Ma la maggioranza del demos non poteva abbandonare la propria attività privata senza ottenere un compenso per la proria attività privata senza ottenere un compenso per i gudagni perduti e perciò non si poteva fare a meno di dare una remunerazione. L’indennità che su proposta di Pericle fu concessa dapprima ai giurati, poi ai membri del Consiglio e infine anche ai cittadini che assistevamo agli spettacoli drammatici in onore di Dioniso( compiendo così un dovere politico verso il culto dello Stato), in verità era assai modesta. Essa corrispondeva al guadagno giornaliero piuù basso ( due oboli ) e non era destinata ad aiutare economicamente i ceti più poveri, ma a portare alla perfezione la vita collettiva nello spirito dell’isonomia. ( Helmut Berve: Storia greca- Laterza-1966) Si tratta della – mistoforia-
Una miriade di enti inutili e supergonfiati servono ai loro –dirigenti e company-a fottersi ogni anno milioni di euro, pappandosi per ogni seduta quanto un pensionato non riceve in un mese: vera mafia. Ma voglio evitare che i nuovi feudatari con lautissimo vitalizio nominati dai partiti tutti senza alcuna distinzione, ( povero don Chisciotte che lottavi contro le ingiustizie, quanti oggi si riconoscono in te e torcono nauseati gli occhi dai catapani satrapi della cosiddetta politica), possano anche sostenere che il loro diritto feudale di saccheggiare con privilegi e superprebende l’erario impinguato col tiket sul pensionato al minimo, derivi, almeno nella Magna Magna Grascia, dallo stesso Pericle dicendo ; ipse statuit.
Pertanto mi permetto di sottoporre a coloro che fingono di gridare allo spreco della politica mentre pappano con tante forchette quanto le braccia di Briareo, il passo della
- Costituzione di Atene- ( Utet, 2006) di Aristotile ( ipse dixit) che nei dettagli elenca le indennità modeste che venivano date ai componenti le varie assemblee con le varia funzioni:
- Il popolo in primo luogo riceve una indennità di un dramma per le assemblee ordinarie e di nove oboli per quella principale,i tribunali poi ricevono un’indennità di tre oboli; infine il Consiglio di cinque; i Pritani hanno oltre al resto un’indennità di vitto di un obolo. I nove arconti per il loro mantenimento quattro oboli e mantengono un araldo ed un trombettiere. L’arconte di Salamina ha una dramma al giorno. I capi dei giochi vivono nel Pritaneo durante il mese di Ecatombeone, quando ci sono le Panatenaiche a cominciare dal quarto giorno del mese. Gli Anfizioni a Delo ricevono da Delo una dramma al giorno. Tutti i Magistrati mandati a Samo, a Sciro, a Lemmo o a Imbro ricevono poi il denaro necessario per le spese di mantenimento.
E’ possibile ricoprire le cariche militari più volte, il che non vale per le altre, eccetto quelle di consigliere, che può anche essere occupata due volte.-
Si ricorda solo che l’obolo era la sesta parte di una dramma, che con l’asse e l’oncia, ha subito diverse oscillazioni sia per peso e soprattutto per la qualità del conio.
Eravamo sempre comunque ad una indennità-diaria di forse appena decorosa sussistenza che compensava l’attività propria che non si poteva praticare per il tempo impegnato in attività ritenute un pubblico servizio. Era una trophe, una –pasciuta- . Oggi tale –pasciuta- si è trasformata ai vari liveli ed ordine di nuovo parassitismo feudale in una grande abbuffata a spese dell’erario pubblico da miglia a milioni di euro all’anno a seconda del posto occupato o dai grandi feudatari della politica assegnato in commenda. Propongo che costoro tutti quando appaiono in televisione a chiedere sacrifici agli Italiani, contenimento dei salari per non far correre il debito pubblico, flessibilità del lavoro ed interinato dello stesso come prostituzione civile, propongo per loro obbligatorio un cartello che indichi a chiare e grandi lettere la loro indennità annuale. Gli Italiani allora vedrebbero cartelli con decine, migliaia, milioni di euro oltre la decenza e gli sputerebbero a tutti in faccia sullo stesso schermo e capirebbero meglio perché loro debbono tirare la cinchia ed andare dal calzolaio a farsi fare nella stessa altri buchi. Non posso suggerire rimedio, so dalla storia che chi attacca, non dal palcoscenico per fiction che diventa redditizio mercato, ma con proposte ed interventi draconiani, finisce con l’essere perseguitao o definito nel migliore dei casi stravagante e pericoloso. Ogni persona ha bisogno di una –pasciuta- per vivere dignitosamente: oltre i due terzi degli Italiani pur lavorando sono lepri, possono pascolare in un piccolo campicello con erba avvizzita dalla siccità e dall’inquinamento del magna magna nazionale, l’elite feudataria con i suoi vassalli e valvassori pascola come mandria di bisonti nelle illimitate praterie dell’erario – fingendo nuova esca al pubblico guadagno-.
Ma gli Indiani, quelli vittime a milioni del genocidio negato dall’uomo bianco della millenaria civiltà europea, sapeva anche abbattere i bisonti……… quando era necessario per sopravvivere. Questo che la maggioranza degli Italiani condivide nonè antipolitica, noi vogliamo la politica con i mezzi ed i fini corretti, la gazzarra allo stadio non è sport, è inciviltà.





LA SCUOLA- I DOCENTI- IL QUALUNQUISMO

Sempre si fa colpa alla scuola di certe carenze comportamentali nei giovani, non vengono educati alla tolleranza, rispetto degli altri e democrazia. Può darsi a volte. Ma chi seduto in uno studio televisivo parla a suo agio ed accusa i docenti proponendo il rimedio per l’educazione alla legalità, provi da anonimo ad entrare per un mese da docente in una scuola della nostra Calabria da precario a trenta o cinquanta anni- perché mancano i fondi-. Ma veramente crede che tali miserabili docenti, in quanto così vengono tenuti dalle varie riforme, non si portino dietro e dentro e sulla cattedra tale status giuridico ed economico che demotiva ed opprime la maggior parte? O che essi non sappiano in quali fogne finisce l’acqua loro sottratta all’acquedotto-spesa pubblica che è un colabrodo per i ratti di fogna?
Sa il Solone- Rousseau che già alla scuola media e superiore arrivano alunni ai quali l’insegnante non deve rivolgere alcun appunto, pena le gomme della sua auto per recarsi al lavoro o peggio? Perché non anticipa l’analisi e l’anamnesi alla società da cui arrivano tanti e tali alunni? Da quella società hanno già mutuato il modello di vita e valori e si chiede all’insegnante di invertirlo da parte di coloro che lo studente adulto di fatto a sedici anni, può mostrare sul giornale locale o nazionale inquisito o tratto in arresto per aver calpestato tutti quei valori ai quali un docente impaurito dovrebbe richiamarlo ed educarlo, come se fosse in un carcere minorile e tralasciando la preparazione scientifica in rapporto ai programmi. Non sono queste situazioni estreme o rare.
Chi denuncia quanto contenuto nelle presenti note non può essere tacciato di qualunquismo verso la classe politica e le istituzioni democratiche: rapida scorciatoia pericolosa. Il grillo abbaiante che denuncia da anni queste malefatte non ha conseguito alcun risultato come l’Aristofane delle Nuvole. Egli ne ha fatto un mestiere di vita con lo spettacolo. Qui si chiede di rimediare con proprio tuui i mezzi allo scandalo che non si può negare. Quando un parlamentare sorbisce un caffè quanto ci costa? E se un Figaro gli fa la barba presso i sacri scranni quanto ci costa? Migliaia di euro. Attenzione in Italia se ancora si vuole la democrazia, la maggior parte dei cittadini si sta arrendendo: sono tutti uguali, dicono.






LA MODERNIDAD DI CERVANTES


Riduciamo le enormi e non opportune spese della Presidenza della Repubblica, del Governo, del Parlamento, dei consigli regionali, provinciali, comunali, comunità montane. Di ogni Ente inutile grande e piccolo tenuto in piedi come mangiatoia di porci ( con rispetto a questi parlando), dimezzando la trofhéia per la trophè, ( lo stipendio per la pasciuta, per una vita normale e dignitosa) perché tutti i cittadini che ne pagano òe conseguenze si sono scollati dalla politica ed anche dalla validità della democrazia stessa così praticata: migliaia di politici e loro clienti affiliati di area grandi e piccoli percepiscono da migliaia a milioni di euro all’anno. Dimezziamo gli stipendi scandalosi, e controlliamo con rigore e leggi draconiane la qualità della spesa pubblica ed di colpo 50 miliardi di euro prenderebbero un circuito virtuoso per tutti, senza bisogno di manovre o aumentare il disastroso debito pubblico o tassare per regioni, province e comuni le miserabili pensioni. A chi lavora servono 40 anni per una pensione anche di fame, all’onorevole bastano due anni e mezzo per un vitalizio eccellente. Tanto spreco, ruberia di fatto che abbiamo avvallato per legge, è normale che faccia sentire cretino e sciocco il cittadino che tenta evadere le tasse a qualsiasi livello. Povero Cervantes, solo diventando Don Chisciotte chi si rende conto di tanto riesce a vivere, perché tu con queste idee di cavalleresca lealtà assoluta a Dulcinea-Giustizia uscisti di casa per combattere i malvagi e rientrando malconcio non ti sei rassegnato come noi Calabresi, a chi affidarsi più? – La modernidad del Quijote està en le espìritu rebelde, justiziero, que lleva al personagje a asumir como su responsabilidad personal cambiar el mundo para mejor, aun cuando, tratando de ponerla in pràtica, se equivoque, se estrelle contra obstàculos insalvables y sea golpeado, vejado y convertido en objecto de irrisiòn.-
Questo commento alla sua opera è tratto dalla introduzione critica della recente edizione ufficiale in occasione del IV centenario a cura della Reale Accademia Espagnola e diventa una brevissima nota opportuna alla città dove cercò di curarsi suggerendo queste dolenti e veritiere riflessioni sulla presunta sanità calabrese. Inoltre chi conosce il- Don Quijote de la Mancha- sa che in esso c’è l’elogio( laudem) di Dulcinea del Toboso in vita e morte e quello di Rocimante, caballo de don Quijote de la Mancha: per questo non poteva mancare in questi appunti il rimpianto della nostra Cecia.


MESSINA E LEPANTO

Tornando a Messina ha in comune con Lepanto, città della quale per brevità qui si fa solo un cenno, ma meriterebbe bene essere raccontata come gemella di Tropea.
La nostra città nacque calcidese col nome di Zancle ( falce, dalla forma del porto da un vulcano spento), nella seconda metà dell’VIII secolo, mentre con i Corinzi intorno ad Ortigia nasceva Siracusa dorica. All’inizio del V secolo gli schiavi iloti della Messenia soggetti all’aristocrazia militare chiusa di Sparta si ribellarono, furono in parte esiliati ed arrivarono in Occidente. In quel momento, all’inizio della guerra persiana, Reggio aveva sottomesso Messina e qui fece stabilire i profughi Messeni che da loro contrasse l’attuale nome. Il Peloponneso è, con un raggio di almeno 500 chilometri, zoma fortemente sismica e tutto nella storia dell’uomo si lega. Verso la metà del quinto secolo ci fu un’altra rivolta degli schiavi iloti messeni, in coincidenza di un terremoto che indebolì Sparta nella classe aristocratica, casta a numero chiuso e era dedita soltanto alla guerra e viveva solo del lavoro servile. Seguì la repressione degli schiavi che si trincerarono sul monte Itome, inespugnabile per gli Spartani abili solo nella guerra agonistica, ma inesperti di assedio ottennero l’aiuto di Cimone Ateniese che per tale intervento, peraltro fallito, fu ostracizzato e fu aperta la strada a Pericle che adottò la tecnica di passare sempre più competenze al demos, spogliando l’Areopago: tutto il potere passò alle nuove assemblee popolari. Questo rientrava nel programma di accesso ai diritti politici dei nullatenenti attici che però anche come rematori costituivano la forza di Atene nel programma di impero marittimo che porterà alla guerra del Peloponneso. Quasi tutte le forti colonie greche in Occidente erano doriche, emanazione quindi di città ostili ad Atene, in primo luogo sul mare Corinto, che doveva essere imbavagliata. Le navi di Corinto per arrivare in Occidente dovevano uscire nello Ionio attraverso lo stretto tra l’Acaia ed il promontorio a nord che protegge Naupatto.
A metà del V secolo gli Ateniesi sbarcarono nell’Etolia ed occuparono tale base navale nel territorio dei Locresi Ozolii, da qui potevano controllare e bloccare il traffico verso Corinto. Accanto a questa disponevano ancora di Page, porto di Megara in fondo al golfo della stessa Corinto e di Nisea altro porto della stessa Megara di fronte al Pireo. Subito dopo gli Spartani, non riuscendo a piegare gli iloti sul monte Itome, vennero a patti:lasciavano la fortezza in cambio della libertà, ed Atene fu lieta di accoglierli a Naupatto in funzione di democrazia antispartana e di sbarramento dello stretto contro Corinto.
TUTTE LE VACCHE SON NERE
Oggi se chiedi pesanti condanne per certi reati ti dicono che sei giustizialista, cioè criminale, e te lo dicono coloro che partecipano al banchetto del patrimonio pubblico, coloro che son capaci di gridare che la famiglia italiana è abbandonata, appena un giorno dopo lasciata l’alta carica di milioni di euro, che gli avrebbe consentito di adoperarsi per quello che lamentano. Responsabile è sempre quello che governa da un giorno.
Poi ognuno da la colpa al precedente del quale non revoca le concessioni feudali, anzi aggiunge le proprie. La pubblica amministrazione regionale è diventata come l’esercito argentino: ogni tre soldati un generale-dirigente: non hanno armi perché le risorse vanno in stipendi stratosferici per gli eletti( multi sunt vocati, sed pauci enim electi) ed ogni galoppino elettorale chiede di essere comandato alla regione: il suo stipendio si raddoppia o triplica magari a volta con meno prsenza e lavoro. Migliaia di inutili e nessuno risponde al telefono al cittadino che ha bisogno e dopo un viaggio di molti chilometri, spesso non trova l’addetto o la pratica sta girando senza sapere nelle mani di chi. Per avere nel Regno delle due Sicilie una sanità non affidabile che divora in Calabria il 70/100 del bilancio, procura voti ,potere, appalti guidati, milioni di materiale sanitario che scade nei cantinati, corruzione, costruisce carriere politiche e costringe i malati alla triste emigrazione sanitaria come per il lavoro. Non si tratta di pregiudizi, si affrontano gravi sacrifici dai Calabresi che devono anche pregare per accedere agli ospedali del Centro-Nord. Ironia delle conseguenze: la Regione deve con milioni di euro pagare altrove le degenze dei suoi cittadini e fermo restando il costo interno di ospedali inutili che si autoqualificano centri di eccellenza. Così si piange sulla disoccupazione giovanile e si creano posti di lavoro al nord, dove qualcuno ha perfettamente ragione ad accusarci di inefficienza e sperpero. La realtà è questa aldilà della inaugurazione continua di- centri di eccellenza-. I nostri bavosi cantori vedono ogni giorno segni di ripresa, cambiamento di rotta, speranza nei giovani, inversione di tendenza, colpo decisivo inferto al malaffare, recupero delle tradizioni e cultura, apparizioni di Cristo negli ulivi spaccati dal vento tornando all’animismo religioso, madonne che piangono, progetti rivolti al futuro, e tutto continua peggio di prima ed il cittadino ha paura ormai anche di parlare con le forze di polizia ed addirittura con un magistrato…per problemi che vanno tagliati a monte in sede politica preventiva e non a valle dove arrivano come il Vajont o la frana di Agrigento, simboli di una certa Italia a nord ed a sud in rapporto alla loro storia recente in materia di intrallazzo. Nel glorioso regno mutilato ogni giorno abbiamo notizia di un –colpo decisivo inferto - a qualche connubio o contubernio affaristico del quale i bavosi cantori solo allora ne apprendono l’esistenza: dov’è il quarto potere che deve con le sue inchieste e denunce prevenire quei connubi? Non può fare questo, ha famiglia: il suo pupo o la sua pupa non avrebbero assicurata l’eredità del posto. I Bisignano furono deposti dalla Spagna. Ma finitela di ingannare chi suda e lavora e sopravvive e vi passa il lauto stipendio, dovete essere al servizio della verità, non del politico di turno, perché ormai la politica è una notte durante la quale – tutte la vacche son nere-. .
Come mai uno di voi non ha fatto una inchiesta seria in una qualsiasi ASP( si dice così oggi, e cambiando il nome si propaganda novità fasulla), facendo sapere a tutti ogni capitolo di spesa, assenteismo, metodi di assunzione, relazione politica e parentale di tanti dipendenti, in un campo dove il solo criterio deve essere la competenza sempre migliorabile? Perché qualcuno di voi non va nei più rinomati ospedali del nord ad interrogare i nostri migliori medici che ci hanno abbandonati? O nelle corsia a domandare ai nostri degenti perché tanto sacrificio per andare a mille chilometri alla ricerca della salute e spesso salvezza estrema? Perché vi manca il coraggio di farlo ed esporre in pubblico le ragioni? O non volete denunciare un sistema al quale rischiate di essere assimilati?
Arrivando oltre il Tevere ed il Rubicone si incontrano medici esemplari, (nati nel glorioso regno o figli di emigrati recenti), per scienza ed umanità, gli stessi se fossero rimasti al sud avrebbero visto dinanzi a loro incapaci con carriera artificiale, con un occhio al malato ed uno al seggio elettorale per loro o per chi li ha sponsorizzati. Le due cose sono anche possibili, ma non come nel glorioso regno di Pulcinella. Nel dopoguerra la classe politica veniva dalla scuola e dall’avvocatura, poi cominciò ad essere prodotta dalla Sanità, segno che questa per il potere interno che crea in rapporto alla spesa, fa acquisire valenza politica ai suoi operatori che spesso mettono in seconda linea la professione che rimane momento sponsor, e si danno alla politica con la quale possono controllare la spesa e la carriera politica e professionale dei loro colleghi: la conseguenze sono a tutti note.
Don Chisciotte cui piange il cuore, prima che gli occhi, per questa devastazione che la Calabria subisce, come un’invasione di cavallette indigene, osa di umiliare a tutti gli eccellenti re e reguli e pirati podolici (casta feudale e mafiosa intatta ed intagibile da secoli) navarchi, catapani, intendenti, sottointendenti, una proposta di legge da far approvare all’unanimità dal consiglio regionale della Regione Calabria ( olim Esperia, olim Enotria , olim Ausonia,. olim Italia, olim Brtium, olim Magna Grascia, olim Calabria et nunc Magna Magna e quanto altro può aggiungere il bavoso cantore in vena di rivisitazione al ricco patrimonio storico- linguistico ed archeologico) : Il Consiglio Boulé Regionale preso atto della necessità di ridurre le spese sanitarie ed in attesa di ristrutturare nel corpo e nella mente dei suoi operatori tale fondamentale settore,

DELIBERA

DI CHIUDERE TUTTI GLI OSPEDALI DELLA MAGNA MAGNA GRAECIA ED IN CAMBIO METTERE A DISPOSIZIONE DEI SUOI CITTADINI VOLI E TRENI GIORNALIERI PER RECARSI OLTRE IL FULVO TEVERE ED IL VIOLATO RUBICONE: PER PAGARE LA RETTA AGLI OSPEDALI FUORI REGIONE CHE GIA’ RIFIUTANO DI ACCETTARE I CALABRESI,. IL RISPARMIO PREVISTO SULLA SPESA SANITARIA E’ DEL 90/100 E SARA’ IMPEGNATO NELL’ADEGUAMENTO FISICO E MORALE DEGLI OSPEDALI DELLA MAGNA MAGNA GRAECIA CHE SPERIAMO ALLORA DI POTER NOMINARE CON UN SOLO AGGETTIVO, ANZI IN GRECO: MEGALE HELLAS. NEL FRATTEMPO A TUTTI I DIPENDENTI, NESSUNO ESCLUSO, SARA’ PASSATA UNA TROPHE’ (PASCIUTA) DI CINQUECENTO EURO AL MESE COME AGLI ATENIESI NULLATENENTI DURANTE LA GUERRA DEL PELOPONNESO, PERCHE’ IN GUERRA SIAMO E GIA’ SCONFITTI DAL NOSTRO MAL GOVERNO PASSATO E PRESENTE.

Legge di un solo articolo e comma pubblicato sul BUR CALABRIA che con questo numero chiude le sue pubblicazioni a tempo indeterminato. DEO GRATIAS.


OGGI LEPANTO

Le recenti vicende sul piano militare ed ideologico nonché di costume a livello planetario fra Islam e Cristianesimo, stanno facendo rievocare Lepanto sulla stampa italiana con diverso tono in rapporto a chi scrive. Spesso si tratta come la presente di note che fanno riferimento al ruolo della propria città ed ognuna riporta fatti locali e prova anche un giudizio generale. Momento apicale di uno scontro di civiltà ancora in atto per alcuni ed ognuno esalta la partecipazione della sua città o staterello. Essa si vuole abbia segnato un alt allo strapotere turco in quel Mediterraneo che solo per ignoranza o malafede può dirsi crocevia di civiltà e di pace. Certo la vicinanza tra le sue sponde da sud a nord e la profonda penetrazione da Gibilterra alle foci del Nilo con l’appendice del Mar Nero, hanno favorito lo spostamento sulle sue acque da un popolo all’altro. Ma ogni sponda e per lunghi secoli dal mare ha visto arrivare solo aggressori sanguinari, non importa se per allargare il proprio Impero e rapinare e schiavizzare o se in nome di un qualche dio o di una superiore civiltà. Se potessero parlare tutti gli schiavi da oltre trenta secoli deportati sul Mediterraneo i loro lamenti coprirebbero il rumore di tutte le sue onde in tempesta. Mai stato via di pace, perché sempre dei vari Paesi che ne sono toccati qualcuno ha prevaricato con mano pesante gli altri scambiandosi il ruolo nei secoli, e le recriminazioni e scontri passati pesano oggi come se fossero in atto. Per la Calabria il mare fu per secoli fonte di paura e terrore. Poi in quanto a tolleranza religiosa è leggenda metropolitana quella della superiorità civiltà cattolica in fatto di tolleranza, avendo dianzi accennato alle guerre di religione in Europa. Quando l’Europa cacciava gli Ebrei, (succedeva anche a Tropea che tra le grazie chieste ai sovrani di turno ci fosse la cacciata degli Ebrei) trovavano rifugio nei paesi sotto controllo turco dove ognuno poteva avere la propria religione e scuola, pagando le dovute tasse. Niente di simile in Europa dove una persecuzione religiosa della Santa Inquisizione bruciò e torturò decine di migliaia di persone e non risulta che a quelle vittime innocenti sia stata resa se non giustizia, almeno pietà. Giordano Bruno in Roma ha il monumento solo perché in quel momento di fine Ottocento ci fu uno scontro tra clericali ed anticlericali, non in nome della libertà, ma come ultino sprazzo e spruzzo del Risorgimento che si spegneva nelle giaculatorie di Carducci da contestatore a paggio della regina d’Italia. ……………


L’ULTIMO ROGO A PALERMO



Palermo non è stato ricordata per caso. Nel viceregno di Sicilia fu introdotta la Santa Inquisizione per invigilare sulla fede, cioè per difenedere i privilegi mondani di nobili ed ecclesiastici attratti dai beni della Chiesa, presentati come sacri. Chi ad essi attentava si attirava la persecuzione divina ed era destinato alla rovina: roba di chiesa non portare in casa. Ulisse e Diomede avevano profanato un palladio divino a Troia. Questo non valeva però per i tanti dignitari ecclesiastici che divenuti commendatori di monasteri e conventi li spogliarono a proprio vantaggio di tutte le rendite a danno del popolo e del basso clero che spesso viveva in miseria. Così finirono i beni di Sant’Angelo sulla collina a sud di Tropea e del cenobio della chiesa sull’isola nel mare. La descrizione dell’ultimo rogo di eretici a Palermo è una visione terrificante e solo la scena finale della versione cinematografica de- Il nome della rosa- ne può dere un’idea. Il Santo criminale Uffizio lavorò alacremente ed in quasi tre secoli la sua fabbrica di tortura produsse in Sicilia quasi duemila bruciati sul rogo per – eresie- vere o presunte di vario tipo. La Santa Fabbrica, non quella di San Pietro che ancora esiste per la manutenzione edilizia del Vaticano, ma quella che anche con testimoni falsi e prezzolati doveva letteralmente inchiodare comunque gli innocenti. La pace di Utrecht e quella Rastadt conclusero la guerra Successione spagnola e mutarono il dominio spagnolo in Italia in quello austriaco, il tentativo postumo fallito di rivincita di Madrid permise all’Austria di prendersi la Sicilia dando in cambio ai Savoia la Sardegna pace dell’Aja 1720. Pietro Colletta, che al tempo del Murat fu per due anni preposto in Montelone al governo della Calabria Ulteriore, ora provincia con il nome di Vibo Valentia con limitata circoscrizione, riprende dal 1700 con la – Storia del Reame di Napoli – l’opera del Giannone, altro perseguitato dal connubio trono ed altare ed arrivando al momento storico accennato così prosegue (Cap. I., XI):- In dieci anni, dal 1720 al 1730, non avvennero in Napoli cose memorabili, fuorchè tremuoti, eruzioni volcaniche diluvi ed altre meteore distruggitrici. Ma nella vicina Sicilia, l’anno 1724, fatto atroce apportò tanto spaventi al Regno, che io credo mio debito di narrarlo a fine che resti saldo nella memoria di chi leggerà; e i Napoletani si confermino nell’odio giusto alla inquisizione; oggidì che per l’alleanza dell’imperio assoluto al sacerdozio, la superstizione, l’ipocrisia, la falsa venerazione dell’antichità spingono verso tempi e costumi aborriti, e vedesi quel tremendo Uffizio, chiamato Santo, risorgere in non pochi luoghi d’Italia, tacito ancora e discreto, ma per tornare, se fortuna lo aiuta, sanguinario e crudele quanto né tristi secoli di universale ignoranza. Andarono soggetti al Santo-Uffizio, l’anno 1699, fra Romualdo laico, Agostiniano, e suora Gertrude bizzica di san Benedetto: quegli per quietismo, molinismo, eresia; questa per orgoglio, vanità, temerità, ipocrisia. Ambo folli, però che il frate, con le molte sentenze contrarie a’ dogmi o alle pratiche del cristianesimo, diceva ricevere angeli messaggeri da Dio, parlare con essi, esser egli profeta, essere infallibile: e Gertrude tener commercio di spirito e corporale con Dio, essere pura e santa, aver inteso dalla vergine Maria non far peccato goder in oscenità col confessore; ed altri assai sconvolgimenti di ragione. I santi inquisitori ed i teologi del Santo Uffizio avevano disputato più volte con quei miseri, che ostinati, come mentecatti, ripetevano delirii ed ersesie. Chiusi nelle prigioni, la donna per 25 anni, il frate per 18, ( attesochè gli altri sette li passò per penitenza né conventi di san Domenico) tolleraronoi mmmrtrii più acerbi, la tortura, il flagello, il digiuno, la sete; e alla fine giunse il sospirato momento del supplicio. Avvegnachè gli inquisitori condannarono entrambi alla morte, per sentenze confermate dal vescovo di Albaracin, stanziato a Vienna, e dal grande inquisitore della Spagna; dopo di che il divoto imperatore Carlo VI comndò che quelle sentenze fossero eseguite con la pompa dell’Atto-di-Fede. Le quali sentenze amplificavano il santissimo tribunale, la dolcezza, la mansuetudine, la benignità dè i santi inquisitori: e incontro a sensi tanto umani e pietosi la malvagità, la irreligione, la ostinatezza dè due colpevoli. Poi dicevano la necessità di mantenere le discipline della santa cattolica religione, e spegnere lo scandalo, e vendicare lo sdegno de’ cristiani.
Il dì 6 aprile di quell’anno 1724, nella piazza di sant’Erasmo, la maggiore della città di Palermo, fu preparato il supplizio. Vedevi nel mezzo croce altissima di color bianco e da’ i lati due roghi chiusi, alto ciascuno dieci braccia, coperti da macchina di legno a forma di palco, alla quale ascendevasi per gradinata; un tronco sporgeva dal coperchio di ogni rogo: altari da luogo in luogo, e tribune riccamente ornate stavano disposte ad anfiteatro dirimpetto alla croce; e nel mezzo, edificio più alto, più vasto, ricchissimo di ornamenti per velluti, nastri dorati ed emlemi di religione. Qusto era per gl’inquisitori, le altre logge per il viceré, l’arcivescovo, il senato; e per i nobili, il clero, i magistrati, le dame della città: il terreno per il popolo. A’ primi albòri le campane suonavano a penitenza: poi mossero le processioni di frati, di preti, di confraternite; che, traversando le vie della città, fatto giro intorno alla croce, si schierarono all’assegnato luogo. Popolata la piazza fin dalla prima luce, riempivano le tribune genti che, a corpi o spicciolate, con abiti di gala, venivano al sacrificio: era pieno lo spettacolo; si attendevano le vittime.
Già scorso di due ore il mezzo del giorno, mense innumerevoli ed abbondanti cuoprirono le tribune, così che la scena preparata a mestizia mutò ad allegrezza. Frà i quai tripudii giunse prima la misera Gertrude, legata sopra carro, con vesti luride, chime sparse e gran berretto di carta che diceva il nome, scritto con dipinte fiamme d’inferno. Convoiavano il carro, tirato da bovi neri e preceduto da lunga processione di frati, molti principi e duchi sopra cavalli superbi; e dietro, cavalcati a mule bianche, seguivano i tre padri inquisitori. Giunto il corteggio e consegnata la donna ad altri padri domenicani e teologi per le ultime e finte pratiche di conversione, ricomparve corteggio simile al primo per il frate Romualdo: ed allora gli inquisitori sederono nella magnifica ordinata tribuna.
Compiute le formalità, bandito ad alta voce l’ostinato proponimento de’ colpevoli, lette le sentenze in latino, prima la donna salì sul palco, e due frati manigoldi la legarono al tronco, e diedero fuoco alle chiome, imbiotate innanzi di unguenti resinosi acciò le fiamme durassero vive intorno al capo: indi bruciarono le vesti, anch’esse intrise nel catrame, e partirono. La misera rimasta sola sul palco, mentre gemeva e le ardevano sotto i piedi le fiamme, cadde col coperchio del rogo; e scomparso il corpo, rimasero ai sensi degli spettatori i gemiti di lei; le fiamme , il fumo, che andavano ad oscurare l’alta croce di Cristo svergognata. Tra gli spettatori notatasi un drappello sordidi, mesto, di 26 prigioni del Santo-Uffizio, voluti presenti alla cerimonia: soli fra tutti che piangessero di quei casi, perciochè gli altri, sia viltà, o ignoranza, o religion falsa, o empia superstizione, applaudivano l’infame olocausto. Erano i tre inquisitori frati spagnoli: degli allegri assistenti non dirò i nomi, però che i nipoti, assai migliori degli avi, arrossirebbero; ma sono in altre carte registrati, che raramente le pubbliche virtù , più raramente i falli rimangono nascosti. Descrisse quell’atto in grosso volume Antonio Mongitore; e dal dire e dalle sentenze si palesò divoto e partigiano del Santo-Uffizio: egli, lodato per altre opere e soprattutto per la biblioteca siciliana, chiaro mostrò che la dolcezza delle lettere umane era stata vinta in lui vinta dagli errori del tempo, e dalla intolleranza del suo stato: era canonico della cattedrale.-
Non c’è bisogno di commento.
Solo in rapporto alla tribuna d’onore si ricorda che la possedevano su colonne di marmo alcuni teatri greci ed era riservata agli imperatori che erano anche pontefici massimi e poi dio vivente, non solo alle tragedie o commedie, anche alle stragi fra i poveri gladiatori che erano schiavi allevati per ammazzarsi dilettando il potere, come pure ridere quando i leoni sbranavano i martiri cristiani dileggiati che il loro Dio non interveniva per salvarli. Ora su quelle tribune sia pure improvvisate, in nome del papa sultano- califfo di Roma, siedono gli arcivescovi e l’apparato del santo criminale uffizio che in attesa dell’arrivo dei condannati si rifocillano tra motteggi magari con libagioni, condensando in tal modo il loro modo di applicare e distorcere la parola di Cristo contro se stessa. Napoli si oppose con la rivolta ai vari tentativi di Roma e Madrid di introdurre l’inquisizione, in Sicilia durò fino al 1782 quando fu smantellata dal vicerè borbonico Caracciolo. Senza un atto d’imperio del potere civile l’ avremmo ancora in funzione? Il tono ed il linguaggio di tanti nostri difensori che gridano- Giù le mani dalla nostra millenaria libertà e civiltà cristiana- non lascia dubbio. Essi chiudono gli occhi sugli orrendi crimini e stragi apportati quando la religio diventa supertitio come è avvenuto in ogni angolo della terra da sempre. Il ministro distrusse anche l’archivio cancellando così i nomi delle vittime e soprattutto dei delatori che prendevano di mira persone ricche per impossessarsi del patrimonio.

IL COLLETTA

Lo stesso Colletta ricorda ( cap. VI, XXVI) che il Caracciolo da viceré in Sicilia sbandì il Santo-Uffizio, ed applaudì al popolo palermitano, che, impedito a distruggere il palazzo della inquisizione, ruppe in pezzi e disperse la statua di san Domenico, bruciò gli archivi, ed atterrando le porte delle carceri condusse liberi e trionfanti gli infelici che vi stavano chiusi. Né i quali tumulti furono visti audacissimi ed implacabili i più anziani, canuti e curvi sotto il peso degli anni, ma che, ricordando l’atto di fede del 1724, raccontavano ai giovani, per più accenderli, le sventure di Gertrude e di frà Romualdo. San Domenico avrà certo gioito anche se domenicani e francescani si emulavano per zelo inquisitorio fino all’arrivo dei Gesuiti che divennero corpo religioso specializzato alla ricerca delle prove con questionari preconfezionati che erano l’applicazione della casistica alla tortura. . Il Santo Officio aveva poteri illimitati vitae ac necis sui cittadini che cadevano sotto il suo sospetto. Sul numero di – Repubblica – del 26 novembre 2006 si fa presente che la sua intelligence contava su venticinquemila agenti ed in rapporto al numero degli abitanti era per la Sicilia assai più capillare nello spionaggio e fabbrica di false accuse di eresia, che la CIA ed il KGB messi insieme. La sede del carcere e tribunale della macchina del terrore era palazzo Steri, oggi acquisito di diritto dall’Università di Palermo. In esso Leonardo Sciascia aveva ambientato l’opera sua- Morte dell’Inquisitore- ricostruendo senza documenti la storia di fra Diego La Matina di Racalmuto che processato per eresia fracassò il cranio al suo torturatore, l’-illustrimo signor don Iuan Lopez de Cisneros- . Ma le circostanze tecniche dell’accaduto non erano chiare perché di solito tali sventurati erano tenuti con mani e piedi legati. Quando l’università di Palermo avviò i lavori di restauro del palazzo che era stato adattato a quel triste compito, la eliminazione delle superfetazioni e delle incrostature rivelò un inferno di dolore e strazi. I detenuti avevano affidato a scritte e graffiti sulle mura la loro disperazione: volti sacri a cui si chiedeva invano aiuto, messaggi scritti e figure anche di diavoli nei quali evidentemente c’erano i loro torturatori per Cristo. – Fino a quando, sul primo grande muro della prima delle nove celle al pian terreno, vennero alla luce le prue delle galee della battaglia di Lepanto. e poi, tra le immagini di un vescovo e le vele spiegate della Lega Santa e i vessilli con la mezzaluna ottomana, si mostrò quella firma, quel nome: Francesco Mannarino.
Questi fu rapito in mare dai pirati barbareschi a fine Cinquecento e venduto al mercato degli schiavi a Biserta dove lo comprò un rais. Ma secondo il Corano convertendosi all’Islàm cambiava la sua posizione e così scelse la conversione che lo equiparò ad un fedele di Allah e fu aggregato come mozzo su una nave corsara, come era accaduto all’inizio dello stesso secolo ad Occhialì. Tale nave si imbattè in una tempasta presso Palermo a gennaio del 1609 e la ciurma incatenata ai remi, fatta da schiavi cristiani, si ammutinò riuscendo ad arrivare a Palermo dove gli schiavi divennero liberi. Ma Francesco faceva parte dell’equipaggio musulmano e dal porto su subito trasferito nelle celle sotterranee di palazzo Steri dove erano rinchiusi gli eretici, tali ritenuti tutti coloro che non erano a vario titolo allineati alla Spagna o a Santa Romana Chiesa. La tortura nelle varie versioni fino al deliquio e morte era prassi per la Santa Inquisizione. Ad essa non si sottrasse Francesco anche se non gli dovette essere difficile chiarire la sua avventura: si sottomise alla fede cristiana che già era stata sua e divenne libero il 27 marzo 1609. Durante le sue corse in mare da corsaro musulmano il Mannarino aveva sentito parlare della battaglia di Lepanto con valutazioni tecniche sul suo svolgimento e risultato. Queste notizie le abbiamo alla ricercatrice Maria Sofia Messana che incoraggiata da Leonardo Sciascia ha rovistato le carte di corrispondenza con Palermo presso l’Arichivio Historico Nacional a Madrid. Questo nella sezione dedicato al Consiglio della Suprema, il Tribunale Generale della Inquisizione, conserva tutti gli atti che i vari inquisitori dovevano mandare alla capitale spagnola. Qui ha trovato le informazioni relative al Mannarino, alla- Morte del Grande Inquisitore- Cisneros, (che anche Guttuso illustrò con abbastanza precisione in un suo dipinto) nel suo libro – Inquisitori Negromanti e Streghe- in edicola in questi giorni. Altri casi dolorosi si consumarono per difesa della Santa Fede cattolica in quel palazzo dove gli aguzzini inquisitori avevano – casa e putiga-. Essi abitavano con tutti gli agi ai piani superiori da dove dopo il riposo meritato al mattino scendevano a torturare nei sotterranei malsani ed infestati da topi e pidocchi, i poveri reclusi, la cui colpa era spesso di essere intellettuale scomodo o quella di avere un patrimonio su cui erano cadute le attenzioni di delatori ed inquisitori. Quando la condanna era definitiva con un lugubre corteo regolato dalla etichetta il condannato veniva portato sulla strada lungo la marina dove era pronto l’-autodafè-. E se questi furono aboliti si deve soltanto alla forza dell’Illuminismo e non certo ad un ravvedimento di Santa Romana Chiesa che ancora oggi condanna quel movimento di pensiero che sollevò la bardatura di ipocrisia e sofferenza imposta ai popoli secoli avvalendosi di un uso assurdo nella realtà effettiva della Rivelazione.
Si difendeva non l’ortodossia ma gli interessi economici di una dittatura sociale su base religiosa avviata dalla Spagna cattolicissima dopo il Concilio di Trento che fece della Chiesa una potenza torturatrice con vari Quantanamo sparsi in Europa. Le scene viste ne- Il nome della rosa- si ripeterono migliaia di volte per consolidare le radici cristiane dell’Europa con il fuoco che brucia i martiri per tenere sotto controllo ed a proprio vantaggio coscienze e cultura, mentre gli arnesi di tortura durante gli interrogatori in difesa della fede spappolarono il corpo e l’anima di centinaia di migliaia di persone comu s’arrifina lu ferru a la tinaghia.
Nelle scuole italiane questa lunga tragedia viene sfiorata o occultata e qualche buon cattolico considera calunnia ed accanimento storico parlarne, perché quelli erano i tempi.
L’Islam non conobbe queste aberrazioni di una religione impazzita che negava tutti i principi rivelati dal suo Profeta divino, anzi generato dal Dio Padre, ad esso consustanziale e seconda persona del Mistero della Trinità.
Oggi il magistero papale invoca e proclama la libertà religiosa come se fosse stata sempre la sua bandiera: non sappiamo se ha fatto più morti l’orrendo fuoco di quella pira o tutte le persecuzioni contro i cristiani dei primi quattro secoli, anche se non è questione di numeri. Questi ultimi sono dalla tradizione cattolica ricordati e beatificati, gli altri dimenticati, anzi c’è l’attenuante che quelli erano i tempi!!. I Torquemada vivono tra di noi anche se travestiti da tolleranti. Oggi Roma sembra proclamare la libertà religiosa facendo di necessità virtù, ma è un fatto positivo se ci sarà coerenza pratica e rassegnazione a perdere in Europa il monopolio petrino difeso per secoli nel modo che sappiamo, sia di fronte all’Islam che di fronte alle deviazioni dottrinali e gerarchiche interne. Andando verso le Serre centrali si incontrano prima i resti del monastero feudale di Soriano un tempo ricco e potente il cui priore de iure era anche titolare di tutti i relativi diritti abusati sui casali intorno. Poi dopo aver superato vari tornanti in salita lasciando la valle del Mesima, si arriva alla Certosa di Serra S. Bruno la cui grandezza si apprezza meglio dall’alto. Da queste parti quando si sente un giudizio stranamente positivo su una persona, chi non è d’accordo replica: Si lu veneri era ciotu, e lu sabatu sbertiu? Fra alcuni anni quando tra i cittadini italiani ed europei ci sarà una quota rilevante di mussulmani con tutto quello che comporta sul piano giuridico e del costume si vedrà se il rinsavimento del sabato è vero.
Ogni civiltà e religione prima di mettersi sul piedistallo a dar lezione di libertà esamini se stessa e si emendi per il passato ed il presente anziché accusare gli altri. Chi meglio e prima lo farà non con proclamazioni abusate ma nella concreta realtà effettuale guadagnerà consensi ed indulgenze. Se poi questa è utopia è anche buona perché soltanto da essa nei secoli e dopo secoli è spuntato un barlume di vera pietà e solidarietà di un uomo verso l’altro senza passare necessariamente attraverso le religioni.

IN LIGURIA

In un articolo del -.Giornale- del 29 marzo 2006 sulla Liguria si cerca di trovare nel passato un momento che ne rafforzi l’identità storica ai fini economici perché- la ricchezza culturale è anche ricchezza economica- ai fini turistici in questo caso. Certo, ma non rievocando il passato con insulti agli altri popoli e religioni. Lepanto per l’estensore è- uno dei momenti più gloriosi dell’antica Repubblica di Genova nella lotta contro i Turchi-. Questo nell’ottica generale lo può dire con orgoglio, se ammesso, Venezia che sola con il papa e per fini in apparenza diversi si batté contro i Turchi, tenendo i cannoni sempre pronti in mare contro la Spagna. Genova dopo un duello secolare con Venezia che ebbe l’orgoglio e patì la sofferenza di restare l’unico stato veramente indipendente italiano e solo per essa si possono fare quelle affermazioni. Il comportamento del genovese Doria a Lepanto fu truffaldino ed equivoco con il precedente di Andrea Doria 33 anni prima alla Prevesa. Qui non si tratta di polemica paesana, se il passato viene così usato si inquina con la menzogna e calunnia un presente già avvelenato e si lavora per la causa delle aggressioni militari e del terrorismo. Nell’Italia per quindici secoli frazionata in decine di staterelli e percorsa da tanti popoli che si stratificavano uno sull’altro scambiandosi il ruolo di padroni e servi, ancora oggi la storiografia regionale e locale riconosce in essi ed in ognuna delle piccole città, un glorioso passato al posto della servitù e violenza sopportata. Dobbiamo liberarci di tali bavosi cantori della storia regionale e locale. Bisogna ritenere normale la diversità soprattutto quella religiosa, comunque acquisita se praticata nel rispetto del diritto naturale anche in contrasto col diritto positivo. Creonte vieta la sepoltura di Polinice perché patricida o parricida, secondo una certa esegesi che riporta sempre al concetto di padre o patria che in questo caso era Tebe , invocando le sante leggi scritte positive. Antigone ben le conosce, ma afferma con il sacrificio della sua vita che peserà anche su Creonte ( nella tragedia greca nessuno esce indenne e questa è la base delle trilogie), che prima dei nomoi grafoi , leggi scritte, vengono i nomoi agrafoi, leggi non scritte naturali al di sopra anche degli dei e dei loro eventuali ministri in contrasto. Questi ultimi agrafoi gli danno il diritto di seppellire Polinice.


Il Pontefice Benedetto XVI ha tenuto una sua lectio magistralis all’università di Ratisbona in Baviera, sua terra natale. Alcune citazioni hanno innescato la reazione di alcune frange arabe che hanno manifestato con violenza, forse le più estremiste ma si tenga conto che nella storia pochi determinano il destino dei tanti se questi non contrastano. L’Avvenire, che riporta il pensiero della Chiesa, interviene con un editoriale del 16 settembre 2006 dal titolo-: La vera critica del Papa è all’Occidente-. Affermando in anticipo che le reazioni arabe fomentate dai media( Al- Jazeera) dimostrano che con –loro- non c’è possibilità di dialogo se per cercare una valvola di sfogo ai problemi politici ed economici, ricorrono all’alibi- dell’oppio dei popoli -. Intanto si può obiettare che quei problemi sono retaggio in buona parte degli Occidentali che ancora oggi per loro comodo mantengono nei loro paesi governi di fatto dittatoriali ed una elite che abusa di tutte le risorse alla faccia del Profera e con dispregio della Rivelazione a lui affidata. Si è già osservato che quei governi vanno per l’Occidente (che parola magica !) abbattuti se non ci permettono di fare del loro paese una colonia economica e culturale snaturando la loro identità in nome della coca-cola, della carta di credito e dei casinò. Poi l’articolo riporta le parole del Papa - ha ricordato un solo un versetto coranico, quello più citato dai musulmani in Occidente:- Nessuna costrizione nelle cose di fede-, per dire che lo spirito autentico del Corano è la libertà di coscienza. Ha aggiunto che, secondo gli esperti, esso risale al periodo in cui Maometto era senza potere e minacciato; affermazione in perfetta conformità con la tradizione musulmana, che classifica quella sura cone la prima proclamazione subito dopo la sua fuga dalla Mecca.- La fuga o Egira (Hijra = Migrazione) avvenne il 16 luglio 622. La reazione non è avvenuta per questa citazione con la quale Ratzinger fa presente la libertà di religione che il Corano prefigura. Dopo il Pontefice ricorda un appunto fatto da Manuele II Paleologo poi Imperatore ( Manuele I era stato un Comneno dalla seconda alla terza crociata) ad un ospite arabo - per il ricorso alla violenza nel convertire gli altri, dicendo:- la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima-. E’ questa frase di Manuele che aveva colpito il Papa in rapporto all’argomento che egli voleva trattare nel suo discorso. Tant’è che diventa il leit-motiv dell’intervento, lo ripete cinque volte:- Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio-. E’ partito da questo brano per poi approfondire il discorso: critica l’uso della violenza per scopi religiosi, come farebbe ogni intellettuale musulmano e responsabile.- Tale infatti pare si voglia definire dal nome l’editorialista. Si ricorda che Manuele II, cui si attribuiscono quelle parole, era figlio di Giovanni V che cercò contro i turchi aiuti e prestiti in Occidente, accettò l’unione di fede con Roma senza il consenso degli Ortodossi impegnandosi a dare in ostaggio proprio il piccolo Emanuele al Papa. Rimase prigioniero a Venezia non potendo pagare un prestito per sopravvivere e tornare in patria. Qui si creò un dualismo tra Giovanni V- Emanuele II e Andronico IV- Giovanni VII che si combatterono per anni per un simulacro di potere solo perché anche fra gli eredi turchi di Bayazid avveniva la stessa cosa: in entrambi i campi non era consolidata la dottrina che erede del potere imperiale fosse il primogenito, ma che lo stesso fosse patrimonio di famiglia ed allora si scatenava la lotta come avvenne tra i figli di Costantino il Grande. Manuele nella lotta tra i vari principi paleologhi per la corona imperiale di Bisanzio, emulò Giovanni VII figlio di Andronico IV. Fece il vassallo fedele del Sultano e col padre Giovanni V accompagnò con le sue truppe Murat I e poi il figlio Bayazid alla conquista delle ultime resistenze bizantine e cristiane in Asia Minore per essere dagli stessi favorito contro gli altri pretendenti della sua dinastia a diventare imperatore vassallo e tributario. Assistè al disastro di Nicopoli e si convinse che la fine di Bisanzio era arrivata per mano di quei padroni che aveva servito contro la sua fede perché lo facessero imperatore di paglia. A questo punto, come suo padre, intraprese un viaggio in Occidente mendicando aiuto per salvare per se un simulacro di impero, ma non ottenne niente, offrì al re di Francia Carlo VI i suoi diritti sul trono imperiale in cambio di una vita agiata in Francia con un castello e 25.000 fiorini all’anno. Egli era diventato co-imperatore per la deposizione e l’accecamento (che sarà parziale) di suo fratello Andronico IV che si era ribellato al padre. Per lo stesso reato il sultano eliminò il proprio figlio. Mentre Tamerlano distruggendo l’esercito turco e catturando lo stesso sultano presso Ancyra Romanorum il 28 luglio 1402, prolungò l’agonia indegna degli ultimi Paleologhi per cinquant’anni, per la lotta che seguì tra i figli del sultano. Nella eliminatoria tra i figli del caduto sultano, Manuele II Paleologo favorì Maometto I con il quale ci fu un periodo di tregua necessario ad entrambi. Al primo Maometto successe il figlio Murad II che l’8 giugno 1422 assediò la città che riuscì a salvarsi per le mura e sobillando i pretendenti turchi contro l’assediante. La ribellione di Mustafà, fratello di Murad II, rinviò ancora la caduta di Bisanzio di 30 anni quando sarà compiuta da suo figlio Maometto II. che pose fine nel 1453 alla esistenza nominale di Bisanzio. Manuele II morì come monaco Matteo nel 1425 e suo figlio Giovanni VIII fu il penultimo basileus costretto infine ad inneggiare alle vittoria di Murat II a Varna ( 10-11-1444) che, come ricordato, spezzò l’ultimo tentativo di crociata ungherese contro i Turchi. Anche lui seguendo l’esempio del nonno e del padre fece un inutle viaggio in Occidente chiedendo aiuto e facendo leva sull’unione delle chiese. Suo fratello Costantino a guardia della Morea aveva ricostruito l’Examilion sullo stretto e Murat lo demolì con l’artiglieria come aveva fatto con quello di suo padre.
Tornando all’editoriale dell’Avvenire tutti hanno il diritto di manifestare il pensiero ed agganciarlo alla storia i cui eventi non sono deterministici sebbene fondanti nel senso che non sappiamo mai come andranno a combinarsi nel determinare i fatti con la variabile della diversa valutazione, ognuno cerca la formula che più gli conviene. I princìpi invocati dal Pontefice sono sacrosanti. Resta il fatto che non solo della storia dell’Islam e dei suoi popoli, e della storia dell’Europa tutta, compresa Costantinopoli, se giudicata, come dev’essere, in base ai princìpi della ragione e della libertà in materia di fede, in cui ognuno pretende le radici dei propri valori, resta ben poco o niente pensando alle lotte cruente all’interno di ognuna in rapporto al messaggio divino delle sure del corano e dei versetti evangelici. Nello stesso periodo di Manuele II quale libertà religiosa ammetteva in Europa la chiesa? Nessuna. Determiniamo questi valori e controlliamo se hanno avuto anche parziale pratica applicazione o soltanto declamazioni che si autoesaltano. E’ un momento drammatico che l’Occidente non supererà con l’occupazione militare: cosa accadrà in Afganisthan ed Irak quando gli eserciti dovranno scappare come dal Vietnam? Quello che sta accadendo in Somalia.
L’Occidente non è in declino, usi la ragione e non creda di poter imporsi più con la politica delle cannoniere neanche di fronte al terrorismo che ci impedisce ogni giorno di entrare senza paura in un metrò. O rabbrividire di fronte alla follia talebana che prende a cannonate i templi di Budda, cosa avrebbero fatto costoro in Egitto di fronte alle piramidi ed ai geroglifici che contengono scene sacre e profane o con i templi salvati dalla diga del Nilo? L’Afganisthan, che prendeva a cannonate le statue di Budda, pare sia stata la base dell’horror dell’11 settembre e sono presenti anche le truppe britanniche contro i Talebani. Alcuni sudditi di S.M. però sanno che qui gli Inglesi si sostituirono ai Turchi e non si fece scrupolo la –civiltà anglosassne- di demolire i templi buddisti per usare i suoi mattoni di argilla cotti al sole come selciato per la ferrovia a vapore. In mancanza di carbone non c’erano foreste in quella zona come milioni di anni fa quando avevano ospitato enormi dinosauri. No problem, dicono gli Inglesi pragmatici: le tonnellate di ossa umane di antichi cimiteri mai violati sono ottimo combustibile per le locomotive. Tucidide ci
informa ( I,93,2) che subito dopo la seconda guerra coi Medi, sotto l’impulso del Temistocle di Salamina, Atene si cinse di mura che prolungò fino al Pireo-Falerio: per la fretta in tale opera muraria-militare si usarono pesanti lapidi funeraie scoperchiando le tombe degli avi che passarono in secondo piano per la sicurezza presunta della città e dei rifornimenti via mare con poderosa flotta. Ufficialmente contro un possibile ritorno degli eredi di Cambise, in effetti anche in vista dello scontro che inizierà cinquanta anni dopo con Sparta che sollecitata dagli alleati, volle fermare Atene prima che diventasse troppo potente: le mura non salvarono la città e Sparta le fece demolire(304) umiliando la capitale dell’Attica. La tragedia continuò con la fine di Sparta (371) ed il breve dominio tebano fino al 361 quando la Macedonia pose fine alla libertà greca che era in effetti millenaria pratica di massacro tra polis-stato in un pugno di terra.

TRAVI E PAGLIUZZE


Non si tratta della pagliuzza e della trave: ognuno ha conficcato, come Ulisse nel monocolo Polifemo, delle travi nella vita degli altri popoli e pretende di avergli portato la civiltà sottraendoli al cannibalismo dagli Europei praticato diversamente su più larga scala. Se non si parte da questa accettazione è inutile parlare di dialogo per la comprensione e la pace: ogni fatto negato risorge come i fiumi carsici lungo il percorso o direttamente nel mare: nella storia quello che accade non più si distrugge, come le scorie atomiche che ci possono uccidere a distanza di secoli, dopo averci dato l’energia elettrica.
Non sembrava così l’approccio tra le due fedi al tempo di Eraclio I Imperatore durante la predicazione di Maometto che gli avrebbe rivolto un invito ad accettare la sua fede e nonostante viventi entrambi ci furono i primi scontri: l’imperatore sopravvisse al Profeta ma il 20 agosto 636 presso il fiume Yarmuk affluente del Giordano, subì una disfatta definitiva per il destino di Siria e Palestina, al tempo del secondo califfo (rappresentante ed erede del Profeta) Omar che si aprì la strada per Damasco e Geusalemme. Ed a proposito del Giordano non dimentichiamo che dietro lo scontro in Palestina c’è il controllo delle risorse idriche che Israele sta sistematicamente sottraendo con la forza ai Palestinesi. Niente acqua, niente cibo significa costringerli ad andarsene per prendersi le terre sulle quali tornerà l’acqua per i nuovi coloni ebrei: la violenza si raffina. Dove sono i Profeti?





L’ incontro tra Abu’ Sufyan e l’imperatore Eraclio


La tradizione riferisce di un incontro tra l’imperatore Eraclio I e Abù Sufyan che aveva contrastato Maomentto durante l’Egira per poi arrendersi al ritorno del Profeta a Mecca nel 631. Il passo viene riportato in appendice 12 nella edizione in italiano del Corano del 2005 della Newton.

-Narrò Ibn Abbas che Eraclio aveva convocato un gruppo di Qurajsh, i quali erano mercanti a Damasco, nel periodo in cui l’inviato di Allah( pace e benedizione su di lui) temporeggiava con Abu Suifyan e con i Quraysh, pagani. Essi erano venuti da lui ad Illiya, ed Eraclio li aveva invitati ad una udienza. Ivi erano circondati dai notabili dei bizantini. Li chiamò, chiamò il suo interprete e disse:
-Quale di voi è il parente più prossimo di quell’uomo che afferma di essere profeta?-
Narrò Abu’ Sufyan:- Risposi: il parente più prossimo sono io-. Disse Eraclio:
- Avvicinatelo a me e fate avanzare alle sue spalle i suoi compagni, collocandoli alle sue spalle-.
Poi disse all’interprete:- Di’ loro che interrogheremo costui a proposito di quell’uomo e che se mentirà debbono smentirlo-.
- Giuro per Allah -raccontava Abù Sufyan- che se non fosse stato per la vergogna di essere colto in fallo, avrei mentito. La prima domanda su Muhammad fu: A quale tribù appartiene?-. –Appartiene alla nostra famiglia.-
- E prima di lui vi fu qualcuno che abbia tenuto questi discorsi?- -No.-
- lo seguono i nobili o gli umili?- -piuttosto gli umili.-
-Aumentano o diminuiscono?. – Piuttosto aumentano.-
- Qualcuno di voi dopo essere entrato nella sua religione lo ha mai abbandonato detestandolo?- -No.
- E’ ingannatore?. –No. Ma noi per un certo tempo non abbiamo saputo cosa facesse.-
- E non siete capaci di dirmi nulla oltre a questo? Siete forse venuti a conflitto con lui?- -Si.-
Come andò la vostra controversia?. – La guerra tra noi e lui ebbe le sue alternative: le ha prese da noi e le abbiamo prese da lui.-
- Che cosa vi comanda?- - Adorare unicamente Allah non associate nulla a Lui; abbandonate quel che adoravano i vostri padri. E ci ordina la preghiera rituale, la sincerità la castità e la solidarietà familiare.-
Disse Eraclio all’interprete:- Digli: Ti ho interrogato sulla sua tribù e mi hai detto che appartiene alla vostra famiglia: appunto così gli inviati vengono mandati ai discendenti della loro gente. Ti ho domandato se qualcuno di voi ha già tenuto il medesimo discorso e hai detto di no. Allora ho pensato: se qualcuno avesse tenuto questo discorso prima di lui, direi che imita un discorso pronunciato prima di lui.
Ti ho domandato se vi stato tra i suoi avi un re, ed hai detto di no. Io ho pensato: se vi fosse stato tra i suoi avi un re, costui potrebbe essere uno che rivendica il regno di suo padre.
Ti ho domandato se l’avevato sospettato di mendacio, prima che dicesse quel che ha detto, e avete risposto di no. Così ho saputo che egli non è capace di diffondere il falso fra gli uomini e mentire contro Dio.
Ti ho domandato se lo seguono i nobili o gli umili, e hai detto gli umili lo seguono: sono questi appunto i seguaci degli Inviati.
Ti ho domandato se aumentano o diminuiscono e mi hai detto che aumentano; così avviene nella fede: aumenta fino a diventare completa.
Ti ho domandato se qualcuno respinge la sua religione, detestandola, dopo esservi entrato, ed hai detto di no; tale è la fede quando la sua letizia si fonde con i cuori.
Ti ho domandato se inganna, hai detto di no; tali sono gli Inviati che non ingannano.
Ti ho domandato che cosa vi comanda, e hai detto di adorare Allah e di non associarlo a nessuna cosa, e che vi ha vietato di adorare gli idoli e vi ha comandato la preghiera rituale, la sincerità e la castità. Se quel che dici è vero, egli prenderà il possesso del luogo dove io poso i piedi. Sapevo che era venuto, ma non supponevo che fosse uno di voi; se sentissi di essergli devoto, mi deciderei ad andargli incontro e giunto davanti a lui sicuramente gli laverei i piedi.-
Poi Eraclio fece recare la lettera dell’Inviato di Allah, mandata per mezzo di Dihyah figlio di Halifa al sovrano di Bosra, il quale l’aveva consegnata ad Eraclio, che la lesse. Eccone il testo:
- In nome di Allah il Compassionevole, il Misericordioso, da Muhammad, servo di Allah e suo Inviato, a Eraclio, sovrano dei bizantini: pace sia su chi segue la retta via-. E in seguito:- Io ti chiamo con l’appello dell’Islam, mettiti al sicuro. Allah ti darà il tuo compenso due volte: Se invece ti astieni sarà su di te la colpa degli Yrias.
O Gente del Libro, venite ad una parola uguale fra voi e noi: che non adoreremo altro dio, che non assoceremo niente a Lui, che non diventeremo padroni gli uni degli altri all’infuori di Allah. Se accettate, dite allora: Testimoniate che noi siamo musulmani-. Continuò Abu Sufyan: E quando Eraclio, detto questo, terminò di leggere la lettera, si levò intorno a lui un gran tumulto di voci e noi fummo messi alla porta. Io allora dissi ai miei compagni: -E’ aumentata l’importanza di Abù Kabsa, certo il re dei bizantini ha paura di lui.-
E continuai ad essere convinto che ciò si sarebbe manifestato, finchè Allah fece penetrare in me l’Islam-.






A TROPEA


F. Toraldo nell’operetta – I calabresi a Lepanto- riferisce che il suo antenato Gaspare Toraldo fu il primo a piantare una bandiera cristiana di S. Marco su una nave turca che insidiava la Capitana Reale – rimanendovi ferito d’una piccata di fuoco nel braccio destro: del qual fatto poi vinta quella galea, fu dal Pasqualigo in presenza di molti altri nobili Veneziani pubblicamente lodato-. Lo stesso vuole che il suo antenato abbia addirittura sconfitto Occhialì e riferisce che l’altro tropeano Giovan Tommaso di Francia per il valore dimostrato nello scontro abbia ricevuto il 30 ottobre 1572 un solenne elogio scritto. Il Toraldo ancora nel 1572 affrontò i pirati nella marina di Monasterace infliggendo loro gravi perdite: anche qui si parla di trenta pirati uccisi mentre facevano l’acquata.
( Erano ancora le chiare, fresche e dolci acque calabresi, potabili e spesso navigabili alla foce, quelle stesse che oggi sono maleodoranti pur avendo sul loro corso impianti che hanno depurato milioni di euro, ma non le acque reflue. Ma su questo i bavosi cantori non indagano, essi soltanto riferiscono, per non distruggere l’economia turistica calabrese, come si nega in certi films la presenza dello squalo fino a quando non assale i bagnanti). In seguito prestò servizio militare per la Spagna secondo l’uso dell’epoca e fu chiamato a reprimere con le armi e la diplomazia la rivolta napoletana al tempo dello Starace nel 1585, lontano preludio delle bizzarrie di Masaniello aggirato dagli Spagnoli nel 1647. Il nostro eroe aveva sposato Amelia Sanseverina madre dei figli Vincenzo, Francesco e Geronimo. In una lite giudiziaria forse per debiti contratti per Lepanto perse il feudo di Badolato a favore di Pietro Borgia principe di Squillace erede di Goffredo Borgia, figlio ( presentato ai Calabresi come nipote) di papa Alessandro VI, e della vezzosa Sancia figlia naturale di Alfonso II re di Napoli, matrimonio politico combinato nel 1494, mentre Carlo VIII francese si preparava a venire a prendersi Napoli. Tanto viene ricordato perché un suo nipote Francesco Toraldo principe di Massa, figlio di Vincenzo, non ebbe la stessa fortuna nel 1647 al tempo di Masaniello. Dopo la morte violenta del capopopolo drogato dal potere che gli Spagnoli fingevano di accordargli, il 16 luglio 1647, il popolo per difendersi dalla Spagna e dai feudatari elesse a capo il patrizio nipote di Gaspare Toraldo di Lepanto e mentre la flotta francese si aggirava nel Tirreno.la Spagna mandò un’altra flotta comandata proprio da un altro Don Giovanni d’Austria contro il quale il novello Toraldo avrebbe dovuto difendere Napoli. Ma titubante non arrivò a tanto, il popolo intese quello che di fatto fu per lui un tradimento, lo trucidò preparandosi a resistere invano al nuovo Don Giovanni d’Austria la cui vittoria fu seguita da sanguinose rappresaglie nel 1648.


Di Gaspare Toraldo fu detto- fra i soldati è soldato, fra i poeti è poeta, fra i filosofi è filosofo, fra i signori è signore e tratta ogni cosa con molta destrezza e molta sottilità d’ingegno-. Ricordato in molte opere particolari e generali, egli stesso dedicò a Ferrante Caracciolo conte di Bari i – Discorsi cavallereschi-, Napoli, H. Salvioli, 1573, nei quali interviene anche Bernardino Rota cui fu affidato il castello di Tropea, e sepolto in S. Domenico Maggiore a Napoli. Di tale opera pare ne esista una sola copia originale presso la Biblioteca Mazionale di Napoli, ma avendola a noi favorita in copia la cortesia di un amico, qui si riproduce in parte per salvarla forse dalla estinzione ed anche per far notare dal vero quale fosse a quei tempi la scala dei valori di un piccolo nobile di provincia che come tutti gli altri aveva fatto della fedeltà assoluta alla Spagna il credo personale da rispettare più di quello di Nicea, ed anche per rendersi conto della cultura di quella classe sociale anche se nel Toraldo supera certo la media posseduta da tanti altri. I Discorsi del nostro vogliono illustrare le qualità fisiche per le armi e le qualità d’animo per la società che deve possedere il perfetto
(compìto) cavaliere e sono del 1573, concepiti ed ideati prima di Lepanto per essere stampati in quell’anno. Nel 1528 baldassarre Castiglione aveva pubblicato –Il Cortegiano – delineando con ben più alta cultura umanista la figura di un cavaliere non come uomo d’arme ma organizzatore della vita culturale ed artistica della corte di un principe da servire anche come diplomatico. Se fosse vero che alla sua morte Carlo V lo definì – uno dei migliori cavalieri del mondo-, pure si dice del nostro autore che abbia ricevuto da suo figlio don Giovanni addirittura un elogio sulla scena aperta della battaglia in corso a Lepanto. Si prende l’occasione per proporre la raccolta a Tropea di tutte le opere prodotte dai Tropeani nei secoli quali che siano, sicuri che alcune rare o date per scomparse si trovano magari abbandonate ed ignorate in città. E’ inutile parlare di tali opere se non vengono fatte conoscere attraverso il loro reperimento e possibilità di conoscenza per tutti e per una ricaduta d’immagine che solleciti vari segmenti di quelli che una volta venivano chiamati viaggiatori ed oggi turisti con diversificati interessi.






DISCORSI

CAVALLERESCHI

DELL’ILLUSTRE SIGNORE

DON GASPARE TORALTO

IN UN DIALOGO

COMPRESI.

Nei quali copiosamente si ragiona di tutti quegli essercizij
così del corpo, come dell’animo, che necessariamente
à compito Cavaliere si ricercano, e lo fanno
riguardevole, e chiaro.

Dati in luce secondo il verO esemplare dell’
Autore per opera di Decio Lacheo,
e dedicati
MO. OR.
ALL’ILL. S. FERRANTE CARAC-
CIOLO, CONTE DI BICCARI.

CON DUE TAVOLE UNA DE’ DISCORSI, E
L’ALTRA DELLE COSE PIU’ NOTABILI.

IN NAPOLI
Appresso Horatio Salviani.1573.
Sul frontespizio della copia a noi favorita si trova il timbro della –
BIBLIOTECA VITTORIO EMANUELE IN ROMA, con l’arme della stessa.







ALL’ILLUSTRISSIMO

SIGNOR FERRANTE

CARACCIOLO, CONTE

DI BICCARI.


Felicissima veramente, per comune opinione di tutti, è giudicata che sia la conditione, e la sorte degli scrittori, Illustris. Sig. né senza chiare, e vive ragioni, come io le stimo: delle quali, à buono effetto, per ora lascio di spiegarne pur’una. Hor quella felicità, se ben ella è à tutti comune, riputo nondimeno à coloro doversi principalmente attribuire; i quali, già sequestrati dall’altre cose del mondo, si compiacciono di modo negli studi dello scrivere, che non solo fanno bellissima riuscita nello esprimer perfettamente i lor concetti; ma vengono finalmente con le lor penne, senza che pur vi s’interponga pennello, à far della invisibil forma degli animi loro, vivi ritratti. O rara, e non mai con debiti modi lodata pittura di dotta, e regolata penna: pittura, che senza adoperar varietà di corporei colori, non solo colorisci, e fai vive ed eterne le cose, per fragili e languide
ch’elle
ch’elle sieno, le quali per oggetto ti si rappresentano; ma ritrai nel proprio essere l’idea dell’animo di coloro, che in te collocano l’industria loro. Ma quella fortuna di Scrittori per grande che sia, non è però, che spesso non divenga ella per diversi aspetti minore, anzi alle volte passi in contraria sorte. Una immagine uscita da pennello, se ben da macchia accidentale risulta difforme, o da malvagia mano divien corrotta; può nondimeno, o con somma diligenza purgandosi ridursi all’esser di prima, o pure con l’industria dello stesso artefice, o d’altri di nuovo in lineamenti distinguersi, adombrasi di nuovo, di nuovo spiegarsi in colori, fin che le si restituisca la prima bellezza, o le si renda maggiore: cosa che nelle imagini scritte, non so, come possa farsi; che se per mala avventura sortisce, che la fatica d’un bello ingegno s’abbia nelle mani d’alcuno ignorante, viene ella a profanarsi tosto, ad alterarsi in breve, e con non molto spazio di tempo a trasformarsi, che, quasi nuovo Atteone, né da altri, né dal proprio autore, sarà possibile, che sia riconosciuta per sua fattura. Et questo, credo, che di quanti insino qui hanno dispensato i loro studi nello scrivere, pochi siano, che con vero possano affermare nò averlo, chi più, e chi meno per esperienza provato: come ( per non dirne altro) ne fanno fede le vigilie, che per questo effetto hanno con gradissimo stéto fatte, e ancor Hoggidì fanno i Dolci, i Ruscelli, i Vittorii, i Manutii, e infiniti altri dotti dell’età nostra. Pure questa disavventura, se bene è ( come ho detto) quasi a tutti comune; riputo nondimeno, che l’habbia più, che qual’altro si sia, sentita il Sig. Dò Gaspare Toraldo, in quel dialogo specialmente, ch’egli, sono già alcuni anni, srisse degli essercizii Cavallereschi. Però che questi discorsi ( che così ha voluto nomarli) essendo inavvedutaméte venuti in mano d’un galant’huomo, furono da quello, fuor d’ogni sua intenzione, dati alle stampe, tutti laceri, e e macchiati di mille imperfettioni: di modo che comparvero al mondo, può giudicarsi con che dispiacer dell’autore, tutti contraffatti, cosicché? havean totalmente dal lor principio degenerato. Tale è la mercè, tali sono i frutti, che per lunghe lor fatiche vengono finalmente a còseguire gli scrittori; che, dove sperano farsi celebri appresso i posteri, e locare il loro nome nel seno dell’eternità, si trovano al fine del tutto lontani della lor pretendenza, pieni di confusione, in preda delle tenebre, e dell’oblio. E se non fosse stato, ( per seguire il nostro proposito) che quel Sig. sìè trovato, per buona sorte, haverne copia in poter suo, non so, come né esso, ne altri avesse mai potuto rimediare, che non fosse-


ro per sempre giti così trasfigurati per le mani degli uomini. Hor’io mosso prima da giusto zelo, che dell’honore d’un tale Cavaliero per vero obligato debbo havere; appresso da desiderio, che ho di far cosa grata, e giovevole al mondo; conoscendo quanto gran pregiudicio verrebbe a seguirne, se questa opera restasse priva della sua vera bellezza, mo sono à viva forza faticato d’havere in mano quelli discorsi, secondo l’autore istesso lim haveva spiegati, à fine di darli poi fuori nella loro vera integrità, acciò che venissero a seguirne in un tempo due buoni effetti, che gli scritti di questi Sig. non andassero così in volta con tante sconciature, e che il mondo avesse finalmente da vedere, e fruire questa Heroica còmpositione nella sua pura integrità. Honde avutili finalmente, volendo darsi alle stampe, mi son ricordato, ch’essi non debbono, salvo che sotto il nome di V.S. uscir fuori; prima, perché son certo, che il Signor Don Gaspare, come che è da questa vana ambitione del mondo totalmente lontano, se bene havrà a male, che le cose sue si mandini in publico, lo riceverà a grandissimo contento, vedendo, che sieno sieno còparute co’il nome di V.S. nella fronte: tale stima ha egli sempre fatto, e fa di V. S. delle virtù sue; appresso, parchè avendoli per opera mia da godere il mondo, mi farebbe senza dubbio à gran mà-


camento dato, se nella fronte d’altro esgno portassero impressione, che dei caratteri di V. S. essendo tale, e tanto l’obligo della servitù, che le debbo. Per tutti rispetti adungue li dedico à V.S. non come pensiero già, che dalla lettione loro debba ella trane frutto, o giovamento alcuno; sapendo io molto bene, anzi essendo chiaro a tutti, quanto V. S. sia compitamente ornata, e intendètissima di tutte queste scientie, e professioni, che quivi si trattano; ma gliele mando solo à fine, che leggendoli habbia da vedere in essi, come in uno specchio, la chiarezza delle sue proprie virtù, che vi si trovano sparse, benché in picciola parte, per entro; e gli effetti mirabili, ch’elle con lo splendor loro cagionano ne gli animi di tutti, e segnatamente nel mio a doverla osservare, e reverire. V. S. li riceva con grto animo, così per rispetto dell’autore, il quale lo vuol tanto, quanto io particolarmente posso far fede; come ancora per aggradir la servitù mia, e l’affetto grande che le ho: il quale, sensatamente conosco, tanto sia di prontezza, sia di forza farmisi ogni dì maggiore: quanto che maggior cumulo di gratie dal suo liberalissimo animo di continuo mi si accresce. Pertanto le bacio con ogni reverenza le mani. Di Nap. Il di x. Di Agosto M.D. LXXIII. D.V.S. Illustrissima. Servitore affettionatissimo Decio Lacheo.
TAVOLA DELLE COSE PIU NO-
TABILI TRATTATE NEL PRESEN-
TE DIALOGO DE’ DISCORSI CAVAL-
lereschi, avvertendo, che a mostra la prima
faccia, b la seconda.

A

ABBATTIMENTO del Signor fabricio Brancazzo
co’il Perregna. 32.b.
Abuso delle virtù quando si commetta. 55.a.
Abusi d’Amore quando si commettano. 56.a.
Abusi dell’Amor comune. 51.a.
Agostino di Sessa di che opinione sia intorno la via Lattea.
Car. 23.a. 29.b.
Alcibiade, con i suoi difetti nell’Amicitie. 7.a.
Alterazioni che si recevono da i cieli 32.a.
Amante che possa dirsi. 4.a. A che fine ami. Ivi. Come è più
Nobile dell’amato. 4.b. Quando debba esser celato. 56.b.
Amante accorto qual sia, 48.b. come si faccia grato al-
la sua Dòna. 51.a. che mezzi debba egli usare 56.b.Amà-
te inconsiderato. 57.b. Amante, o Amico in che differi
scano.3.b. Amante di amore umano come dee trattare
il suo amore. 51.a.
Amato meno nobile dell’Amante. 4.b.
Amare.Uno non può più persone amare. 5.b.
Amicizia, e musica come sieno somiglianti. 3.b.Conveni-
enza tra esse. 7.b.
Amicizia come si dica nodo. 3.b.
Amicizia, e Amore come differiscano. 3.b.
Amicizia più nobile d’Amore, e perché. 4.a.
Amicizia tra quanti possa essere. 3.b. honde habbia il suo prin
Cipio 4.a. e 5.a. il suo nome come non possa esser pro-
Fanato.ivi. A che fini si debba usare,ivi. Come sia sen-
za imperfettioni. ivi. E solamente nei buoni, 4.b. Deve
A anteporsi











Anteporsi à tutte le cose humane.ivi.. Di che modo leghi
gli animi umani.. ivi. Come vada crescendo.ivi. diverse
diffinittioni sue. 6.a.
Amicizia finta qual sia. 4.b. Perché sia poco durabile.ivi.
Quale sia il suo oggetto.ivi.
Amicitia vile qual si debba dire. 5.a.
Amicizia vera, e suo oggetto. 4.b.
Amicitia tra diseguali non si ritrovi. 5.a.
Amicitia e sue varie specie. Ivi.
Amicitia da Platone detta civile, e sue specie.ivi.
Amicitia tra cittadini. Ivi.
Amicitia come s’appartenga al principe.ivi.
Amicitia perfetta come tra pochi si trovi. 5.b.
Amicitia sociale e suoi effetti. Ivi.
Amicitia vera qual debba dirsi.ivi. frutti suoi.6.a. eccel-
lenza sua. ivi.
Amicitia spirito vitale dell’huomo. 6.a.
Amicitia come sia giovevole sopra l’altre cose. 6.b.
benefici grandi ch’ella apporta.ivi.
Amicitia da Empedocle celebrata per un de’ principi delle
cose. 6.b.
Amicitia tra i corpi che compongono la macchina del mòdo. 6.b.
Amicitia tra Nobili da che resta molte volte offesa. 7.a. Co
Me difficilmente si conservi. ivi. Come possa confermarsi. Ivi.
Amicitia che veleni habbia. 7.a. Radice sua.ivi. Peccati
grandi da fuggirsi in essa. Ivi. Due leggi da serbrsi in es-
sa. 7.b. Quando in odio si converta. ivi.
Amicitia conformità di più animi. 7.b. uccisa dalla discor-
dia.ivi. Ha il fondamento nella virtù.ivi. obblighi dell-
amicitia. 3.a.
Amico, e Amante in che sieno differenti. 3.b.
Amico che non possa dirsi. 4.a.
Amore che cosa sia. 6.a.
Amore, e Amicitia come differiscano. 3.b.
Amore men nobile dell’Amicitia. 4.a.
Amore onde habbia il suo principio. 4.a.il suo nome come
Possa





















Esser profanato. Ivi. Il suo stato come da varij suc-
cessi sia perturbato. 12.a.
Amore atto a profanarsi dalla gioventù, 45.a. Vecchi tem-
Perati in esso.ivi. principio, e fine suo,ivi. Il suo fine chi
Sia meritevole di goderlo.ivi.
Amore in più modi diffinito. 45 b. et 46.a.
Amore è moto volontario. 46.a.
Amore è voce equivoca.ivi.tre specie sue. 47.
Amore legato con virtù che effetti faccia. 57.b. legame d’
Amore che può fare allo sdegno resistenza. 57.a.
Amore nobile sempre lecito. 50.a.
Amor seguito da tutti scrittori qual sia stato. 50.b. 51.a.
Amor commune, et abusi suoi. 51.a.
Amor perfetto, e sua diffinitione. 47.b.
Amor perfetto del Tetrarca. 49.b.
Amor del Petrarca di che modo fosse stato.48.e 49.
Amor che mezzi habbia. 51.b. come i mezzi nell’Amore sie-
no incerti.ivi. quando sieno giovevoli. 52.a. Quali sieno
i mezzi del vero Amore Cavalleresco. 52.a.
Amore accompagnato con virtù fa mirabili effetti. 54.a.
Amore qual fine habbia. 55.a. effetti suoi. 55.b.
Amor di virtù come con virtù si trovi.56.a. Gradi da osser-
Varsi nello amore 56.b. Abusi d’Amore quando si com-
Mettano. 56.a. Casi d’Amore difficili.ivi.
Amor Cavalleresco. 55.b.Quanto si debba adoperar in es-
so. ivi. Come agevolmente s’entri nello stato d’Amore.ivi.
Amore esercitato dal Tetrarca, 50.b. effetti di diversi a-
mori nel Tetrarca.50.a. gradi d’Amore provati dal Tetrarca.
Amore, ed effetti suoi in generale, ed in particolare. 59.a.
Amore humano.47.a. qual sia, et suoi effetti.47.b.A-
more humano nominato dal Tetrarca.49.a. come in esso
dimorò a lungo il Tetrarca 50.b. Alle volte è ca-
gione ai giovani di belle riuscite. 51.a.
Amor divino.46. effetti suoi. Ivi. Anche 48.b. Come ci com-
parte la beatitudine 46.fine, e oggetto suo.46. come
A 1 difficilmente













TAVOLA


Difficilmente sia seguito dagli uomini.46. Ove sia noma-
to dal Tetrarca. 49.a.
Amor ferino onde sia detto; perché sia biasimevole.46. a.
Suoi effetti.ivi. e 48.b. Come ci porta vergo-
gna. 47.a.Nomato dal Tetrarca. 49.a.
Amor profano qual sia, e suoi effetti.47.b. Ove habbia
la sua stanza. 48.a.
Anassagora che disse della via Lattea. 27.b. 28.a.
Apparir dell’Aurora sesta parte della notte. 14.a.
Apostrofi giovevoli al numero. 17.b.
Armeggiare perché si debba fare. 33.b. Professione pro-
pria del Cavaliero. 35.a.
Armonia qual debba dirsi. 3.b. Come diviene discorso-
nanza. 7.
Artificio che aiuta la natura, imparato dalla stessa natura. 40.a.
Aspetti della Luna come tanto s’osservino da noi. 22.a.
Avventurieri nel giocar di picca come debbono compro-
tarsi. 39.b.
Avvertimenti usati dagli armeggianti. 32.b.
Avvertimenti che debbono havere i Musici nelle loro com-
posizioni. 10. e 11.
Avvertimenti nel correr delle lancie. 33.b.e oltre.
Avvertenze che dee havere il Musico intorno alle parole.
10.b.18.b.


B.


Ballare non è propria professione di Cava-
Liero. 35.a. Come debba essere usato. Ivi.
Baron della Talata, Don Inniguo Izaguir. 38. lo-
Dato per Cavalier di valore. ivi.
Batter dello stocco come debba farsi.42.b. differenze che
in esso si ponno usare. 43.a.
Batter la barra perché paia brutta cosa. 43.a.
Bellezza che cosa sia. 8.a.b. e 17.a. e 47.a.
Beneficij grandi che apporta l’Amicitia. 6.b.
Berardino












TAVOLA


Berardino Rota detto novello Orfeo. 3.a.
Bestemmie donnesche deono esser temute. 59.b.
Braccio della lancia come debba portarsi. 35.a.b.
Braccio della briglia nel correr della lancia come debba te-
nersi. 36.b.37.a.
Braccia nel giocar di picca come debbano tenersi. 41.a.
Buoni nell’uso nostro quali debbiamo intendere. 4.b.
Buoni solamente possono essere veri amici. 4.b.



C

Carico quando si scusa, e come. 23.b.
Carico di moglie, e di figli quanto sia grave. 23.b.
Casi d’Amore difficili. 56.a.
D. Cassandra Izaguir, sorella del Signor barone della Pa-
lata lodata. 38.a.
S. Caterina madre del Signor barone della Pa-
lata, lodata per complitissima Signora. 38.a
Cavaliero nei giuochi come si mostrerà essere habile,e
Accorto.39.b. In che consista la sua bellezza, quando
egli armeggia 40.a. Nei giuochi come ottenga l’attitu-
dine.ivi. come ha da tenere il corpo, e le mani nel gio-
car di picca.41.b. Come debba giocar di stocco, e che
qualità debba aver intorno a ciò. 42.b. e oltre. Es-
sendo egli innamorato, i suoi veri mezzi sieno virtù, e
valore. 53.b. le scienze quanto li giovino.ivi. Non dee
havere il ballare per propria professione, e come debba usarlo. 35.a.
Cavalleresco Amore. 55.b. suoi mezi. 52.a.
Cavalli come debbano essere avezzati à ricever la furia. 36.
a. quei, che sono avezzi alla lancia, come deono esser
trattati con lo sprone.ivi.
Celesti corpi di che natura sieno. 27.a.
Cielo


















TAVOLA

Cielo in continuo moto. 11.a. come si dica tacere. Ivi.
Cielo, e terra come segnifichino l’universo. 11.b.
Cieli qual sorte d’alterazione possano ricevere. 32.a.per-
chè non lor convengano straniere impressioni. 27.a.
Civile Amicitia. 3.a.
Cometa perché faccia diversità d’affetti. 30.b.
Composizioni musicali, e avvertimenti che in esse deb-
bono aversi 10.a. e oltre.
Consonanti dure, e aspre perche s’usino. 18.b.
Consonanze nella composizione musicale. 18.a.
Conticinio qual sia. 14.a.
Corpo nel correr delle lancie come s’hà da portare. 34.a.
come s’ha da tener dal Cavaliero nel giocar di picca. 41.a.
Crepuscolo parte della notte qual sia, e onde sia detto. 13.b.


D

Democrito che disse della Via Lattea. 27.b.28.a.
Descrittione fatta dal Petrarca dell’hora della notte,
e dell’animo suo. 12.b.
Descrittione di Scilla fatta da Virgilio. 19.
Descrittioni in quanti modi si debbono, et possono fare. 12.b. 13.a.
Deus, come sia parola numerosamente composta. 20.a.b.
Diffinitione dell’Amor perfetto. 47.b.
Diffinitioni varie d’Amore. 45.b. 46.a.
Diffinitioni varie dell’Amicitia. 6.a.
Dilucolo qual sia. 14.a.
Discarico circa l’offese come si faccia, e come nò. 23. e
Oltre modo di discarico usato da Spagniuoli. 24.b.
Diversità unita come sia vaga. 17.a.
Diverità d’aspetti nell’aria onde proceda. 30.a.
Divino Amore, vedi Amore divino.
Divino furor, vedi furor Divino.
Donare più degno, che ricevere. 4.a.
Donne di grande animo che effetti facciano nell’amore. 57.b.
Donne sono sospette. 54.a. Bestemmie loro deono esser temute. 59.b.
Duca









Duca d’Amalfi eccellente nella Lira. 8.b.
Duello, e ciò che intorno ad esso à luogo.23.b. e oltre.
Differenza tra amante, e amico.3.b.tra amicitia, e
amore.ivi.
Diseguali non possono giungersi in amicitia. 5.a.



E

Eccellenza della vera amicitia. 6.a.
Eclittica linea qual sia. 37.a.
Effetti della Nobiltà. 1.a.
Effetti della gentilezza. 1.b.
Effetti della umiltà.ivi.
Effetti dell’amicitia sociale. 5.b.
Effetti mirabili dell’essercitio congiunto con la Musica. 8.a.
Effetti del furor divino. 15.b
Effetti delle Donne di grande animo nell’amare. 57.b.
Effetto della soverchia gelosia. 57.b.
Effetti dell’amore legato con virtù. 54.a.57.b.
Effetti dell’amore generale , e in particolare. 59.a.
Effetti di diversi amori nel Tetrarca. 50.b.
Effetti dell’amore humano. 47.b.
Effetti dell’amor divino. 46.
Effetti dell’amor ferino. 46.a.47. e 48.b.
Effetti dell’amor profano. 47.b.
Effetti della virtù. 53.a.
Essercitio congionto con la Musica. 8.a.


F
Fabricio Brancaccio accorto nel ferire nell’ab-
battimento, che fè co’il Perregna. 32.b.
Face prima. 13.b.
Femine di natura sono. 57.a.
Femine che si debbono fuggire, e non amare. 52.b.
Figli di quanto peso siano. 33.a.
Fine














TAVOLA

Fine nell’amore.55.a.nel perfetto Amore.ivi.della virtù et
quando si consegnifica. 55.a. dell’amor divino. 46.
Fine, et principio d’Amore.45.a.della Musica. 7. et 8.
Finta Nobiltà, vedi Nobiltà finta.
Fondamento della Musica. 7.b.
Fortuna come sia molte volte impedimento agli atti virtuosi. 33.a.
Forza che cosa sia.43.a.come s’accresca. 42.b.
Frutti della vera amicitia. 6.a.
Furor divino ne’ poeti, e suoi effetti. 15.a.b.


G


Galaxia, vedi via Lattea.
Gallicismo che cosa sia. 14.a.
Gambe nel correr delle lancie come si deono por-
tare. 36.a.nel giocar di picca come s’hanno à tenere. 41.a.
Gelosia agguagliata alla neve. 58.b.
Gelosia soverchia che effetto faccia. 57.b. di chi sia figlia.
ivi.Come, e quando si faccia sospettosa rabia. 58.a.
Geloso significato per Tantalo. 58.a.
Geloso perche sia ladro, e traditore.ivi. detto d’un gelo-
so.ivi. nome del geloso, e suoi significati. 58.b.
Gentilezza in un Nobile. 1.b.
Gioco di correr lancie,33.b. di Picca.38.b. e oltre.di
stocco.42.a.e oltre.
Giove stella perche così lucido. 22.a.
Giovani per quai parti si rendono amabili, e grati. 53.a.
Gioventù atta a profanare gli ordini sacri d’Amore. 45.a.
Gradi d’Amore provati dal Tetrarca. 50.a.
Gradi da osservarsi in Amore. 56.b.
Gradi diversi della virtù. 54.b.
Grandezza d’animo in che consista. 32.a.
Guerre di quante sorti si trovino. 15.a.
Guerra domestica qual sia.ivi.

HABI-













TAVOLA

H

HABILITA’del Cavaliero nei giuochi come
si mostrerà. 39.b.
Haver moglie, e figli grave peso. 33.a.
Humiltà in un Nobile. 1.b.



I

Iddio nella creazione del mondo usò la Musica.
8.a. è parola numerosa, vedi Deus.
Immagine nello specchio quando, e per qual cagio-
ne non si mostra pel tutto. 22.b.
Impressioni stranieri quali sieno. 27.a. Perche non conven-
gano à i cieli.ivi. fatte nell’aria perche causini diversi-
tà d’aspetti. 30.a.
D. Inniguo Izaguir. Vedi Barone della Palata.
Italiano Idioma copioso di numeri. 17.b.


L

Lancia come si debba arrestar per ferire
al segno, e far buona botta. 37.a. Come debba
corrersi, e molti avvertimenti in questo. 33.b.
e oltre. Varietà nel correr la lancia quando sia lecito d’-
usarla.37.b. modo di correrla usato dall’Autore.37.b.
usato dal Baron della Palata. 37.e 38.
Lattea via, vedi Via Lattea.
Lettere vocali, e consonati usate per fare il numero. 17. e 18.
Lira, istromento di musica, e come in essa difficilmente se
ne viene a perfettione.8.b. come sia più che qual si vo-
glia altro istromento, atto a muovere un’animo. 9.a.
Lodi del Baron della Palata. 38.a. della Signora D. Cassan-
dra, sua sorella. ivi. Della signora caterina lor madre.ivi.
Lodi del Marchese di Torremaggiore. 2.b. 23.a.34.a. del-
la Musica. 8.a.

B LUCE











TAVOLA

Luce ove più s’imprima. 22.a.
Luna minor della terra.28.a.delle macchie sue diverse opi-
nioni. 21.e 22. come sia stata posta così vicina a noi. 22.
a. perche gli aspetti suoi s’osservino tàto.ivi. come è di dop-
pia qualità dotata. ivi. Quando la sua opacità si manife-
sta a noi. ivi. è detta moglie di tutti i pianeti. 22.b. va-
rij nomi datile da’Poeti.ivi. perche sia composta di di-
verse parti. ivi.


M

MACCHIE della Luna. vedi Luna.
Maggioranze date alla Nobiltà da Dio, e dalla ragione. 25.b.
Mandritto come debba essere nel battere dello stocco. 43.a.
Mani nel giocar di picca come han da tenersi. 41.a.
Mantenitore nel giocar di picca può usar varie gentilezze,
che ad altri non è permesso. 39.a.
Marchese di Torremaggiore lodato nello schernire, e ne-
gli essercitij Cavallereschi. 2.b. 23.a. 34.a.
Mariti perche deono d’amore avanzr le mogli. 59.b.
Mariti inconsiderati. 57.b.
Marte perche così infocato. 22.a.
Mercurio mimor della terra. 28.a.è fuor dell’ombra della
terra. 28.b.
Mezi nell’amore, secondo il detto comune. 51.b. come so-
no incerti.ivi. quando son giovevoli. 52.a.
Mezi veri dell’Amor Cavalleresco. 52.a.53.b.
Moglie di quanto grn peso sia. 33,a, non dee farsi consa-
pevole dei secreti dal marito, 57.b.
Musica perche sia detta vanità. 2.b e 7.b.
Musica e Amicitia somiglianti tra loro. 3.b. convenienza,
che hanno. 7.b.
Musica qual cosa sia detta . 7.b. Da che sia offesa. ivi.Ha
per suo fondamento la virtù. ivi. fine suo secondo Pla-
tone. 7.e 8. Perche sia rimedio contro la molestia de

gli hu-














TAVOLA

gli humori. 8.a. sola partorisce mollitie. ivi. con l’esser-
citio fa meravigliosi effetti. ivi. lodi sue.ivi.
Musica usata da Dio nella creatione del mondo.8.a. Come
nelle cose belle si conosca, e evidentemente si palesi. 8.
b. Come doppo alcun diletto, in un’animo afflitto suole in
indurre tristezza. 9.a. quanto vaglia nell’amore. 53.a.
parti necessarie in essa.ivi.
Musico chi ragionevolmente possa dirsi. 8.a. Quanto debba
Essere avvertito nelle sue composizioni intorno alle paro-
le. 10.b. 18.b. Perche si serva delle consonanze imper-
fette. 18.a.



N


NATURA riguarda principalmente al generale.
40.b. Come in tutte le cose hà bisogno d’aiuto.ivi.
Natura de’celesti corpi. 27.a.
Natura delle femine. 37.a.
Nobile Amore. Vedi Amor nobile.
Nobile sia humile, e gentile. 1.b.
Nobili di che modo si rendano amabili a ciascuno.1.b. co-
me tra loro allo spesso resti offesa l’amicitia. 7.a. e dif-
ficilmente si conservi. ivi. come possa conservarsi.ivi.
Nobiltà che cosa sia.1.a. effetti suoi.ivi. Ove rettamente
si dè collocare. ivi. maggioranze datele da Dio, e dal-
la ragione. 25.b.
Nobiltà finta qual debba dirsi. 1.b.
Notte perche propriamente si dica tranquilla.22. b.?. distin-
ta in stte parti.13.b. Donatrice de’Dei. 14.b.
Notte intempestiva qual sia. 13.b.
Numero ove possa additarsi. 17.a.b.che cosa sia.ivi.
Numero del nome DEUS. 20.a.
Numeri della poesia, e dell’oratoria si trovano nella va-
ghezza. 16.b. et da quai vaghezze sieno fatti. 17.a.
Numeri dell’idioma Italiano. 17.b.Nei versi, et nella prosa.ivi.
Numeri imitano la Natura. 17.b.

B 2 OBLI-







TAVOLA

OBLIGHI dell’amicitia. 3.a.
Offese senza discarico.24.b. come si debbano
mantenere. ivi.
Offeso, quando l’offensore si stesse con buone guardie, come
possa levarsi il carico. 25.b.
Oggetto dell’Amor Divino. 46. dell’Amicitia vera. 4.b.e
della finta.ivi.
Ombra piramidale qual sia. 28.b.
Ombra della terra non passa la sfera di Mercurio. 28.b.
Opacità della Luna. vedi Luna.
Opinione d’Aristotile intorno alla via Lattea. 29.b.Si con-
futa.30.a. Perche in questo egli errasse. ivi.
Opinioni diverse intorno alle macchie della Luna. 21. e 22.
Intorno alla via Lattea. 23.a. 26.e oltre.
Oratione vera qual sia. 16.a. che habbia dalla Natura.ivi.
prima di numero come s’abborrisce. 17.b.
Oratore per natura più, che per istudio.16.a. perche hab-
bia bisogno più egli,che il poeta del favor Divino.16.a.b.
Condizioni che necessariamente a lui si ricercano.ivi.
Orator si fa, e Poeta nasce, perche è falso. 16.a.
Oratorij numeri, vedi Numeri.


P


Parti necessarie nella Musica. 53.b.
Parti della notte. 13.b.
Peccati gravi da fuggirsi nell’Amicitia. 7.a.
Perfetta Amicitia. Vedi Amicitia perfetta.
Picca, e suo gioco. 38. questo gioco a che si rassomiglia.
39.a. il ferir di picca nel giocare come ha da farsi.40.a.
come vi si deè portare al suo piede. 41.b.
Picche leggiere non convengono al vero armeggiare.38.b.
perche volentieri s’usino dà giovani nei giuochi. ivi. à
che cosa servano. 39.a.

Picche














Picche per armeggiare come debbano essere. 39.a.
Piede della picca come s’hà da portare, quando se ne gioca. 41.b.
Piedi come hà da tenerli l’armeggiante nel giocar di picca. 41.a.
Pietro Vinci Musico eccellente. 9.a. 10.b.
Pitagora che disse della via Lattea. 26.b. 27.a. come egli
chiamò il sole.ivi.
Poesia perche si dica furor Divino. 15.b. da che deve ella
essere accompagnata. ivi.numeri suoi. 16.b.
Poetico furore che cosa sia. 15.b.
Poeta nase, e Orator si fa. Prov. Perche sia falso. 16.a.
Quanto merita lode. 16.
Poetare è detto furore.15.a. si fa con lungo studio. 16.
Prestezza ne’ giuochi onde dipende. 42.b.
Prima face qual sia. 13.b.
Principe assomigliato al padre di famiglia. 5.a. obblighi suoi. 5.b.





R


RADICE dell’Amicitia 7.a.
Repubblica perche non possa dirsi vera Amicitia. 5.a.
Riflessione come si faccia da’ raggi del sole. 27.
b. come sempre si faccia à parte contraria. 29.a. come
è bisogno, che si muova.ivi.
Riferimenti veri d’honore quali debbano essere. 23.b.
Rota, vedi Berardino.
Roverso nel batter di stocco come debba essere. 43.b.



S


Savio vero non sente perturbatione, 2.b.
Scilla descritta da Virgilio con gran numero. 19.
Scioltezza nell’armeggiare come s’acquisti dal Cavaliero. 42.b.
Sdegno, e da chi se ti faccia resistenza. 57.a.
Segretezza principal virtù da adoperarsi in Amore. 59.a.
Siscari fratelli, Don Gaspare, e don Ferrante. 2.a.8.b.
Sole

















INTERVENGONO A RAGIONARE NEL

PRESENTE DIALOGO.


IL DUCA D’AMALFI
IL MARCHESE DI TORREMAGGIORE
IL CONTE DI SIMERI
Il BERARDINO ROTA














D I S C O R S I 1

C A V A L L E R E S C H I

D E L L’ I L L U S T R E S I G N O R

D. GASPARE TORALTO

I N D I A L O G O C O M P R E S I.

SPESSE volte i ragionamenti da Nobili, et virtuose persone fatti sogliono essere à buoni, et ottimi fini ordinati. Onde si tien per fermo, che la Nobiltà sia un carattere, ( per dir così) che principalmente negli animi s’imprima: i quali per goder doppiamente di questo lor pregio, non solo quelle cose affettano, che per ordine di natura tengono con esso loro convenienza, ma che possono tanto maggiormente nobilitarli, et ingrandirli; onde poi ascesi al colmo d’ogni Nobiltà, et grandezza, apertamente conosceranno questa bellissima, et pregiatissima gemma doversi à tutti i modi nel purissimo oro della virtù collocare; et di questo oro poi fattone un ricco, et sontuoso pendente ve-
A dranno

dranno esser debbito d’appèderlo al monile della gentilezza, et dell’humiltà, per le quali due parti s’habbiano da rendere amabili à tutti non ben convenendo à Nobili, massimamente nelle pratiche familiari, mostrarsi superbi e ritrosi: come sogliono il più delle volte far coloro, che vogliono fingere la Nobiltà, e anche la virtù col non rispondere alle richieste, o pure col rispondere sì freddamente, che mostrano far poco conto delle persone, godendo oltremodo, ch’ogni lor detto per oracolo sia riputato. Onde per ischivar tanto errore, parmi, che ad ogno Nobile sia convenientissimo, armandosi prima di gentilezza: et d’humiltà, il potere et privatamente, et pubblicamente trattar di virtù: già che la gentilezza, che chiude le buone creanze, lo disporrà a trattar d’un modo grato, et piacevole: et l’humiltà poi a soggiacere di buon animo à tutti quegli avvertimenti et ricordi, che potranno molto più virtuoso renderlo. Da ciò mossi alcuni Signori della nostra città alternatamene l’un l’altro chiedendo, et gentilmente rispondendo, passarono molte hore in un piacevole, et grato ragionamento; il quale io minutamente intesi da persona, che dal che dal Rota, uno dei ragionanti l’haveva udito: et dissemi ancora haver’ havuto princip dal Marchese di Torremaggiore, e dal Signor Conte di Sieri, che insiememente givano a visitare il Signor Duca d’Amalfi: nella cui casa finiti di salire i gradi, così su l’entrata d’un palchetto, cominciarono a sentire una lira soavissimamente toccata, et accompagnata poi da uno strumento, et da voce. Onde il Signor Conte prendendo da quì lie-
tamente

tamente l’occasione, disse al Signor Marchese. Buona ventura è questa Signor Marchese: che s’io non erro, il Signor Duca sarà da noi sopragiunto con la lira in mano: che l’armonia che da qui si sente, i suoi dolcissimi modi, arteficio se sue arcate mi sembra. MAR: se bene io non m’era di questo particolare avveduto; pure giudicava fra me questa unione di duo stromenti, e una voce di gran lode degna; già che mi pare di sentir la lira gentilmente, et vagamente accompagnata. CON. I duo fratelli Sicari, credo, che faccian compagnia al Signor duca, l’uno con la viola,et l’altro con la voce. che ben sapete signor marchese, come in ogni attiene, e particolarmente in questa siano riusciti compitissimi. MAR. D’ambiduo ne posso io rendere chiara testimonianza sia del valore, sia dell’ingegno: ma entriamo quietamente per non disturbare sì bel trattenimento. DU. Questo à punto desiderava io, cioè il Signor marchese, e’l signor Conte; né voglio, che da questi romore siano i nostri ragionamenti disturbati. MAR. S’io fossi Musico, non comporterei, che l’istessa Musica, dotata d’ogni eccellenza, fosse oggi da voi, Signor Duca, nomata romore. Ma vi condannerei à grave pena. CON. Et s’io fossi giudice di questo, darei per pena che il Signor Duca ripigliasse la lira. DU. Non entrate Signor Conte in violenza: che tal’hora le vostre maniere gentilmente sforzano le persone ad ubedirle. CON. Se pur volete, che di buon cuore riceva le gratie, e i favori da voi Sigore, affrettatevi(priego) à ripigliar quella lira. Mar. Bel modo di far
A 2 violen


violenza Signor duca sott’ombra di ricever sforzo: hor di gratia non mancate.
DU. Volete dunque, che i ragionamenti di tre cari amici, come noi siamo, sieno interrotti da una vanità, com’è la Musica? MAR. Troppo vi scaldate contra la Musica, chiamandola vanità,et per quello ch’io discerno, è gran torto.DU. Parmi, che le cose ordinate da voi per alcuna vanità, non si possano per aaltro nome chiamare. CON. Spesso ( come il Signor Duca ha detto) la Musica essendo da noi a cattivo fine ordinata vien indegna di questo nome. MAR. Et molto più speeso i ragionamementi sogliono esser troppo vaanamente ordinati, di modo che potendo noi alterar tutti gli ordini della natura, non debbiamo così bella scienza, com’è la Musica, incolpare: ecco il Signor Berardino Rota, egli potrà il mio dritto difendere.
RO. che mi pare Signor Duca? Il signor Marchese, che il dritto di molti potrebbe col suo valor difendere, chiede da me aiuto; onde crederei, se i colpi della fortuna solo ai nostri corpi, et non agli animi foeero drizzati, che dal Signor Marchese sarebbero molto bene schermiti. MAR. non memvago, che nuovo modo di favorirmi è questo Signor Berardino, ma io vorrei che i pensieri vostri si rivolgessero ora alla difesa della Musica. RO. Mal potranno l’antico, et immortal pianto obliando, ripigliar sì contrario soggetto. MAR. Questo avviene à noi altri, che savij non possiamo stimarci, ma al vero savio non possono gli infortuni di questo secolo perturbar l’animo, come non ha mai potuto à voi, che nel pianto avete sì altamente
cantato,


cantato, che meritatamente siete da tutti novello Orfeo nomato. DU. Poca contesa potrei fare col Signor Beradino con tanta disuguaglianza d’armi: né poterbbe egli tener palma di Vittoria, vincendomi, ma così comandando voi altri Signori, sarà bene, che insiememente preghamo il Signor Berardino à farci un ragionamento della Musica, della quale sapendo la diffinizione, possiamo le nostre questioni terminare; et così io vi priego Signor Rota, et astringo a pascer gli animi nostri d’alcuni di quei cibi, che avete voi preso dalla mensa di Giove, se non dall’Ambrosia, almeno degli altri non così nobili, per poter esser da noi intesi. MAR. Qui non potete contraddire Signor Berardino; ma di gratia apparecchiatevi à sì bella opera. CON. Il contraddirci in questo non sarebbe del Signor Berardino, ma di chi o non sapesse, o con alcuni soverchi modi volesse parere di saper molto.
RO: Hor vevete, come gentilmente mi vengono tolti i ripari: ma poi che è così; non voglio, né tutto ch’io volessi, potrei difendermi, senza mancare à gli obblighi dell’Amicitia; i quli tanto vengono ad essere maggiori; quanto gli gli amici, à quali s’à da compiacere, sono di meriti più degni. DU. Con molta mia sodisfattione v’ascoltai un giorno Signor Berardino, ragionando voi copiosamente dell’Amicitia.
RO. Rare volte mi sono tra amici ritrovato, che di questo bel modo dell’Amicitia no habbia fatta alcuna mentione. CON. Et hora più, che mai, ne dovreste ragionar tra noi: ma come che lasciando di compiacer il Signor Duca nella sua prima ri-
chiesta


chiesta, non si terminerebbero le nostre liti un’altra volta, piacendovi Signor Berardino, ne direte alcuna cosa con molte belle occasioni. DU. Io mi rimetterei al Signor Berardino nell’appigliarsi all’uno di questi ragionamenti: che se bene io l’attesi su ciò lungamente discorrere, non avranno però a mancargli nuovi pensieri per dilettarne. MAR. Ben vorrei io ch’egli s’appigliasse nell’Amicitia, per intender particolarmente, già che il Signor Berardino la chiamò nodo, come venga ella propriamente ad annodare: et che differenza vi sia tra quello che noi chiamiano nodo d’Amore, e’l nodo dall’Amicitia. CON. L’istesso mi muove à desiderar quello che voi desiderate Signor Marchese. DU. Dunque potrete, Signor Berardino, inun tratto ragionando d’Amicitia, soddisfare à tre amici. RO, Io spero così di passata, per non occupare il luogo à ragionamenti più piacevoli, di soddisfarmi non meno in questa ultima richiesta, che nella prima; essendo la Musica , et l’Amicitia molto somiglianti: già si vede non potersi dire propriamente Armonia quella, che di più consonanze non è ordinata; così non possiamo ritrovar l’Amicitia, se non tra molti, o almeno tra due: et perciò poco prima fu da me chiamata nodo; ch’ella di piacevolissima catena lega gli animi; onde questo legame, c’hà origine dalla benevolenza, possiamo dire Amicitia. Et questa è la differenza tra Amore, e Amicitia, che il Signor Marchese desiderava intendere: per che Amante possiamo chiamare, chi ama, se ben dal canto dell’amata non vi fosse corrispondenza d’amore: ma chi Ami
coàdir
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coàdir non habbiamo, se non colui, che avrà trovata persona, che scambievolmente accetti il vincolo soprahumano dell’Amicitia. Da qui nasce, che molti disputano dell’Amore, et dell’Amicitia diversamente; alcuni tengono che Amore sia più eccellente: perche egli da se solo dipende; et vogliono, che l’Amicitia, traendo principio dall’Amore, non debba esser sì nobile giudicata. Ma il contrario mi par di conoscere, cioè, che Amore habbia il suo principio dal desiderio, ch’è pur possibile affetto dell’animo: ma l’Amicitia non da altro, che dalla virtù, onde chiara cosa è, che L’Amante à fine di godere alcuna bellezza, ama: et ben si vede, ch’egli è mosso da’ propri comodi: ma lìAmico non usa l’Amicitia, se non per giovare. Così potremo conchiudere, che tanto più eccellente è l’Amicitia dell’Amore; quanto ch’è il donare del ricevere; oltre che, come ogni giorno veggiamo, l’istesso nome d’Amore si può da discordanti, et profani amori alterare: già che pur questi amanti tali sono guidati da alcun desiderio di bellezza con disdegno di goderla solamente: ma questo nome d’Amicitia non pate, né riceve mutatione, né alteratione humana. Onde nasce, che noi possiamo dire amante colui, ch’amerà, quantunque disordinatamente: ma non possiamo chiamare amico, chi usa a mal fine l’Amicitia.
Vedesi ancora in Amore alcuna imperfezione, essendo per commun parere diffinito, l’amante esser più nobile dell’amato: il che nell’Amicitia non avviene, come cosa, che non può esser da altri, che dalla virtù ordinata: onde vogliono i Savi, l’Amicitia
non potersi, se non nei buoni ritrovare,

et per ciò doversi anteporre à tutte le cose humane, et quì intenderemo per buoni coloro, de’ i quali la comune vita se ne contenta; et non coloro, che si fingono, o per ispecial gratia sono richiesti, che altrimenti un paro d’amici in tutto il mondo si ritroverebbe. Tra costoro, dice Aristotile, si trova la perfetta Amicitia: cociosia che la somiglianza della virtù è quella, che fa congiungere gli animi delle persone, et gli stringe con l’indissolubil nodo della benevolenza, la qual’Amicitia non solo è durabile da se, ma tuttavia cresce con la corrispondenza dell’amore. Onde tra cattivi non può essere amicitia; e se qualcuna appare, ella è falsa: non essendo loro altro, che un desiderio d’utilità, e isperanza di guadagno. Et sì come i buoni conservando, e benoperando diventano migliori; così i tristi per le loro cattive opere diventano peggiori; e la loro mal fondata amicitia si disperde: che mancando la speranza di poter conseguire avanzo, o piacere, subito non solo ruina la benevolenza: ma l’amore il più delle volte in odio si converte. L’Amicitia poi, che deriva solo dalla virtù, non istudia in altro, né pensa, o cerca, se non di giovar l’amico, senza disegno, ch’à se ne ritorni utile: perche colui, che ad altri desidera bene per prorio utile, et comodo di se stesso, mostra non amar l’amico per la proria amicitia, ma per l’utilità, che dal bene si vede ritornare: e questa piuttosto mercantia, che amicitia chiamar si deve. Né debbiamo creder, come alcuni fanno, che gli utili siano bastevoli a stringare il nodo dell’Amicitia, e che alcuna volta dall’impotenza ella derivi; ma debbia
mo

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mo habbiamo molto à vile ( come dice Cicerone nei suoi dialoghi) quest’amicitia, che dall’utlità prende principio; et perche essa suole essere non durabile, farne poco conto: perciò che se l’utilità legasse l’amicitia; l’incommodo la disciorrebbe. Onde noi intendiamo il senso dell’amare, e la carità della benevolenzahaver l’origine dalla natura, e conseguentemente dalla virtù, e non dall’utilità: e però una congregazione d’huomini, come una Repubblica, swben si può dir logicamente, che sia amicitia, non perciòintenderemo d’ella perfette, ma più tosto una compagnia per ragion d’utile: perche ciascuno spera haver giovamento dal compagno. Onde tra dispari d’età, di studi, e d’arte, à gran pena, o non mai si può ritrovar la vera Amicitia. Varie dunque sono le specie dell’Amicitia, ma sotto quella che da Platone vien chiamata civile, questa, di cui habbiamo preso à ragionare, si contiene: Et perciò in tre modi considereremo questa civile amicitia. Prima dicesi esser quella, per la quale i Cittadini si vengono ( come detto habbiamo ) à congiungere insieme per un certo ordine della patria; essendo uno strettissimo nodo l’habitare insieme in un medesimo luogo, prendere lo spirito d’una medesima aria sotto un medesimo cielo, nutrirsi de’ medesimi frutti, ed essere difesi dall’istesse mura, ordine, e leggi, avendo tra loro tra loro le molte cose communi. Questa comune Amicitia( secondo Cicerone) quando via si levasse, parrebbe, che’l sole dal mondo si togliesse. Quest’Amicitia, pare, che s’appartenga più al Principe, che à nessun’altro, avendo una certa somiglianza col padre di
B famiglia,


Famiglia, il quale abbraccia la moglie, i figliuoli, i parèti, e tutta la casa cò una general benevolenza, desiderando, e facendo bene a tutti, secòdo la dignità, l’età,e’ il sesso; così dee fare c0’ suoi il Principe, comunicando la sua volontà co’ gli amici, et non lasciando far violenza nessuna a’ Cittadini, né da loro ad altri, et ministràdo egualmente ragione a tutti. La secòda sorte d’Amicitia è veramente perfetta, quàdo ha le parti convenevoli della perfetta virtù, che nò può essere, se nò da buoni di simili costumi, per li quali possono lungamente praticare insieme senza macchiar l’amicitia; così, come dice Lelio di se, e di Scipione, introdotto da Cicerone nei suoi dialogi, questa sorte d’Amicitia non si può ritrovare, se non tra pochi, come appunto suole accadere nell’Amore, che uno non potrà molte persone amare. E perciò tale Amicitia di rado si vede, poiché obliga tra gli amici ogni cosa comune: il quale obligo s’è veduto da pochi serbare. La terza soìpecie di questa civile Amicitia chiamasi sociale, la quale non solamente cerca la benevolenza d’uno, ma di più.
E perche questa sorte d’Amicitia obliga tanto l’amico, quanto la perfetta, e vera; perciò non deve esser in quel pregio tenuta, ma come ombra della vera Amicitia si dee riputare. Questa suole communemète provvocar gli animi alla benevolenza, onde essendo essa così comune, e non avendo il suo nascimento drittamente dalla virtù, poche contese può ella fare còtra coloro, che la vengono à profanare. Habbiamo noi dunque da eleggere quella Amicitia, che poco avanti nel secondo modo dell’Amicitia civile habbiamo perfetta, e vera no-
Mata


mata: e per poterla molto bene usare, secondo la sua proprietà, non sarebbe fuor della vostra richiesta, diffinirla col parer d’alcuni savij, c’han procurato ne’ loro scrtti, con ragionamenti scoprirci le grandezze di questa Amicitia. Perciò che secondo i vecchi Accademici, ella è stata diffinita per un reciproco amore tra duo, ò più, per una somiglianza di costumi tra loro, o per la medesima virtù, che nell’uno, e nell’altro, si ritrova. Ma più brevemente vien da Pitagora diffinita, dicèdo, l’Amicitia è una volontà di quello, che si desidera per cagion della persona, che s’ama; onde disse, che l’Amore nonè altro, che far gran bene altrui, se bene à chi ama non ne torni utile nessuno. Et per volere ci breve chiudere le grandezze dell’Amicitia, in altro luogo la diffinì, dicendo, l’Amicitia veramente è di tutte l’humane cose con benevolenza, e carità, somma concordia. Quale spirito vitale dunque( come dice Ennio) vi può essere alla vita di colui, il quale nò riposi nella scambievole benevolenza dell’amico? Che cosa è più dolce c’havere alcuno, col quale tu ardisca tutte le cose, come teco istesso raccontare? Che frutto si porterebbe ne’ prosperi successi, se non si ritrova alcuno, il quale teco ugualmente si rallegrasse? Ed anche molto difficile sarebbe tollerare gli infortuni, senza alcuno, che altresì di pari si dolesse. Finalmente tutte le cose, che si desiderano, ciascuna quasi ad una cosa sola per se sola convengono le ricchezze all’uso del vivere ; le potenze ad esser riverito; gli honori ad esser lodato; i piaceri à godere; la buona valetudine per poter gli ufficij del corpo esercitare. Ma l’Amicitia contiene molte cose; ovunque ti volgi è presta, da niun luogo è scacciata; non è mai fuor di tempo, né molesta. Onde non l’acqua, non il fuoco, non l’aria (come dicono)in più cpse usiamo, che l’Amicitia. Ben dice Cicerone, che ‘l riguardar l’amico, sia quasi riguardar se stesso. Grandi insomma , e sopr’humane sono le lodi dell’Amicitia. Questa mantiene i regni, i quali, ella onon essendo. Sogliono venire in molte ruine. Questa ( come cantò in versi greci un dotto Agrigentino) raunò tutte quelle cose che nella natura, e nell’universo si muovono, e la discordia le dosperse. Ma lasciando star le cose basse pertinenti all’uso della vita, e rivolgendoci con gli animi sgombrati di questa caliginosa nebbia della terra, vedremo, la maestra natura essersi infinitamente compiaciuta in questa Amicitia: che con molta ragione disse Empedocle,i principij delle cose esser l’Amicitia, e la Lite, quella genera, e questa corrompe le cose: e scendendo poi alle congenerate, che ordine? Che amicitia serban tutte? Onde ( come dice il Divin Cornelio) la terra non s’usurpa il luogo dell’acqua: l’acqua non sale sopra l’aria: l’aria non si sdegna ceder al fuoco: il fuoco non è ambizioso d’occupar le sfere celesti; tra i cieli il primo mobile non vieta alle secode sfere i moti proprij; le seconde si lasciano umilmente rapire al moto suo. Così non solo si conferma il mondo in amicitia: ma tutte queste cose insieme ci ammaestrano à ben usar l’Amicitia, perche una persona, quantunque possente, non si dee sdegnare anteporre nelle pratiche dell’Amicitia un’ altro di lui maggiore, co-
sì in

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sì in tutti i gradi dell’humane condizioni. Et perciò vogliono i savij, che tra Nobili nulla cosa offenda più l’Amicitia, che la concorrenza degli honori, e della gloria; e tra Vili la cupidigia. Or poi ghe i grandi del mondo ad altro non attendono, che à precedere ognuno così negli honori privati, come publici,; malagevole cosa mi pare, che tra loro lunga amicitia vi si trovi. Onde di costoro intendendo Cicerone, dice, nessuna cosa esser più difficile, che mantener l’amicitia insino all’ultimo della vita: che o veramente una istessa cosa non è utile all’uno, e all’altro, o che nelle cose publiche non sono d’una istessa opinione. Cangiansi ancora molte volte i costumi degli uomini, hor per gli icommodi del’avversa fortuna, e hor per farsi più grave l’età. Ma chi dal canto suo vorrà mantenere à còpimento l’Amicitia, gli bisogna schiettamente esercitarla senza alcuna finzione, e comunicar con l’amico ogni cosa col vero, e secondo la virtù; e non fare, come Alcibiade, che coprendo i suoi vitij con l’eloquenza, e leggiadria, era valente in acquistare amici, ma dbole in conservarli. Né deve egli richieder l’amico di cose ingiuste, e fuor dell’honesto ; che queste sogliono essere quelle richieste, che possono velenare l’Amicitia perciò che l’Amicitia non escusa il peccato, già ch’ella si secca à fatto, essendo dalla sua radice troncata, ch’è la virtù. Onde ugual peccato è domandar all’amico cose fuor della virtù, che sia all’amico concederle. Ma per conchiudere, parendomi havere passato oltre il segno, due leggi debbono nello stato dell’Amicitia essere inviolabilmente ser-
bate


bate, acciò ella non solo lungamente viva, ma immortale divenga. La prima è, che non domandiamo all’amico, né domandati da lui facciamo cosa fuor dell’honesto. La secondaè, ch’ogn’uno tanto apprezzi se stesso, quanto merita, né più desideri, o comporti essere dall’amico apprezzato. E s’un punto di questa legge si preferisce; l’Amicitia si convertirebbe in odio, non altamente, che se nella Musica s’alterassero le voci, ella di armonia disconsonanza diverrebbe. Molta dunque somiglianza si ritrova tra l’Amicitia, e la Musica: vedendosi chiaramente la conformità di più animi nomarsi Amicitia; e la conformità di più voci Musica: l’una, e l’altra esser dal veleno della discordia uccisa. Né con minor difficoltà si ritrova amico perfettamente usar l’amicitia; che musico perfettamente servirsi della musica. Perché così come infiniti sono i successi, e l’occasioni, che sogliono perturbare il vincolo dell’amicitia; non altamente sono innumerevoli i modi, che sempre, o il più delle volte sogliono alterare gli animi de’ musici. Onde alcuni attribuendo la colpa alla musica, le danno nome di vanità; non perche ella bene usata s’havesse a riputar vana; ma per che lor pare, che provochi in un certo modo gli animi ad esser vani: e per ciò parmi, che l’Amicitia, e la musica habbiano bisogno à’ un’istesso fondamento della virtù: la quale, regolando gli animi degli amici à ben regolar l’Amicitia, e de’ musici à ben essercitar la Musica, rende l’una, e l’altra irreprensibile, e divina: onde platone parlando della Mu-
sica


sica, benché misticamente, ci insegna à ben esercitarsi in questa scienza; e vuole, che la musica habbia il suo fine in amare il bene; e ch’ella sia di modo usata, che per lei altro, che l’honesto non si ricerchi, e quando à tal fine sarà ordinata, allora ci sarà giovevolissima; già che l’istesso Platone dice, che nessun conforto migliore possiamo ritrovare della Musica contra la continua molestia degli hmori, per essere ella molto particolare amica all’huomo; non gà che noi tralasciando à fatto gli esercizi del corpo, avessimo da intendere alla Musica; perche, come egli in un altro luogo accenda, la Musica sola partorisce mollitie; ma bisogna accompagnarla con l’essercitio, e così insieme saranno di gra momento: perche quella meravigliosamente compone lìanimo, e questo addestra il corpo, et le membra, e moderatamente usato molto conferisce all’ingegno. Debbiamo dunque tener la Musica per scienza mobilissima, e come divina; in quella esercitarsi non alterando il suo fine: che all’hora noi saremo meritevoli del nome di musici, e manterremo in piedi dal canto nostro il decoro di di questa soprahumana scienza; nella quale s’è tanto compiaciuto Idio, ch’ognicosa fu da lui musicalmente creata; oltre che i cieli seguendo i lor moti, riempiono l’universo di melodia: e così tutte le cose, che da loro prendono origine, si mantengono negli ordini, e nelle misure, come possiam conoscere chiaramente dall’esperienza. Insomma non vi si ritrova qua giù a basso bellezza, che da questa scienza non sia compresa, essendo l’istessa bellezza
unione


unione, e conformità di più cose, e diverse; la qual diversità di cose non può esser ridotta in concordia, e unione da altri, che dall’ordine dalla Musica: ma io conosco faticarmi indarno sopra le lodi di questa scienza: che ben veggo voi altri Signori ben ridoluti intorno all’eccellenza,e grandezza sua. Onde s’io sono stato molto ardito a ragionarne, gran voglia, ch’hò d’ubidirvi, n’è stata cagione. Ma poi ch’il Signor Duca hà fatto ragionar d’Amicitia, e della Musica; per non uscir fuori degli ordini dell’Amicitia, e della Musica; farebbe molto bene a ripigliar quella lira, e così oggi in diverse cose trattenendoci, diversamente pasceremo gli animi, ch’è pur quella diversità, che di sopra si diceva, la quale suol sempre partorir virtù, e bellezza.
DU. Io non sodsfarei, Signor Beradino, al vostro desiderio, ripigliando la lira: già che i duo fratelli Sicari, che l’hnoravano, e abbellivano con la voce, se ne sono iti.
CON. Credo, che ‘l Sigor Berardino non vi sforzi in questo, tanto per udir le voci di quei duo Cavalieri, quanto per sentire in vostra mano un’istromento così imperfetto,
cm’è la lira, divenuto perfettissimo: che, per quello, ch’hò inteso dire da eccellenti Musici, pochi vi sono arrivati, MAR. Et fra quei, pochissimi han ritrovato nella lira così dolci, e fondati modi, come ul Signor Duca per quello, ch’altre volte l’ho udito. DU. Io non dovrei punto ubbidirvi in questo, sì per la poca sodisfattione, ch’io ne sento, come anco, perche so d’havervi più tosto ad offendere l’orecchie, ch’à dilettare; ma per far riputare il Signor Marchese da voi
altri

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altri Signori esperto musico con la mala riuscita dell’esperienza, non negherò di farlo. Or sù attendete. MAR. Poiche sì caramente ci costa, almeno, Signor Duca, non vi sia grave sonar quel sonetto del Tetrarca, posto in musica dall’eccellente Pietro Vinci in cinque voci, che, se mal non mi ricordo, è questo. HOR CHE’ L CIEL, E LA TERRA, E’ IL VENTO TACE. DU. Per torvi ogni scusa, e per farvi con più ragione condannar da questi Signori, v’ubidirò tosto. MAR. Or giudicate Signor Conte, e Signor Berardino, s’io hò mal giudicato, o pure il Signor Duca, con l’esser sì comptissimo musico, fa troppo gran torto alla musica con la poca professio, che ne vuol fare. RO. Io non solamente danno il Signor Duca in questa sua ostinatione, ma voi ancora Signor marchese, che avendole udito altre volte, non l’havete molto più efficacemente sforzato à così dolcissima opera; che veramente in un tempo mi riempì di gioa, e di dolore. CON. Non ch’istromento nessuno possa muovere un’animo, che questo, quando vien ben toccato, cm’hor questa lira. Ma come ha fatto in voi, Signor Berardino, duo effetti contrarij? RO. Ben Signore, che all’huomo afflitto nell’animo ogni cosa piacevole, ch’egli senta, se ben per breve spatio lo divide da alcuni noiosi pensieri, poi imaginandosi in quella piacevolezza le bellezze perdute, come cosa molto lor simile, lo riempie di tristezze, come leggiadramente dice in un sonetto un nobile giovane, molto nostro amico: il qual sonetto così m’è piaciuto, ch’io credo averlo à mente. MAR. Di gratia Signor
Berardino


Berardino favorite me particolarmente di recitare il sonetto, perche ambi in uno scoglio habbiamo rotta la nave. DU. Potrei io pur servirmi dell’istesso proverbio, e con più forse ragioni. CON. Et io per sentir cosa dettata da un’amico, non già per altre, caldissimamente vi priego, Signor Berardino, à recitarlo. RO. Tanto fa al proposito mio hora in questa occasione, ch’io non rimarrò d’ubedirvi, così anco per esser il dettator di questo sonetto da me nel numero d’un de’ miei figliuoli riputato, del quale io taccio per non dir cosa soverchia. Il sonetto è questo.



SPESSO D’ALGOSO FONDO ERGE DELFINO,
TRATTO DA NOTE DI DOLCEZZA PIENE,
CREDENDO RITROVAR L’ALME SIRENE,
PER CUI NEL MAR GRAN TEMPO ARSE IL MESCHINO.

ET MENTRE INCAUTO SEGUE IL RIO DESTINO,
VAGO DEL PROPRIO MAL, COLMO DI SPENE:
IL PESCATOR, CHE IL FERRO IN MAN SOSTENE,
CON LA VITA LI ROMPE ANCO IL CAMINO.

TAL DI ME AVVIEN, MENTRE CHE I DOLCI ACCENTI
DEL PREGIATO, E DIVIN MONELLO ARIONE
MI TRAGGON DAGLI ABISSI DEI MIEI DANNI.

ONDE GLI SPIRTI A’ IMAGINAR VOI INTENTI,
PAGHI NE’ PROPRIJ LOR SOAVI INGANNI,
NE RIPORTAN DI DUOL NUOVA CAGIONE.

CON.


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CON. Già sapete sig. Berardino, che dalle vostre parole s’è ben compreso il compositor del sonetto, ed anco dal modo del dire: et vi certifico ch’egli è tanto mio particolare amico, che per non mostrarmi spassionato, rimàgo di lodarlo. Ma che pare a voi altri signori del sonetto? DU. A me pare, che meritamète dal Signor Berardino fù degnato a tàto, ma com’è, che per hora non mi sovviene, chi può essere questo cavaliere, nostro amico? CON. Con buona licenza del Sig. Berardino io ne’l vorrei dire. RO. Di gratia , Sig. Conte, non pubblicate il nome del comune amico, già ch’egli tiene una stessa opinione col Sig. duca, cioè di non voler esser tenuto poeta, così come il Sig. Duca di non voler passare per musico.DU. Voi mi fate crescer la voglia di saperlo: di gratiaSig.Berardino pubblicatelo. RO. Bastivi Sig. Duca il sapere, ch’egli è nostro ben istretto parente, e servitore, DU. Chi può esser costui? RO. Spesso voi altri Sig. grandi procurate di conoscere minutamente, chi non vi tocca; e non solo questo, ma persone, che non avete mai vedute, e poca cura prendete di coloro, che per affettione, e per obligo desiderano servirvi. DU. Gran torto mi fate Signor Berardino di mettermi in questo numero, già che sapete in alcun modo la professione mia. RO. Essendo voi Sig. Duca de’ grandi, e non per parlar particolarmente, dico di tutti i grandi, non già perche io vi riputi tale, anzi per un di quelli pochi, per li quali hoggi in questa Città si mantiene alcuna ombra di virtù. CON. Et parmi, che questa ombra di virtù, che voi dite, vien pur hoggi sbandita da
Nobili

Nobili in questa nostra patria, onde infelicemente viviamo. MAR. Ben credo, s’io non erro, che questa correttela habbia origina da un peggiore male, e questo è, che molti Nobili credano fermamente, che lor basta, per sapere ogni cosa, l’esser nati illustri, e nutriti in questa Città. Ma come v’è piaciuto, Signor Berardino, il sonetto del Tetrarca messo in note da quello eccellente huomo? RO. Se ben io teneva per fermo, che una legadra compostione, per esser ben intesa la sua leggiadria, non dovrebbe esser posta in musica; che’l più delle volte questi nostri musici con le note tolgono le forze delle parole, , e spesso vanno intessendo in modo i lor componimenti, e intrigandoli, ch’io per me non posso sentire l’affetto delle perole distesamente, ma più tosto un romore, se ben dolce per li concenti della musica, pure confuso; nondimeno il nostroVinci parmi, ch’eccellentemente vada osservando tutte le cose; che possono non solamente nocere all’orecchie del corpo, ma à quelle dell’animo; perche va invitando, per quello, che in questo componimento hò inteso, le parole dell’autore con le note hor’ alte, hor basse; e con l’armonia hor dolce, hor grave, hor aspra, hor dolente; hor pietosa, l’affetto di chi scrive: e non meno bella avvertenza parmiche usi nell’esprimere delle parole, che quelle parti, che possono movere l’animo di chi ascolta, o alcuna degna sentenza non vengono nella sua musica velocemente dette, di modo, ch’altro, ch’un grido non s’intenda; ma l’accommoda talmente, che la sentenza in un tempo viene à cadere con quella parte
della


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della musica, che chiamiamo accadenza; così in un tratto diletta l’orecchio e l’animo. MAR. Molto belle avvertenze avete notato Signor Berardino: e certo che così fondatamente sotto brevità discorrete di questa arte del comporre, che ben mostrate, come da vera scienza della musicavien molto meglio capita, e intesa da coloro, che nel suo miglior fonte, cioè negli autori antichi, che n’hanno adombratamene scritto, han fatto i loro studj, che da costoro, che più tosto a caso scrivono, che con ragione,; e tanto l’uno si vede avanzar l’altro, quanto è dalla natura più favorito. CON. Tra questi ragionamenti parmi, che ‘l Signor Duca non altrimenti, che se à lui non toccassero, se ne sta senza volerne pur ragionare. DU. Io taccio in questi discorsi, per non dir cosa della musica, nella quale habbia d’haver contra tutti voi altri Signori, e forse la ragione; già c’hoggi mi ritrovo in un tono contra questaa musica molto bizzarro, così anco, che per quanto posso conoscere, n’ha detto il Signor Berardino in poche parole, ch’io ogni cosa, che ne dicessi, pensrei esser soverchia. Ma io vorrei intender dal Signor Berardino, quando il Tetrarca disse, HOR CHE ‘L CIEL, LA TERRA, E IL VENTO TACE, esendo chiaro, che per lo tacer del cielo propriamente egli non intese; poiche questa machina, come vogliono i Savij, vien dal suo moto mantenuta: né meno per la terra, già ch’ella così stabile è, che con bella proprietà possiamo dire, che sempre tace; benche alcuni vogliono, che ‘l Tetrarca intendesse il tacer del cielo per l’aria non com-
mossa

mossa da’ venti, né meno battuta dall’ali degli augelli, tacendosi a quell’hora per tutto; per la terra poi non movendosi in arbor fronda, e acquietandosi gli uomini, e gli altri animali. Di grtia Sig. Berardino fra tanti intendimenti, che nessun pienamente mi soddisfa, non mancate ddel vostro, col quale son certo d’havermi d’appagare. RO. Io stimo, sig. Duca, che l’intention del Tetrarca sia questa, ( per quello che io sprovvedutamente, e di passata ne posso vedere) cioè, c’havendo egli voluto descrivere la proprietà della notte, nella quale egli si lamentava; la qual proprietà della notte( secondo Aristotile) è l’esser tranquilla perche i venti per lo soverchio freddo della notte spirano, e parimenti il giorno per lo soverchio caldo, sì che la mattina, e la sera per essere l’hore più temperate, e alla generatione de’vapori più disposte, sogliono per lo più i venti spirare, per aggiungervi poi, oltre alla naturalità della notte, un silentio maggiore, usò un modo di parlare che dagli afflitti vien propriamente usato, quando alcun accidente gli rappresenta la pena maggiore; così il Tetrarca per mostrare, che à suo danno si taceva per tutto, per comprendere ogni cosa, disse, che ‘l cileo e la terra, come perti, che contengono l’universo, tacevano; onde parmi, che parlando egli avverbialmente, non abbia potuto in più leggiadro modo significarci la tranquillità della notte. MAR. Poiché sotto il tacer del cielo, e della terra, si poteva comprendere la quiete d’ogni animale, come soggiunse egli,ET LE FERE , E GLI AUGELLI IL SONNO AFFRENA? Di gratia
Signor


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Signor Berardino chiaritemi di questo, c’hor mi sovviene. RO. Se ben sotto il tacer del cielo, e della terra si potevaa pure intendere tl riposo de’ volatili, e de’ terrestri; nondimeno non poteva egli dimostrarci in questa prima descrittione, quantunque fosse molto ampia, l’affetto del suo animo: che trovandolo il Tetrarca a quell’ora della notte, quando pur tutto si taceva, più che mai dagli amorosi pensieri ingombrato, e oppresso, da’ quali gli veniva tolto ogno riposo, gli sovvenne quello, che il più delle volte sule sovvenire agli afflitti, cioè, imaginarsi la sorte a tutte l’altre inferiore; e così non potendo , né dovendo invidiar la tranquillità del cielo, e della terra, già che molto disuguale si ritrovava il suo stato, gli occorse la quiete, che à quell’hora ogni animale dal sonno riceveva: onde mosso da invidiosa passione seguì. ET LE FERE, E GLI AUGELLI IL SONNO AFFRENA. E per farci chiara la sua intenzione, fa paragone di questo stato, col suo; e coaì segue il primo verso: VEGGHIO, PENSO; ARDO, PIANGO; CHI MI SFACE. Onde il Tetrarca non si soddisfece del tacer del cielo, e della terra, ma volse venir più al particolare, per significarci lo stato d’amore non solo dall’amorose passioni perturbato, ma da stravaganti successi. MAR. Ma fuor di questo, che voi dite Signor Berardino, sarebbe forse stata soverchia quella descrittione della notte, comprendendosi dalla prima? RO. Parmi di nò, perche non fu messa dal Tetrarca, come principale, ma come effetto della prima, che voi dite Signor Marchese; che per quello, ch’hoggi usano, e hanno
sempre




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sempre usato nelle composizioni, leggiadramente il poeta si può allungare negli effetti delle cose generali, quando però non non camminerà sopra ciò per strada molto comune, cm’ha fatto in questo sonetto il Tetrarca; che se ben sotto il tacer del cielo, poteva intender il tacer degli uccelli, e e della terra quel de’ quadrupedi, del vento poi la quiete dell’onde: nondimeno egli vuole seguire gli effetti, sì perche non poteva dir cosa, che sotto la prima general descritione non si ponesse; come anco per farci chiari quegli istessi effetti; ch’erano da lui intesi, e toglierci il pensiero d’andare diversi imaginando. MAR. Che modo dunque si terrà alle descrittioni?
RO. A mio giudicio duo modi: l’uno è questo, che qui usa il tetrarca, di metter prima una general desrittione, e poi soggiungere gli effetti suoi, e di tanti vari effetti farne scelta de’ più nobili, e avvertitamene ordinarli; l’altro modo, l’altro modo di gir vagando sopra diverse descrittioni; Avvertendo, che la prima non sia generale, cioè, che comprenda l’altre, ma tutte particolari, e d’un modo.
MAR. Qual di questi duo modi terreste per vostro, Signor Berardino? RO. Se ben io mi vo ingegnando di pssarmene senza tante sottigliezze; pure voi spronate crudelmente. Sappiate Signor Marchese, ch’io per me srivendo affettuosamente, come qui scrive il Tetrarca, lamentandosi, nessun di questi duo modi terrei,ma un altro modo, del quale in simili componimenti m’hò sempre servito. MAR. Chi se ne passasse così senza volere intendere à minuto le cose. RO. Molte volte,credo, che armeggiando voi con ami-
ci,in


ci, vi serbate alcuni colpi per non palesarli a tutti: così ho voluto far’io. ma già
ch’io vi veggo risoluto di volerlo aspere, lo dirò in quattro parole à punto. Io in una descrittione come questa della notte, ragiono con grande affetto, ne’ miei primi versi collocherei i peimi effetti, come il tacer degli uccelli, e delle fiere, e del mare. Indi per mostrare il grande affetto dell’animo, che à nessun conto in queste descrttioni particolari si può acquietare, non conoscendoli bastevoli a comprenderlo efficacemente, seguirei la descittione generale, come il tacer del cielo, e della terra, e del vento, sì per dimostrar grande l’effetto: come anco per esagerare, et far parere maggior l’affanno amoroso. Ma Ma sapete, quando io mi vorrei servire del modo, che in questo sonetto usa il Ptrarca; quando fuor d’ogni amoroso pensiero trattasi di cose gravi: perche il cominciar d’una così genaral descrttione, dà molta gravità al componimento: e il seguir poi gli effetti, tempra gentilmente guella gravità d’una desiderata dolcezza; e per non lasciar cosa a dietro; dell’altro modo, cioè delle diverse descrittiono me ne servirei nelle cose pastorali, per empirle di varietà, e conseguentemente di vaghezza. Et di gratia signor Marchese bastivi, ch’io m’abbia tanto oltre allungato. Mar. Se ben io molto volentieri procurerei intendere alcun’altra cosa da voi, Signor Berardino, pure per ubbidirvi , e per non essere crudele, come già diceste, io me ne starò, pregando questi Signori, che ancor’essi vogliano haverne la parte del tesoro, nel quale io ho messo mano. CON. Così
D il









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IL Signor Duca, come voi, Signor Marchese, n’havete buona parte avuta: rimane adesso, ch’io ne riceva conveniente mercede con la buona gratia del Signor Berardino. RO. Dite pure, Signor Conte, che difficil cosa sarebbe entrare in iscuse con voi, che riuscissero: or’ecco ch’io m’apparecchio à soddisfarvi. CON. Per quello, che noi veggiamo, il presente sonetto fù dal Tetrarca dettato nel tempo della notte; onde io molte volte ho pensato, quale ora della notte fosse stata quella, nella quale egli così altamente si lamentava, né mai hò potuto di ciò pienamente soddisfarmi: priegovi Signor Berardino à palesrmi quello, che voi ne giudicate.
RO. Grande impresa è questa, Signor Conte, poiché difficilmente possiamo saper la cose adombrate dall’antichità, e massime fuor del pensiero di coloro, c’hn fatto professione d’indovinare i sentimenti di questo poeta. . ma per quanto dall’istesso sonetto potremo intendere, io mo sforzerò d’indovinare, o pur d’appressarmi ragionevolmente al vro. Onde parmi, che per intendere bene, quale hora della notte vi fosse stata, quando il poeta questo sonetto dettava, ci ci bisogna insieme con Macrobio nel libro de’ Saturnali distinguere la notte in sette tempi. Il primo de’quali comincia dallo sparir del sole, et chiamasi Crepuscolo da crepero, che significa dubbio; conciosia che rimane ambiguo, se quest’hora è da concedere al giorno, o alla notte, partecipando dell’uno e dell’altra. Il secondo poi, quando è oscuro, chiamasi prima face; perche in quell’hora per tutto s’accendono i lumi. Il terzo chiamasi intempestiva notte, quando la notte è più den-
sa.



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e questo tempo non è atto a nessuna operazione. Il quarto si chiama Gallicinto, quando venendo la notte verso giorno i galli cantano. Il quinto è dettoConticinio: e così si chiama, che all’hora per lo più è grato il riposo. Il sesto, l’apparir dell’aurora. Il settimo dicesi Dilucolo, nel qual tempo ogn’uno sorge alle fatiche familiari. In qual di questi sette tempi si fosse ritrovato il Tetrarca quando fece il sonetto, è bene, che minutamente si consideri.Stimarebbono molti, e forse con alcuna ragione, che per essere l’hora del Conticinio più convenevole, e grata al sonno; e conseguentemente recando al sonno fra tutti gli animali quiete; la qual cosa pare, che sia l’intention del poeta; che in questo tempo il Tetrarca avesse dato principio a questo suo felicissimo componimento; ma che di quest’hora egli non intendesse, è chiaro per queste ragioni, principalmente per coloro, che rusticamenente s’essercitano ne’ campi, il più delle volte hanno per fedelissimo risvegliatolo il canto del gallo: la qual’hora, per quello, che si vede, precede al Contcinio, e così buona parte di persone sono in quel tempo fuori quiete, e avvolte nelle fatiche, oltre che suole il gallo col suo càto dar principio al garrir di tutti gli augelli, che l’uno, e l’altra farebbe all’intentione dell’autore, poiche nel silentio, di cui ragiona, v’include gli augelli; così ancora includendovi le fiere, non par proprio, che per quell’hora avesse egli inteso, già che le fiere danno all’hora principio alle loro comodità, movendo dalle grotte, e dagli antri, anco il vento in quel tempo comincia a spargere le caligini della terra; onde chia-
ramente


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ramente si vede, non essere stata quell’hora della quale noi ragioniamo. Diremo dunque, che l’hora, ne lla quale il poeta compos il sonetto, era il tempo della intempestiva notte, poiche questo tempo essendo nel terzo grado, chiara cosa è, ch’egli partecipi più della notte, che l’hora del Conticinio, la qual è nel quinto grado; e così avendo detto il poeta in un verso del sonetto, che la notte menava in giro il carro stellato, debbiamo intendere per la più densa parte di lei; come si vede, che parlando comunemente del giorno, s’intende per quell’hora, nella quale il sole, che fa il giorno, più si prevale in atto: e così bisogna dir della notte, la quale essendo fatta dalla densità, che genera maggior buio, in quell’hora vedendosi più che mai densa, propriamente quel terzo grado dovemo nomar notte, nel qual tempo conchiuderemo, il nostro poeta haver dato lamentevol prinicipio al nostro sonetto; poiche, come vuole Homero, ciamando la notte nell’Iliade donatrice de’ Dei, possiamo vedere, che nella notte quei di grand’animo rivolgono grandissime cose ne’lor petti, E non avendo egli cosa, che più lo premesse dell’amor di Madonna Laura, e non altro gli sovveniva. Eccovi Signor Conte soddisfatto; e se pur non à pieno, seguite altra richiesta, ch’io mi presterò moneta per soddisfarvi, quando della mia mancasse. CON. Sciocco sarei, s’io facessi passare così bella occasione, senza piena sodisfattion mia.io desidero sapere il parer vostro sopra un verso, che, se mal nò ricordo, segue. Guerra è il mio flato d’ira, e di dorol? Piena. In qual modo di guerra si ritrova egli
va egli



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va egli nell’amoroso flato? RO. Molte sono la maniere delle guerre: ritrovasi guerra di pretèdenze di stati, (25/03/200825/03/2008 17.06.40) che il più delle volte avviene tra le potèze; guerra per cagion d’honore, che usiamo chiamar privata; guerra civile, et anco domestica; cioè tra queste due ultime ne fò poca differenza. Hor chiara cosa è, che il Tetrarca in nessuna delle prime maniere di guerra si ritrovasse, poiche egli con Madonna Laura non havea pretendenza di stato, né d’honore: nella civile meno si ritrovava; perche derivando questo nome da civis, che val cittadino, questa guerra tra cittadini si può propriamente dire. Ma era il suo stato pieno di guerra domestica, la qual è propria della ragione col senso, perche la ra gione, come parte divina, allettata dal senso sotto ombra di bene, spesse volte àcora accorgendosi del suo intoppo, et conoscendosi come che oppressa, né potèedo da se riaversi, era nell’animo del poeta gagione di grand’ira, ch’è passione d’animo; et per lo còtrario q=sta ragione favorita alcune volte dalla mà di Dio, talmète al senso còtrastava, ch’egli addolorato ne rimaneva, per nò pter, così bella, e cominciata impresa finire: e tutte queste passioni d’animo, e di corpo erano in M. Fràcesco Petrarca, et insieme ad ogn’hora domesticamente gli facevano guerra. MAR. Io credo Sig. Berardino, che molte volte il poeta divinamète ispirato tratta di cose ne’ suoi scritti, che poi à mala pena egli può capire fuor di quell’ardor di còporre. Dico qsto, che se ‘l Petrarca questa domestica guerra avesse inteso, troppa delicata cosa sarebbe stata. RO. Per qesto chimano il poetare furore. MAR. Potrebbesi forse nomar furor Divino, come spesso da
molti



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molti ho udto. RO. Anzi per ogni ragione, essendo egli in particolar dono da Dio concesso; oonde non ci debbiamo meravigliare, s’egli fa in noi opere divine.
MAR. Potrebbonsi brevemente dir gli effetti suoi? RO. Parmi, che Platone sette brevità gli habbia chiusi, quando egli dice, in un de’ suoi più cari dialoghi: il furor Divino inalza l’animo, desta i pigri, accomoda le discordie; e unisce le diverse parti dell’animo: per la qual unione si vengono ad indovinar le cose future, e s’accende al desiderio della Divina bellezza; e del sommo bene. MAR. Non può essere, che in questo dialogo trattando Platone della poesia, non la diffinisca in un certo modo per ragionar meno oscuramente? RO. Egli parlando di questo furore, dice così, se mal non mi ricordo: il poetico furore è un’occupation delle muse, la qual muove per lo canto, e desta il corpo dal sonno al vagheggiar della mente, dalle tenebre dell’ignoranza alla luce, dalla morte alla vita, dall’oblivione alla rimembranza delle cose Divine. MAR. Divina cosa è certamente la poesia, ma in coloro, da’quali vien felicemente posseduta. RO. Et che dubitate Signor Marchese, che huomo senza naturale inclinatione possa fecondamente, e leggiadramente poetare? Ecco che il nostro Filosofo ci toglie insieme con l’esperienza ogni dubbio. MAR. Sovvieni forse Sig. Berardino l’autorità? RO. Mi sovverrà certo l’intention sua, benche non l’ordine delle parole: egli dice così, che ogn’uno, che s’accosta alle porte della poesia senza furor delle muse, sara tenuto vano esso, e la sua composizione; in modo
che






Nel 1634 nell’ambito della guerra dei trent’anni gli imperiali di Austria sconfissero gli svedesi: a questa battaglia per il loro comportamento bellicoso vengono elogiati da un rapporto spagnolo diversi napoletani e tra essi un D. Gaspar Toraldo da ritenersi nipote del nostro personaggio di Lepanto. Tutti valorosi a servire la Spagna o la potenza di turno purchè conservasse i loro privilegi feudali su un popolo spremuto, nessuno che si ponesse il problema della servitù secolare dell’Italia dalle Alpi alla Sicilia, neanche oggi.

Il più fortunato dei comandanti di Lepanto fu proprio Occhialì che stava capovolgendo le sorti della battaglia che sotto la sua guida non avrebbe avuto quell’esito. Abile manovratore non potè dispiegare le sue capacità, per l’angustia del luogo dove Alì Pascià dovette accettare battaglia per
fatto sorprendere senza via d’uscita. Egli riuscì a salvare la sua parte di flotta quasi per intero e con altre navi scampate arrivò a Costantinopoli il 18 novembre, trovando il sultano già informato e preoccupato di vedere la flotta dei cristiani davanti alle sue moschee. Il panico arrivò a tal punto che si provvide a costruire in fretta una fortezza sul lato destro dei Dardanelli per tale temuta eventualità. Occhialì si presentò al sultano relazionando sulla battaglia e dimostrando che non tutto era perduto e che sarebbe stato facile riprendersi ed anzi tornare ad attaccare con successo i Cristiani. Ed aveva ragione, perché se Lepanto non fu una vittoria di Pirro che veniva appunto da quelle parti, l’Occidente non sfruttò quella vittoria, per divisioni interne e perché ben altro preoccupava Filippo II. Dopo la Francia, l’Inghilterra entrava in lotta contro la Spagna su uno scacchiere mondiale.
Il sultano comprese: accolse sconsolato ma riconoscente il rinnegato calabrese ed i suoi reduci come i Romani i resti dell’esercito dopo la battaglia di Canne: quod victoriam non desperavissent. Subito dopo quel 1571 è di nuovo sui mari con una flotta che supera di molto quella distrutta e terrorizza razziando l’Italia. Nessuno lo può fermare sbarca dove e quando vuole. Per pareggiare Lepanto si riprende dopo 40 anni Tunisi e diventa re e padrone di tutta l’Africa mussulmana, al ritorno corseggia il Regno ed arriva da eroe a Costantinopoli. Anticipò l’idea del taglio di Suez, costruì nella capitale la grande mosche Top-Hana dove è sepolto, con lui sorse il quartiere Nuova Calabria. Lasciò l’incarico a Pascià Cicala e morì il 4 luglio 1595. Qualunque sia il giudizio, certo è il Calabrese che ha raggiunto dalla gavetta e solo per capacità e coraggio personale e da schiavo il più alto grado militare e posto di responsabilità. Al servizio del nemico? Ad Isola Capo Rizzuto gli è stato fatto un monumento: in mancanza di esempi indigeni positivi si coltivano quelli che comunque grandi sono stati, e danno lustro alla loro patria. La vita non è tutta governata da noi, il caso ne è anche padrone quando ci induce a scelte irreversibili.
L’altro comandante a Lepanto era Sebastiano Veniero (o Venièr) che abbiamo visto sfortunato nella sua digressione a Tropea. Egli all’età di 75 anni si battè con coraggio e competenza per difendere a Venezia quelle posizioni che i suoi diretti antenati avevano contribuito ad acquisire alla Repubblica. Antonio Venièr fu Doge dal 1382 al 1400, occupando Corfù ed altre posizioni nei mari di Grecia.Francesco Venièr fu Doge dal 1554 al 1556. Sebastiano aveva svolto una lunga opera al servizio della sua patria prima di avere l’incarico nel 1570 di - Capitano generale del Mar – In tale veste fece relazione al suo Senato il 29 dicembre 1572 dal 23 Luglio al 7 Ottobre 1571. Felice Toraldo la pensava inedita ed a sue spese nel 1896 ne ebbe copia. Nel 1911 il senatore Pompeo Molmenti lo informò che l’aveva inserita nella Rivista Marittima e poi nel suo libro: Sebastiano Veniero e la battaglia di Lepanto. ( Firenze, Barbera, 1899). Per i servizi resi a Venezia questa lo nominò Doge fino alla sua morte avvenuta nel 1578 a 82 anni, più di quanto insieme vissero i suoi colleghi a Lepanto. Lo stesso Molmenti ha curato nell’- Nuovo Archivio Veneto- vol. XXX, 1915, - Sebastiano Venièr, dopo la battaglia di Lepanto-.
Il Centro Studi Storici Mestre nel n. 13 del 2006( fattomi recapitare da un amico simpatico chi ringrazio) dedica un articolo alla battaglia di Lepanto, anche qui cronaca ed aneddotica perché dichiarare che cosa c’è sempre dietro le gueere ci civiltà o religione costringe in un discorso conseguente a sconfessarle entrambe. Lo stesso articolo ricorda che il Tintoretto veneziano produsse un grande quadro della battaglia con al centro il Venier dal volto feroce e determinato alla vittoria, chissà che non avesse a modello il Carlo V a Mulberg.. Tale originale bruciò subito con il palazzo dello Scrutinio che lo custodiva e fu rifatto bene da un allievo del maestro: risulta il migliore tra quelli prodotti in Europa nell’occasione. Ci sono tante altre informazioni sui Turchi ed in un paragone tra la cura igienica largamente superiore di questi rispetto ai pregiudizi nostrani dovuti ad ignoranza, viene fuori la figura dello “smerdazzer”: -A quel tempo girava per Venzia un caratteristico prestatore d’opera: lo “smerdazzer”, che poteva essere anche donna , di solito anziana. Questi annunciava a gran voce il suo passaggio. Era munito di un secchio di legno e di un ampio “tabarro” che serviva a coprire il cliente da occhi indisreti nel momento cruciale. Il compenso, modesto,variava a seconda che fosse utilizzata, per la pulizia, una pezzuola pulita o usata. I nobili espletavano i loro bisogni nei corridoi, “l’andron scuro ………..-
Tralasciando il resto tale imput fa ricordare qualcosa di analogo a Tropea, non sappiamo se per la traduzione del termime magari acquisito quando Venier venne a Tropea nell’agosto 1571. A tale data la città si governava con i Capitoli del 1567, a mò di Cosenza. Agli inizi del Settecento si chiesero ed ottennero diversi Capitoli, la cui ingegneria costituzionale metteva in atto una partenogenesi del potere con la serrata del sedile erculeo distinto da quello africano, come vedremo quando il nostro pilota capiterà nell’allora circolo Galluppi. Nella costituzione del governo comunale di Tropea in base agli ultimi capitoli era previsto il sindaco ed i cinque eletti o assessori della piazza che ogni anno determinavano i successori. Per la discordia in tali designazioni al momento si assentavano tutti o alcuni assessori mentre in meno di tre non si poteva procedere. Allora ne bastava uno che ne nominasse un altro a caso e così ancora per essere in tre compiacenti e certamente in qualche modo gratificati da chi li nominava col voto di scambio affinchè poi designassero chi stabilito a succedere a sindaco o assessore. . Vennero costoro, così costituiti con i pieni poteri, detti Tappo, Tappino e Malarrazza. Ma forse il popolo che non aveva alcuna voce in capitolo e sempre scontento a ragione della loro politica fiscale, li nominò Netu, Fetu e Stuiaculu indicando quella figura di collettore personale di voti per tornaconto personale, voto di scambio, che non è certo scomparsa e che di recente ha goduto anche dell’indulto.


I TROPEANI


Tra gli imbarcati tropeani c’era Giovan Maria Fazzali o Fazzari. Ammalatosi a Messina non potè essere presente a Lepanto, ma si assunse il compito di dare – il più noto contributo poetico della Calabria alla grande giornata, anche per valore piuttosto storico che quei suoi versi conservano- Valente 460…….. – ne abbiamo documento indiscutibile nell’unico esemplare che resta di un volumetto di - Rime del S. Colamaria Fazzali gentil’huomo della città di Tropea al serenissimo ed invittissimo sig. Don Giovanni d’Austria per la felice e gloriosa vittoria- edito a Napoli nel 1577, e conservato ivi nell’Archivio di Storia Patria. ( F. Toraldo). Tale volumetto fu pubblicato da Giuseppe Chiacchio nel 1577 e, sempre Toraldo informa nella nota 3 del suo – I Calabresi a Lepanto-, rinvenuto in detto Archivio da Bartolomeo Capasso che lo cita nella prefazione all’opera di Luigi Conforti- I Napoletani a Lepanto- edita nel 1886. Lo stesso autore riporta due sonetti del Fazzari dichiarando di - avere una fedele copia manoscritta di quella pubblicazione, fatta nel 1577.


-I-
Quel sempre lieto, e glorioso giorno
Quando a Selim seguì l’orribil caso
Che quel d’ogni virtù mirabili vaso
Li ruppe in mare il dispietato corno:

Ivi era un trace, c’havea al capo intorno
Avolte mille tele, e tronco il naso
D’un sagace Spagnol; e persuaso
Fu, ch’a la mia città si fa più adorno.

Il miser prigionier, che stolto e vano
Tenea il consiglio, e duro gli parea
Dicendo: tal virtù non vide il mondo.

Udì, ch’iratamente un Siciliano
Can, disse, va nell’inclita Tropea
Gentil cittade; ivi è Vayan giocondo.

Qui è ricordata –la mirabile arte- dei Vianeo o Boiano, ed il caso ha voluto che a Tropea Via Lepanto confluisca in via Vianeo a sud di largo Calzerano, mentre proseguendo verso porta Vaticana in largo Guglielmini si trova disastrato Palazzo Fazzari con lo stemma di famiglia da secoli sul portone. Anche questa- magione- in passato è stata sopraelevata ed ampliata abusivamente come risulta dagli atti del Decurionato prima dell’Unità d’Italia che non c’è più, se mai c’è stata dopo Roma. .
Ne seguono altri per D. Giovanni d’Austria, l’ultimo- chiude il suo dire con un sonetto alla patria sua che qui riporto come il precedente con l’ortografia del tempo:

-II-



O cara tanto al ciel nobil cittade,
Colma di gentilezze e cortesia,
Ornamento d’Italia e leggiadria:
Cameretta real di fedeltate;

Nido d’ogni virtute, e d’honestade;
In cui il mal fugge, e ‘l ben si nutre e cria:
O forte, o ricca, o saggia, o casta e pia:
O pregio de l’Italiche contrade:

Godi contenta, e senza invidia alcuna,
Con pace, con amor, e con diletto:
Che vuol il Ciel, il mondo, e la fortuna

Che poggi sovra ‘l cerchio de la Luna:
E il tuo valor sia scorto il più perfetto
Di tutt’ ‘l Regno: ch’altri adombra e ‘nbruna.


Un altro sonetto del Fazzari tratto dall’opera ricordata del Conforti e riportato da G: Valente in - Calabria Calabresi e Turcheschi- a pag. 460, per le notizie che da in rapporto a Tropea.

-III-

Per servir meglio l’onorate imprese
Del mio Signor e il suo valor tremendo,
Montai su i gran navili, acciò seguendo
Visto havessi le cose degne e ‘ntese.

Ma di gran febbre mie virtude offese
Fur, che convenne molti dì languendo
Starmi in Messina, al letticciuol ardendo,
Tanto, che venne ‘l mio Signor cortese,

Cinto di palme e lauri, e con lui venne
Il mio Capitan Stefano Suriano,
Tre Fazali, un Carrozza e tre Baroni,

Francesco Portogallo, dolce e humano,
Cotesti mi fer chiar di quanto avvenne
Vidi galee, vidi insegne ed antinomi.


Per leggere gli altri sonetti non resta che potersi rivolgere all’archivio privato della famiglia Toraldo di largo S. Michele, cui sarà pervenuta la copia manoscritta procuratasi dal suo antenato F. Toraldo. Lo stesso riferisce che -Un solo tropeano perdè la vita in quella memorabile battaglia delle Curzolari, Ferdinando Barone che pur lottò coraggiosamente contro le orde nemiche! Non si intende perché si parla di Isole Curzolari che si trovano nel medio Adriatico, mentre Lepanto è ben lontana. Ma se anche tale autore enfatizza il ruolo del suo antenato questi seppe prodigarsi contro i pirati prima e dopo Lepanto.Si vuole nato a Tropea nel 1540 – sviluppò un eguale amore per le lettere e le armi-. Fu barone di Badolato dove si riferisce un suo primo fortunato scontro, frutto di astuzia e coraggio, contro una nave pirata che agiva in solitario agli ordini di un rais che venne catturato col suo equipaggio, parte del quale fu eliminato nello scontro. (Roseo). Appare improbabile l’esito voluto di tale scontro: 23 pirati uccisi, 30 prigionieri compreso il rais Zerbinassan, e soltanto qualche ferito tra i Calabresi guidati dal Toraldo. La retorica è antica tra di noi, pur tenendo conto che in quegli anni la Calabria era su ogni punto della sua costa tenuta sotto un terrore continuo di saccheggi, morte e schiavitù.
Ho voluto extrapolare le presenti provvisorie note, che non mancheranno di difetti, perché in un recente incontro tra cittadini tropeani si è accennato a gemellaggi della nostra città con città straniere. Credo che un tale evento con Lepanto sarebbe il più auspicabile, sempre che si tenti una visione realistica di quanto accaduto anche nelle cause e conseguenze, senza retorica che non vuol dire senza emozione. Ma questa non deve farci cadere nella truculenta versione di scontro di civiltà o religione neanche in presenza di tragici fatti negli ultimi anni. La storia è come un panorama: dipende dal luogo di osservazione.
Bibliografia minima: ci sono opere generali sulla battaglia ed opere locali in cui gli autori cantano i partecipanti della loro città. Ogni storia poi di città calabresi dedica un capitolo all’argomento, come pure le opere generali di storia della Calabria.


Felice Toraldo: I Calabresi a Lepanto
Felice Toraldo : I Tropeani a Lepanto

Chiapparo Giuseppe: I Tropeani a Lepanto(G. Valente dice di aver preso visione
tale manoscritto)

Gustavo Valente : Calabria Calabresi e Turcheschi nei secoli della pirateria (1400-1800)

Gustavo Valente : Storia della Calabria nell’età moderna.

Gustavo Valente: Il Barone di badolato Gasparo Toraldo, in il – Popolo di Roma-
del 20 settembre 1935.

Giuseppe Parisio del Cardinale: Cronache della vecchia Calabria- I Reggini a
Lepanto.

Giuseppe D’Amato: De Amanthea ejusque erga Reges Fidelitate Laconismus….

Scipione Mazzella: Descrittione del Regno di Napoli.

Camillo Monfroni: Storia della Marina Italiana dalla caduta di Costantinopoli alla
battaglia di Lepanto.

L. Conforti: I napoletani a Lepanto.

Nicolò Toppi: Biblioteca Napoletana

CONCLUSIONE.
Capisco che quanto affermato in forma sia pur da rivedere rechi fastidio a qualcuno.
A costui raccomando :- A me solo il tuo furor , risparmia pure gl’innocenti!